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Il sanpietrino ecologico che salverà il posto di lavoro a 300 operai

Nel Frusinate gli operai della Ideal Standard tirano un respiro di sollievo: un accordo firmato ieri al Ministero dello Sviluppo economico tra istituzioni, azienda e sindacati sancisce il passaggio dello stabilimento di Roccasecca alla società Saxa Grestone. La soluzione  consentirà di salvare quasi trecento posti di lavoro nei prossimi ventiquattro mesi, nell’alveo di un piano di riconversione che porterà l’azienda a dedicarsi alla produzione di un nuovo tipo di sanpietrino ecofriendly il cui mercato di sbocco naturale dovrebbe essere soprattutto nel nord Europa.

L’intesa, siglata sotto la diretta supervisione del ministro Carlo Calenda, prevede il trasferimento della proprietà della fabbrica alla società controllata dalla Saxa Gres, realtà imprenditoriale specializzata nella produzione di gres porcellanato e di ceramica. Un investimento di trenta milioni di euro, finanziato da Regione Lazio e Governo, sosterrà economicamente la conversione dell’impianto che ora produce sanitari, per consentire la realizzazione di un nuovo tipo di sanpietrino, “non in pietra ma che è un esempio di economia circolare”, come ha spiegato lo stesso ministro.

Saxa Gres è il più grande produttore di piastrelle fuori dalla zona di Sassuolo, e ha brevettato e presentato nel 2017 un particolare tipo di sanpietrino prodotto utilizzando la cenere di scarto degli inceneritori. L’esito è quindi un prodotto costituito per il 30% di rifiuti urbani, che assomiglia ai famosi cubetti di basalto (la cui materia prima è di origine cinese), ma ne riduce l’impatto ambientale ed è rispettoso dell’ambiente.

In attesa del piano industriale, intanto è stato annunciato che lo stabilimento passerà di proprietà il 22 febbraio, e che successivamente verranno avviate le operazioni di conversione. “Ci hanno assicurato che entro l’anno sarà avviata la nuova produzione – ha spiegato ad Agi Enzo Valente (Ugl) – ed entro ventiquattro mesi tutti gli operai dovrebbero già essere reintegrati”.

I circa trecento operai che rischiavano il posto di lavoro quindi saranno salvati nel nuovo assetto, e anzi “non saranno neppure riassunti, ma passeranno direttamente alla nuova proprietà", come ha spiegato lo stesso ministro. 

Ideal Standard, azienda belga con 17mila dipendenti nel mondo, aveva avviato il 30 novembre la procedura di cessata attività, avvisando gli operai solamente il giorno prima. L’intervento record delle istituzioni, insieme al sollevamento degli operai e dei cittadini del territorio, ha consentito che si trovasse una soluzione in tempo record, con piena soddisfazione dei lavoratori. “Siamo molto contenti – ha spiegato Valente – tanto più che non era mai accaduto che un intero territorio dicesse basta, e così siamo stati ascoltati”. 

Agi News

Dal governatore di Bankitalia un (implicito) messaggio ai partiti

Mantenere l'equilibrio dei conti pubblici senza lasciare dubbi agli investitori, ridurre l'incidenza del debito, proseguire "con decisione sul cammino di riforme". Questo il compito che attende il prossimo esecutivo secondo il governatore della Banca d'Italia, Ignazio Visco, intervenuto oggi al tradizionale appuntamento del congresso Assiom Forex, la sua prima uscita pubblica dalla riconferma alla guida della banca centrale. Visco ha inoltre confermato uno scenario di crescita dell'1,5% del Pil per il 2018, rassicurato sul "mantenimento di condizioni finanziarie accomodanti" e richiamato le banche a continuare nella riduzione dei crediti deteriorati e del recupero di redditività, "anche con aggregazioni".

"Un aumento del disavanzo non sostituisce le riforme"

"Il consolidamento della ripresa richiede di procedere nello sforzo di riforma dell'economia", ha detto Visco, non si devono "lasciare dubbi agli investitori sulla determinazione del governo a mantenere l'equilibrio dei conti pubblici", non si deve "deviare dal percorso di riforma avviato in questi anni, un percorso da proseguire con decisione". "Non è una questione di vincoli europei – ha insistito – riguarda lo sviluppo equilibrato. Un aumento del disavanzo pubblico non può sostituirsi alle riforme, rischierebbe di essere controproducente, visto che il problema del debito non può essere eluso. Anche senza i vincoli del Patto di stabilità, resta per noi l'esigenza di compiere scelte responsabili". Un appello che ha il sapore di un monito ai partiti perché diano un taglio alle promesse elettorali troppo costose e irrealistiche.

Sul fronte monetario, ha avvertito Visco, "il rischio di deflazione è stato scongiurato, ma rimane arduo spingere al rialzo le attese di inflazione". La Bce continuerà "a perseguire l'obiettivo d'inflazione con pazienza", lo scenario di crescita "presuppone il mantenimento di condizioni finanziarie accomodanti". Non bisogna però temere un futuro rialzo dei tassi se l'Italia avrà fatto quanto necessario: "non è della normalizzazione della politica monetaria che ci si deve preoccupare, ma della credibilità e dell'efficacia delle riforme e del processo di riduzione dell'incidenza del debito sul prodotto".

In Italia, ha sottolineato il governatore, una diminuzione continua e tangibile dell'incidenza del debito sul Pil non deve essere ritardata, la riduzione dei tempi richiede disciplina di bilancio" e, ha ripetuto ancora, "sono essenziali le riforme strutturali volte a innalzare il potenziale di crescita dell'economia". Quanto all'economia, ha aggiunto Visco, "in Italia il Pil ha nettamente accelerato nel 2017, la crescita secondo le prime stime è dell'1,5%, dovrebbe proseguire a un ritmo prossimo all'1,5% nel 2017, resterebbe sopra l'1% anche nel prossimo biennio.

Il monito sui crediti deteriorati

Le imprese italiane sono vitali, le start up sono quadriplicate, sono ora 8000, rispetto al 2014". Non sono mancati inoltre i richiami all'Europa, dove Visco nota una "scarsa fiducia" e un processo di riforma "che stenta ad avanzare", in particolare nella definizione delle regole per la gestione delle crisi bancarie e nel completamento dell'Unione bancaria. Riguardo all'unione politica "l'Italia è chiamata a contribuire con autorevolezza al dibattito, la sua posizione sarà tanto più forte e la sua azione tanto più efficace quanto più sarà continuo e credibile l'impegno a migliorare il potenziale di crescita e ad assicurare la stabilità finanziaria".

Infine il capitolo sulle banche, per le quali "è urgente perseguire la riduzione dei costi e il pieno recupero della redditività anche con operazioni di aggregazione". La redditività nei primi 9 mesi del 2017 "è migliorata ma resta inevitabile una profonda revisione dei modelli di operatività". Quanto agli Npl "è necessaria la riduzione dei crediti deteriorati per ridurre i rischi e i costi dei finanziamenti. Va ottenuta con interventi che tengano conto delle condizioni di partenza, siano sostenibili e non producano effetti prociclici potenzialmente destabilizzanti". E per le Bcc, ha concluso Visco, "la preparazione della costituzione dei gruppi cooperativi va accelerata con il pieno sostegno alle future capogruppo da parte delle affiliate". 

Agi News

Il digitale sta salvando i conti del New York Times, e potrebbe mantenere 1.300 giornalisti

Il New York Times digitale cresce e spinge i conti della società, che pure chiude il quarto trimestre del 2017 in perdita. I numeri del servizio di vendite di abbonamenti online (lanciato nel 2011), sono salite del 46% nel 2017 a 340 milioni di dollari, con 2,2 milioni di lettori, in aumento anche le vendite di annunci digitali del 14%. New York Times Company, l'editore, ha però registrato un rosso di 57,84 milioni di dollari contro gli utili per 37,63 milioni di dollari dello stesso periodo dell'anno precedente.

"Il 2017 è stato un anno segnato da crescita e innovazione sia sul fronte giornalistico sia su quello aziendale", ha dichiarato Mark Thompson, presidente e amministratore delegato della compagnia. "Abbiamo registrato la nostra migliore crescita dei ricavi, spinti dalle sottoscrizioni digitali, che sono aumentate di oltre 100 milioni di dollari anno dopo anno – ha aggiunto – un chiaro segnale del fatto che il nostro modello di business basato sull'abbonamento si sta dimostrando un modo efficace per sostenere le nostre grandi ambizioni giornalistiche".

Il Nyt, che ha compiuto 166 anni, nota il tech magazine Recode, sta crescendo come un colosso della Silicon Valley e cita i dati di crescita di Facebook (47%) e Google (30%). L'obiettivo per il quotidiano diretto da Dean Baquet è sviluppare un business digitale da 800 milioni di dollari entro il 2020. Obiettivo alla portata, se si considera che nel 2017 il fatturato online è aumentato del 30% e che la società ha registrato 607 milioni di vendite digitali totali per l'anno, circa 2,5 volte i numeri del 2011.

Ma un business interamente digitale da 800 milioni di dollari è in grado di sostenere una struttura che impegna 1.300 giornalisti, considerati i dati di vendita in calo dei giornali cartacei? Sì, se si elimina proprio il supporto cartaceo, secondo il media observer Felix Salmon, che, intervistato da Recode, mette in evidenza come i costi di un'operazione interamente digitale siano molto più bassi. 

Agi News

Sorpresa: Twitter ha chiuso per la prima volta un trimestre in utile

La notizia è clamorosa. Twitter, che in undici anni di esistenza non aveva mai chiuso un bilancio in utile, ha archiviato gli ultimi tre mesi del 2017 con un profitto netto di 91 milioni di dollari, da confrontare con una perdita netta quasi doppia, 167 milioni di dollari, nell'analogo periodo del 2016. Sopra le attese il fatturato: 732 milioni di dollari, in crescita del 2% rispetto a un anno prima, contro i 686 milioni di dollari attesi dagli analisti. E Wall Street festeggia: prima dell'apertura delle contrattazioni a New York, i titoli del social network hanno guadagnato il 15% nel prelistino. 

Lo storico traguardo è stato raggiunto a dispetto di un'utenza che continua a crescere troppo poco: 330 milioni di utenti mensili attivi, invariati rispetto al trimestre precedente e in crescita di appena 12 milioni (ovvero il 4%) rispetto al quarto trimestre del 2016. Quanto agli utenti giornalieri, sono cresciuti del 12% in un anno, segnando il quinto trimestre consecutivo di crescita a doppia cifra. Quest'ultimo dato è però difficile da valutare, dal momento che il numero complessivo degli utenti giornalieri non è noto, per quanto girino diverse stime al riguardo.

Cosa è successo? La risposta sta innanzitutto nel miglioramento della raccolta pubblicitaria, che ha fruttato ricavi per 644 milioni di dollari, ovvero l'88% del fatturato complessivo. Questo è però anche il risultato di mesi di sforzi per riguadagnare la fiducia degli investitori, che già da un paio di mesi avevano ricominciato a guardare con meno pessimismo alle prospettive dell'azienda, come appare evidente osservando l'andamento del titolo in Borsa.  

 

Il sorpasso su Snapchat

Il prezzo delle azioni è quindi raddoppiato in sei mesi, allontanandosi decisamente dal minimo storico di 13,90 dollari segnato nel maggio 2016 e portando Twitter a sorpassare Snapchat​ in termini di quota di mercato, portandosi a 24,7 miliardi di dollari, contro i 23,3 di Snap, casa madre del social network dei 'fantasmini', che due giorni fa ha pubblicato un bilancio anch'esso superiore alle attese della Borsa (che infatti lo ha premiato con un robusto rialzo, poi ridimensionato) ma ancora in perdita. Insomma, il vecchio e vilipeso Twitter è riuscito dove ancora falliscono quegli enfant prodige della Silicon Valley che appena un anno fa sembravano l'unico vero spauracchio di Facebook.

A recuperare i consensi degli investitori è stato prima di tutto il duro piano di ristrutturazione avviato nel 2016 con il licenziamento del 9% degli addetti (circa 350 persone) e proseguito l'anno dopo con la vendita a Google dei prodotti per sviluppatori e la chiusura del servizio video Vine. Le novità più rilevanti sono però arrivate tutte nell'ultimo trimestre del 2017. In primo luogo con il lancio di politiche più risolute contro i messaggi di odio e le molestie online, che hanno allontanato da Twitter l'aura di azienda inerte e capace solo di restare a guardare gli utenti dare il peggio di sé. In seconda battuta il raddoppio dei caratteri a disposizione per i cinguettii, novità che all'epoca era stata accolta con scetticismo ma rappresenta forse l'innovazione più visibile e radicale apportata a un prodotto che appena qualche anno fa sembrava avere come strategia principale scimmiottare Facebook in maniera un po' maldestra.

Il fattore Russiagate

Non vanno infine sottovalutati gli effetti sull'immagine di Twitter della solerzia nell'accogliere le richieste delle autorità Usa di contrastare le presunte influenze russe nella campagna elettorale americana, rimuovendo le utenze sospette. Certo, che i media vicini al Cremlino o i bot di Mosca abbiano davvero avuto un impatto sull'elezione di Trump alla Casa Bianca è tutto da dimostrare, così come non ci sono prove di una campagna di disinformazione orchestrata direttamente da Putin. Però, in tempi di 'techlash​', i giganti di internet hanno tutto da guadagnare nel mostrarsi più collaborativi con la politica. Twitter forse lo ha capito prima di tutti. O è stato costretto a farlo prima degli altri, non essendo abbastanza grande da potersi permettere di ignorare il problema.

@CiccioRusso_Agi

Agi News

Accordo storico in Germania: i metalmeccanici potranno lavorare 28 ore

Accordo storico in Germania sull'orario di lavoro di 28 ore settimanali tra il sindacato dei metalmeccanico IG Metall e gli industriali. Le parti hanno siglato un'intesa pilota, che fa da apripista in Europa e sta già suscitando reazioni e interesse in tutta l'area comunitaria. Previsto anche un incremento del salario pari al 4,3%.

L'accordo è stato firmato nel Baden-Wurttemberg (la regione che ospita gli impianti di Porsche e e Daimler) e riguarderà 900mila lavoratori, ma il sindacato punta ad estenderlo ai 3,9 milioni di operai del Paese. Gli addetti con contratti a tempo indeterminato potranno ridurre, su base volontaria, la loro settimana lavorativa da 40 a 28 ore per un periodo limitato di 6 a 24 mesi, tornando poi al lavoro alle stesse condizioni che avevano in precedenza. Chi sceglierà le 28 ore per occuparsi dei figli piccoli o di parenti malati o perché svolge un lavoro usurante non subirà neanche il taglio dello stipendio, a fronte del taglio delle ore. Un punto, quest'ultimo, sul quale sindacati e aziende si erano scontrati duramente. Le imprese hanno ottenuto dal canto loro la possibilità di estendere la settimana lavorativa a 40 da 35 ore sempre per i dipendenti che vorranno farlo su base volontaria. I sindacati avevano minacciato uno sciopero a tempo indeterminato se le loro richieste non fossero state soddisfatte, una protesta che nel settore non si sarebbe vista dal 2003. 

In Italia è arrivato un deciso apprezzamento per l'accordo dalla segretaria generale della Cgil Susanna Camuso: "Da tempo diciamo che i salari devono crescere e dal punto di vista dell'orario, siamo di fronte ad una novità importante, cioè che la flessibilità viene vissuta in ragione delle scelte dei lavoratori e non unicamente delle esigenze della produzione, senza riduzione del salario. Mi pare che questa sia una interessante sperimentazione". 

Agi News

Chi è l’uomo che scommette sul caos italiano per fare un mucchio di soldi

Il più grande hedge fund del mondo ha triplicato la sua scommessa contro l'Italia prima delle elezioni del prossimo mese, scrive il Times. Bridgewater ha creato quello che secondo alcuni è una delle più grandi posizioni short della sua storia, puntando 3 miliardi di dollari contro una serie di società italiane, tra cui Intesa e Atlantia.

L'hedge fund americano da 160 miliardi sta scommettendo che le elezioni porteranno una nuova ondata di caos politico nella terza più grande economia della zona euro. Una ricerca di Bloomberg ha rilevato che negli ultimi tre mesi Bridgewater aveva triplicato la sua scommessa contro l'Italia da una posizione a breve originaria di 1,1 miliardi di dollari in ottobre vendendo allo scoperto le azioni di 18 blue chip. Nel mirino del fondo ci sono in particolare i titoli di Intesa, Unicredit, Enel, Generali, Atlantia, Terna e Snam. Dietro le scommesse al ribasso di Bridgewater, spiega Bloomberg, ci sono le elezioni del 4 marzo e l'incertezza politica riguardante il loro esito. Già nell'ottobre scorso Bridgewater, il cui fondatore Ray Dalio, fin dal 1975, molto prima dell'uso intensificato dei computer, ha sempre utilizzato gli algoritmi per comprare e vendere asset, aveva scommesso oltre 700 milioni di dollari contro le principali banche italiane.


Chi è Ray Dalio

Ray Dalio, al secolo Raimondo, nasce a Jackson Height, nella contea di Queens, New York, nel 1949. Figlio di un musicista Jazz di origini italiane. Dalio inizia a investire all’età di 12 anni, racconta OkForex quando acquista le azioni della Northeast Airlines per 300 dollari, presto diventati 600 quando la compagnia aerea si fonde con un’altra società. Dopo questo primo successo, si iscrive alla Long Island University e si laurea in finanza. Completa la sua formazione con un MBA alla Harvard Business School. Nel 1974, a soli 25 anni, fonda la Bridgewater Associate, una società di gestione con base in Connecticut e specializzata in hedge fund. Entrerà nella storia proprio con la Bridgewater: l’hedge fund da lei gestito diventerà nel 2012 più grande del mondo, con 160 miliardi di dollari in gestione. Il fondo di Bridgeater è chiuso. Nessuno può più entrarci. E’ stato raggiunto il limite fisiologico di asset gestiti. Per comprendere però la sua importanza, basta un dato. Durante l’ultimo anno di apertura (2014), l’entry level era di 100 milioni di dollari. Ma il concetto che ha reso veramente famoso Ray Dalio è quello di meditazione trascendentale. E’ stato il primo a portare un elemento della filosofia orientale nel mondo della finanza. La meditazione di Ray Dalio segue le dinamiche di quella conosciuta, non ha apportato cambiamenti, se non quello (epocale) di utilizzarla per aumentare le proprie performance di investitore. Ora si sta sta godendo la nuova fama come autore di best seller. Il suo libro 'Principles: Life and Work' spiega le idee non ortodosse che lo hanno aiutato ad accumulare una fortuna di 17 miliardi di dollari.


Il Times pone l'accento su due elementi: gli ultimi sondaggi che indicano che nessun gruppo sarà in grado di mettere insieme una maggioranza e le preoccupazioni circa il successo di M5s, che alla posizione antieuropeista unisce piani che consentirebbero ai mutuanti di recuperare più crediti inesigibili.

Le banche italiane hanno un ammontare di 200 miliardi di prestiti tossici, e come affrontare queste sofferenze ha creato più di un interrogativo sulla salute degli istituti di credito.

Quelli che invece credono nell'Italia

Tuttavia il Times sottolinea come Bridgewater sia l'unica a non credere ai titoli italiani. 

Gli analisti di UBS, ad esempio, hanno pubblicato un rapporto sulle banche italiane che gli ha dipinto un quadro generalmente salutare e ha sottolineato che anche per il recente aumento del valore delel loro azioni, le imprese italiane restano un buon investimento.

Allo stesso modo, in una nota ai clienti, Capital Economics ha affermato che ci sono poche ragioni per preoccuparsi delle elezioni e ha osservato che il Paese è "abituato al'instabilità di governo" e che anche se i partiti anti-Ue dovessero ottenere più del 50% dei voti, non sarebbero in grado di portare il Paese a un referendum per uscire dall'Unione. Ray Dalio, 68 anni, fondatore di Bridgewater, 

Agi News

Perché il neonato colosso Fuji Xerox scontenta sia giapponesi che americani

La giapponese Fujifilm ha annunciato l’accordo per rilevare Xerox, l’azienda americana di stampanti e fotocopiatrici, in un affare che si concluderà, tra luglio e agosto prossimi, in una rinnovata joint venture. Tecnicamente si chiama merger, in parole povere è una fusione in una nuova società.

In questo caso la nuova società rimarrà la Fuji Xerox, l’associazione tra le due società che esiste dal 1962, che però cambierà nelle percentuali di gestione. A transazione conclusa, il potere sarà in mano giapponese: la Fujifilm avrà infatti il 50,1% della joint venture. Apparentemente meno del 75% che ha oggi, ma in realtà non è così perché Xerox verrà inglobata in Fuji Xerox.

I dettagli dell’accordo, annunciato mercoledì 31 gennaio, prevedono che Xerox mantenga comunque il proprio marchio e rimanga quotata alla New York Stock Exchange.

Il Financial Times ha definito “inusuale” la struttura dell’accordo che si articola in tre fasi. “Attraverso prestiti delle banche per 6,1 miliardi di dollari Fuji Xerox ricomprerà il 75% delle azioni della joint venture in mano a Fujifilm – spiega il quotidiano statunitense -. A quel punto la stessa società giapponese userà quei proventi per ottenere il 50,1% delle azioni di Xerox. E in ultimo Fuji Xerox si fonderà con Xerox”.

Insieme è meglio. O no?

Il gruppo, come detto, sarà in mano giapponese. E anche se il sito ufficiale di Xerox utilizza il promettente slogan “Better. Together” per annunciare l’accorpamento che promette di “creare la società leader globale nelle tecnologie di stampa innovativa e nelle soluzioni di lavoro intelligente”, non tutti sono d’accordo. Per Bloomberg, ad esempio, l’accordo segna “la fine dell’indipendenza del gigante che un tempo era l’icona dell’innovazione americana”. Anche da Tokyo i commenti all’operazione non sono lusinghieri: il Financial Times riporta la dichiarazione di un anonimo analista di Fujifilm secondo cui è “un affare di non-crescita non essendoci ragioni valide per comprare Xerox”. Il motivo? “Fujifilm possiede già oggi il 75% della joint venture, perciò sono già sufficientemente esposti. Avrebbero dovuto investire le risorse in aree utili a crescere (negli ultimi tempi i giapponesi avevano aperto nuove aree di business come cosmetici, ndr) oppure restituire i fondi agli azionisti”.

Via libera ai tagli

Tutti scontenti quindi, sia da una parte che dall’altra del Pacifico. Ma il nuovo assetto societario colpirà pesantemente anche i dipendenti della Fuji Xerox nella regione asiatica: sono annunciati più di 10 mila licenziamenti, pari al 22% della forza lavoro della joint venture.

Non più tardi di due settimane fa il quasi ottantaduenne imprenditore newyorkese Carl Icahn, noto per le sue operazioni di corporate raid – cioè investire in aziende indebitate o in difficoltà cercando di risanarle o di smembrarle e rivenderle -, aveva scritto una lettera infuocata rivolta agli altri azionisti di Xerox (Icahn ne è il primo, con azioni pari al 9,7% del totale). Nel testo l’arzillo imprenditore attaccava il management della società statunitense accusandola di essere “chiaramente incapace di rinegoziare la joint venture in modo più favorevole”.

Con l’accordo odierno il nuovo super gruppo da 18 miliardi di dollari di ricavi prevede di risparmiarne 1,7 entro il 2022. La joint venture, quando l’accorpamento diverrà effettivo, sarà guidata da Jeff Jacobson, attuale CEO di Xerox, mentre il parigrado di Fujifilm, Shigetaka Komori, ne assumerà la presidenza.

“Abbiamo preso la decisione in fretta – ha commentato Komori – ma credo sia una soluzione creativa”. Il CEO di Xerox ha invece spiegato come l’unione possa assicurare migliori margine nelle nuove tecnologie, offrendo ricavi maggiori e abbattendo i costi, annunciando anche una somma pari a 2,5 miliardi di dollari di dividendi destinata proprio agli azionisti di Xerox. 

Agi News

Così il fruttosio sostituirà il petrolio nella plastica del (prossimo) futuro

La plastica del futuro arriva dal Wisconsin, lo Stato americano ricco di foreste, laghi, terreni agricoli e fattorie. Una soluzione naturale, ricavata da zucchero e pannocchie di mais, che promette di sostituire il petrolio come materia prima. Ma la novità è soprattutto economica: produrla in grandi quantità, come riporta la rivista Science, costerebbe poco più del metodo tradizionale, circa il 3% in più. Ecco perché.

Come funziona la nuova plastica?

Per capire come poter sostituire la plastica è meglio fare un passo indietro e spiegare come nasce quella di oggi, che ufficialmente si chiama PET (polietilene tereftalato). L’origine è proprio il petrolio grezzo che, attraverso il cosiddetto cracking, viene sottoposto a una sorta di scissione delle proprie catene petrolifere fino ad arrivare a molecole con un doppio legame carbone/carbone, la base delle plastiche definite polimeri.

Le bioplastiche funzionano in maniera differente: niente petrolio, e il polimero in questo caso è fatto di glicole etilenico e un composto chiamato acido furandicarbossilico (FDCA) ricavato dalle biomasse.

Ricapitolando: l’FDCA è un prodotto ottenuto da materiale organico e non da petrolio, ed è la base per produrre l’alternativa al PET, chiamata PEF (polietilene furandicarbossilato).

Far quadrare i conti

Il nocciolo della ricerca sta nel ricavare l’FDCA in maniera economica, un obiettivo finora mai raggiunto. I ricercatori del Wisconsin sono invece riusciti a individuare una sostanza chiamata y-valerolactone(GVL) in grado di risolvere il problema. Si tratta di un liquido trasparente derivato dalle pannocchie che, grazie anche a un catalizzatore di acido organico, riesce a trasformare il fruttosio – cioè lo zucchero di frutta e verdura – in un precursore dell’FDCA.

Ecco dunque spiegata la ragione dell’abbattimento dei costi: i ricercatori hanno calcolato che, grazie alle economie di scale – cioè aumentando la produzione – l’FDCA verrebbe a costare 1495 dollari per tonnellata, appena 45 in più del metodo che oggi porta al PET.

“Un processo molto più green”

Secondo Ali Hussain Motagamwala, uno degli autori della ricerca, il nuovo meccanismo per ricavare bioplastica “è molto più green di quello normale”. In primo luogo elimina combustibili fossili dalla produzione, sostituendoli con materiali rinnovabili. Dal punto di vista dell’FDCA, poi, non richiede costosi reattori per attivare la trasformazione del fruttosio. 

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Produttività e costo del lavoro: com’è messa davvero l’Italia

Il candidato del centrodestra alla Regione Lazio Stefano Parisi, ospite de L’Aria che tira, lo scorso 29 gennaio ha dichiarato (minuto -34.50): “Che cosa è successo in Italia? È successo che negli ultimi vent’anni siamo il Paese in cui la produttività, cioè quanto il lavoro produce, è cresciuta meno di tutti gli altri Paesi europei; il costo del lavoro è il più alto, i lavoratori prendono pochi soldi in tasca e paghiamo molto alto il costo del lavoro per pagare contributi e tasse”.

Le due affermazioni contenute nella dichiarazione sono una corretta e una errata.

La produttività

La produttività, che come spiega Parisi è “quanto il lavoro produce” o meglio l’ammontare di beni e servizi prodotti in un dato periodo, negli ultimi vent’anni ha visto l’Italia fare peggio di chiunque altro in Europa.

Lo certifica Eurostat, il servizio statistico della Commissione europea, in questa tabella. Fatto 100 la produttività del 2010 in ogni singolo Paese, possiamo vedere quanto è cresciuta da allora fino al 2016 (ultimo anno per cui ci sono dati disponibili) e quanto era cresciuta dal 1996 al 2010.

L’Italia nel 1996 era già al 99,9 della produttività (fatta a 100) del 2010. Nel 2016 siamo addirittura scesi al 97,9.

Nessun altro Paese europeo vede il proprio dato riferito al 2016 inferiore a 100, tranne la Grecia (che segna 94,1). Anche il Paese ellenico, tuttavia, nell’arco dei vent’anni ha fatto meglio dell’Italia. Infatti tra il 1996 e il 2010 la produttività greca era cresciuta notevolmente. Fatta a 100 la produttività raggiunta nel 2010, nel 1996 la Grecia era all’82,3.

Siamo dunque ufficialmente il Paese con la peggior prestazione in termini di crescita della produttività. Le altri grandi economie del continente, che dunque come l’Italia e a differenza dei Paesi di recente sviluppo economico partivano da una situazione di produttività già avanzata, fanno comunque tutte meglio di noi.

La Germania era al 90,6 nel 1996 (sempre fatto 100 nel 2010) e nel 2016 è al 104. La Francia era all’87,8 nel 1996 e nel 2016 è al 103,4. La Spagna era al 94,4 nel 1996 e venti anni dopo è al 105,8. Il Regno Unito era all’83,9 nel 1996 e nel 2016 è al 104,1.

Dunque la prima affermazione di Parisi è corretta.

Il costo del lavoro

Sul costo del lavoro invece Parisi si sbaglia, se guardiamo ai valori assoluti. In Italia, sempre secondo Eurostat, nel 2016 il costo medio del lavoro era di 27,8 euro all’ora.

Hanno un costo più alto ben dieci Paesi su 28: Danimarca (42 €/h), Belgio (39,2 €/h), Germania (33 €/h), Irlanda (30,4 €/h), Francia (35,6€/h), Lussemburgo (36,6 €/h), Olanda (33,3 €/h), Austria (32,7 €/h), Finlandia (33,2 €/h) e Svezia (38 €/h).

Anche la media della UE a 28 è superiore, a 29,8 €/h.

La parte “non” di stipendio

Parisi comunque sottolinea che il problema del costo del lavoro non è tanto quanto guadagnano i lavoratori, anzi, ma il peso di “contributi e tasse”.

Ancora su Eurostat possiamo verificare che in Italia la parte “non di stipendio” del costo del lavoro corrisponde percentualmente – in media – al 27,4%. Siamo al di sopra della media della Ue a 28, che è del 26%, ma non siamo i peggiori in Europa.

Hanno una percentuale “non di stipendio” più alta la Francia (33,2%), la Svezia (32,5%), la Lituania (27,8%) e il Belgio (27,5%).

Dunque anche prendendo in considerazione questa ulteriore variabile, la seconda affermazione di Parisi resta scorretta.

Conclusione

Parisi ha ragione sulla crescita della produttività in Italia, che è in effetti stata la peggiore in Europa negli ultimi vent’anni (e anche negli ultimi sei fa peggio di noi soltanto la Grecia).

Il candidato di centrodestra alla regione Lazio sbaglia tuttavia sul costo del lavoro: in Italia non è il più alto in Europa, anzi è al di sotto della media Ue. Anche la parte “non di stipendio” del costo del lavoro in Italia, pur al di sopra della media Ue, non è un record.

 

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Controverso

"Negli ultimi vent’anni siamo il Paese in cui la produttività, cioè quanto il lavoro produce, è cresciuta meno di tutti gli altri Paesi europei; il costo del lavoro è il più alto, i lavoratori prendono pochi soldi in tasca e paghiamo molto alto il costo del lavoro per pagare contributi e tasse"

L'aria che tira
lunedì 29 gennaio 2018

 

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Istat: in calo a gennaio la fiducia dei consumatori e delle imprese

Calano a gennaio la fiducia dei consumatori e delle imprese. Lo rileva l'Istat.  L’indice del clima di fiducia dei consumatori diminuisce, passando da 116,5 a 115,5  rimanendo in linea con il livello mediamente registrato da settembre 2017. L’indice composito del clima di fiducia delle imprese mostra un calo più marcato (da 108,7 a 105,6) in larga misura determinato dalla flessione nei servizi, mentre si rileva una sostanziale tenuta per la manifattura. La contrazione nei servizi è condizionata dal netto ridimensionamento della fiducia nel turismo che segue la forte accelerazione del secondo semestre 2017. La flessione del clima di fiducia dei consumatori, spiega l'Istat, è essenzialmente dovuta alla diminuzione della componente economica (da 142,9 a 141,1)  e di quella futura  (da 121,3 a 120,9); invece, la componente personale e quella corrente aumentano (da 106,9 a 107,6 e da 112,0 a 112,8, rispettivamente). Più in dettaglio, si evidenzia un peggioramento delle aspettative sulla situazione economica del paese nonché un aumento delle aspettative sulla disoccupazione; a livello personale, i giudizi sulla situazione economica della famiglia peggiorano mentre le aspettative sono in lieve recupero. Con riferimento alle imprese, nel mese di gennaio il clima di fiducia cala in misura contenuta nel settore manifatturiero (da 110,3 a 109,9), mentre più marcata è la flessione nei servizi (da 108,7 a 105,7) e nel commercio al dettaglio (da 112,0 a 108,6). Invece, segnali positivi provengono dal settore delle costruzioni dove il clima aumenta da 127,1 a 129,2.

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