Tag Archive: guerra

Censis: ecco l’Italia di oggi, malinconica e con la paura della guerra

AGI – Un’Italia malinconica, agitata dalla paura della guerra e dall’inflazione, che costringe a erodere i risparmi e pagare le bollette in ritardo. Questo il ritratto che emerge dal cinquantaseiesimo rapporto Censis sulla situazione sociale di un Paese che, si legge nel testo, “vive in uno stato di latenza”.

“Il nostro Paese, nonostante lo stratificarsi di crisi e difficoltà, non regredisce grazie allo sforzo individuale, ma non matura”, sottolinea l’istituto, osservando che “l’Italia non cresce abbastanza o non cresce affatto” e “la macchina amministrativa pubblica è andata fuori giri e così non sarà in grado di trainare la ripresa”. 

Un italiano su quattro a rischio povertà o esclusione

Nel 2021 gli individui soggetti al rischio di povertà o di esclusione sociale sono pari al 25,4% della popolazione, ovvero oltre uno su quattro. Gli individui a rischio di povertà o esclusione sociale sono per il 41,2% residenti nel Mezzogiorno (a fronte del 21% nel Centro, del 17,1% nel Nord-Ovest e del 14,2% nel Nord-Est), per il 33,9% sono appartenenti a famiglie in cui il reddito principale è quello pensionistico (a fronte del 18,4% e del 22,4% appartenenti a famiglie con reddito principale da lavoro dipendente o da lavoro autonomo) e per il 64,3% sono membri di famiglie che percepiscono ‘altri redditi’, dei quali 56,6% si qualifica anche come individuo a bassa intensità lavorativa.

Infine viene nuovamente superata la soglia del 40% nel caso di individui appartenenti a famiglie dove almeno un componente non è italiano (42,2%) o dove vivono tre o più minori (41,6%).

Nel 2021 le famiglie che vivono in condizione di povertà assoluta sono più di 1,9 milioni, il 7,5% del totale: un milione in più rispetto al 2019. 

L’inflazione aumenta le disuguaglianze

Gli italiani temono la corsa dell’inflazione: oltre il 64% sta già mettendo mano ai risparmi per far fronte all’impatto dei rincari dei prezzi. 

La quasi totalità degli italiani, il 92,7%, è convinta che l’accelerata dell’inflazione durerà a lungo e che bisogna pensare subito a come difendersi. Il 76,4% pensa che non potrà contare su aumenti significativi delle entrate familiari nel prossimo anno, il 69,3% teme che nei prossimi mesi il proprio tenore di vita si abbasserà (e la percentuale sale al 79,3% tra le persone che già detengono redditi bassi) e ben il 64,4% sta ricorrendo ai risparmi per fronteggiare l’inflazione.

L’indice armonizzato dei prezzi al consumo, ricorda il Censis, è aumentato nel primo semestre del 2022 del 6,7% rispetto al primo semestre del 2021. Nello stesso periodo, le retribuzioni contrattuali del lavoro dipendente a tempo pieno sono aumentate solo dello 0,7%. Ma l’inflazione non solo colpisce i redditi fissi o comunque tendenzialmente stabili nel medio periodo, aumenta anche la forbice della disuguaglianza tra le diverse componenti sociali: le famiglie meno abbienti si confrontano con un incremento medio dei prezzi pari al 9,8%, mentre per le famiglie più agiate l’aumento è del 6,1%, quasi 4 punti percentuali in meno.

Questo divario discende dalla diversa dinamica dei prezzi dei beni (alimentari e per la casa su tutti) che pesano in particolare sul carrello della spesa delle famiglie meno abbienti. Nell’ultimo periodo, tra il 2012 e il 2021, l’andamento dei prezzi riflette le conseguenze di una fase tendenzialmente deflattiva per l’Italia (in media 0,7% annuo), caratterizzata soprattutto da una moderazione salariale che ha di fatto rimosso qualsiasi rischio di innesco della spirale prezzi-salari. Ma, secondo il Censis, gli attuali livelli di inflazione – con punte di rialzo dei prezzi dei beni alimentari intorno all’11%, senza contare gli incrementi del 50% dei beni energetici – potrebbero incidere profondamente sul potere d’acquisto delle famiglie.

Lo spettro della crisi energetica

La crisi energetica è la principale fonte di preoccupazione per le famiglie italiane, emerge ancora dal rapporto: per il 33,4%, e la percentuale arriva al 43% tra le famiglie in una bassa condizione socio-economica, le più colpite dall’aumento dei costi incomprimibili.

Il 6,5% delle famiglie italiane era in ritardo con il pagamento delle bollette (dato in linea con la media europea) nel 2021. Ancora più numerosi sono coloro che affermano di non riuscire a riscaldare adeguatamente la propria abitazione: l’8,1% delle famiglie, un dato superiore di 1,2 punti percentuali al dato europeo.

Il timore di una guerra mondiale

Il 61,1% degli italiani teme che possa scoppiare un conflitto mondiale e il 57,7% che l’Italia possa entrare in guerra, si legge nel rapporto, secondo il quale il 66,5% degli italiani, 10 punti percentuali in più rispetto al 2019 pre-Covid, si sente insicuro.

I principali rischi globali percepiti sono: per il 46,2% la guerra, per il 45,0% la crisi economica, per il 37,7% virus letali e nuove minacce biologiche alla salute, per il 26,6% l’instabilità dei mercati internazionali, dalla scarsità delle materie prime al boom dei prezzi dell’energia, per il 24,5% gli eventi atmosferici catastrofici, come temperature torride e precipitazioni intense, per il 9,4% gli attacchi informatici su vasta scala. 

“Finita l’era delle sicurezze, prevale il nichilismo”

“La malinconia definisce il carattere degli italiani, il nichilismo. E’ la fine dell’era dell’abbondanza e delle sicurezze”, ha detto Massimiliano Valerii, direttore generale del Censis, nel corso della presentazione del rapporto. Una malinconia, ha spiegato, che “corrisponde alla coscienza della fine del dominio dell’Io sugli eventi del mondo, l’Io che è costretto a confrontarsi con i propri limiti quando è costretto a relazionarsi con il mondo”. Situazione che deriva da questi ultimi 3 anni “straordinari” che hanno visto eventi eccezionali che vanno dalla pandemia alla siccità fino al caro bollette e alla guerra, “i grandi eventi della storia che si è rimessa in moto e con cui dobbiamo relazionarci”.

“Se quella del 2020 non sembra un’Italia sull’orlo di una crisi di nervi – ha concluso – oggi invece si paga un prezzo dell’irruzione della storia nelle nostre piccole storie e quei meccanismi proiettivi hanno perso presa sulla società e forza di orientamento nei comportamenti collettivi”.


Censis: ecco l’Italia di oggi, malinconica e con la paura della guerra

La Bce: l’economia sta rallentando, la guerra è un freno alla crescita

AGI – L’economia della zona euro sta rallentando, l’alta inflazione e la guerra in Ucraina inoltre “gettano più di un’ombra sulle prospettive per la seconda metà del 2022 e oltre“. Sono le previsioni della Bce contenute nel bollettino mensile. Il turismo dovrebbe favorire l’attività economica nel terzo trimestre e le “condizioni del mercato del lavoro si mantengono solide”, ma tanti sono i rischi che gravano sulla crescita. Quanto alla politica monetaria l’Eurotower inoltre si dice pronta ad alzare i tassi di interesse nelle prossime riunioni.

“Sarà opportuna – si legge nel bollettino – un’ulteriore normalizzazione dei tassi di interesse. Anticipare l’uscita dai tassi di interesse negativi consente al Consiglio direttivo di passare a un approccio in cui le decisioni sui tassi vengono prese volta per volta. L’evoluzione futura dei tassi di riferimento definita dal Consiglio direttivo continuerà a essere dipendente dai dati e contribuià al conseguimento dell’obiettivo di inflazione del 2 per cento nel medio termine”, si spiega.

Invece il Tpi (Transmission Protection Instrument) “assicurerà che l’orientamento di politica monetaria sia trasmesso in modo ordinato in tutti i paesi dell’area dell’euro”. La portata degli acquisti del Tpi “dipenderà dalla gravità dei rischi per la trasmissione della politica monetaria. Gli acquisti non sono soggetti a restrizioni ex ante. Salvaguardando il meccanismo di trasmissione, il Tpi consentirà al Consiglio direttivo di adempiere più efficacemente il mandato di preservare la stabilità dei prezzi”, aggiunge la Bce.

L’attività economica nell’area dell’euro sta rallentando. L’aggressione ingiustificata della Russia verso l’Ucraina rappresenta un persistente freno alla crescita“, scrive la Bce. “L’impatto dell’elevata inflazione sul potere d’acquisto, i perduranti vincoli dal lato dell’offerta e la maggiore incertezza esercitano un effetto frenante sull’economia. – si legge nel bollettino – Le imprese continuano a fronteggiare costi più elevati e interruzioni nelle catene di approvvigionamento, sebbene vi siano timidi segnali di un allentamento di alcune strozzature dal lato dell’offerta”.

Infine sullo spread la Bce evidenzia che “negli ultimi giorni del periodo compreso tra il 9 giugno e il 20 luglio 2022, i differenziali di rendimento dei titoli di Stato dell’area dell’euro sono tornati su livelli più elevati, con l’evolversi della crisi politica in Italia“.

Nel dettaglio dei singoli paesi, “il calo maggiore dei differenziali è stato osservato per la Grecia, con una diminuzione di 55 punti base del differenziale sul rendimento dei titoli di Stato decennali nel periodo di riferimento. La diminuzione dei differenziali sui titoli di Stato decennali di Spagna e Francia è stata meno pronunciata, con valori pari, rispettivamente, a 1,5 e 4,5 punti base. Anche il differenziale sul rendimento dei titoli di Stato decennali per l’Italia è diminuito complessivamente di 8 punti base, ma la sua volatilità è aumentata verso la fine del periodo in esame, di riflesso alla crisi politica in atto nel paese”, si aggiunge. 


La Bce: l’economia sta rallentando, la guerra è un freno alla crescita

Vagit Alekperov, l’oligarca che chiede la fine della guerra

AGI – Vagit Alekperov è uno degli uomini più ricchi della Russia. La maggior parte delle azioni del colosso petrolifero Lukoil sono di sua proprietà e del vice, Leonid Fedun. La notizia delle sue dimissioni anticipate da presidente e ceo di Lukoil, comunicate con una scarna nota al presidente del consiglio di amministrazione della società (senza peraltro rivelare il motivo della scelta) non ha stupito più di tanto.

L’oligarca russo qualche tempo fa aveva infatti chiesto a Mosca di porre fine rapidamente al conflitto in Ucraina, diventando così la prima grande compagnia nazionale russa ad opporsi alla guerra. Sarà per questo che il magnate petrolifero è uno dei pochissimi oligarchi esclusi dalle sanzioni di Unione europea e Stati Uniti, mentre è entrato nel mirino del Regno Unito che il 13 aprile lo ha incluso nella sua ‘black list’.

Il 5 marzo scorso il consiglio di amministrazione di Lukoil ha riferito in una dichiarazione agli azionisti, al personale e ai clienti che stava “chiedendo la fine più rapida del conflitto armato” in Ucraina. “Esprimiamo la nostra sincera empatia per tutte le vittime, che sono colpite da questa tragedia – scriveva il consiglio – sosteniamo fermamente un cessate il fuoco duraturo e una soluzione dei problemi attraverso seri negoziati e diplomazia”.

Alekperov è uno degli uomini più ricchi della Russia. Nel 2021 – secondo Forbes – ha un patrimonio stimato di 24,9 miliardi di dollari che lo classifica come la 66esima persona più ricca del mondo e la quarta persona della Russia. Lukoil opera in dozzine di paesi in tutto il mondo ed è la seconda compagnia petrolifera russa dopo il gigante statale Rosneft. 


Vagit Alekperov, l’oligarca che chiede la fine della guerra

Tra pandemia e guerra non c’è pace per ristoranti e bar

AGI – Ci mancava solo che la guerra, dopo due anni di pandemia. È il refrain di queste settimane che si rincorre di bocca in bocca in tutti i settori economici e commerciali. E dove le prospettive di ripresa ancora languono. In particolare nel mondo della ristorazione, che i due anni di pandemia hanno particolarmente avvilito nelle consuetudini: ci si continua a muovere meno da casa e si consumano preferibilmente pranzi e cene tra le mura domestiche mentre sembra aver preso piede anche l’abitudine a sfruttare il delivery.

Tutto questo è anche dovuto al protrarsi della pandemia, visti i progressivi aumenti dei contagi delle ultime settimane. Il quadro attuale lo fotografa bene il Rapporto Ristorazione 2021 di Fipe Confcommercio secondo cui ad oggi sono “oltre 23mila le aziende che hanno cessato la loro attività nel solo 2021, una cifra che – sommata a quella del 2020 – arriva a un totale di 45mila locali che hanno chiuso i battenti nel periodo della pandemia, confermando l’andamento dell’anno precedente”.

Tutte chiusure che hanno come contraltare anche una compressione delle nuove imprese: solo 8.942 nel 2021. E quelle che ci sono state, hanno risentito enormemente della stagione pandemica: oltre il 30% delle attività aperte nel 2019 non ci sono più. Del resto, turismo e ristorazione i settori più colpiti dall’emergenza coronavirus, con perdite (rispetto al 2019) che sfiorano i 34 miliardi di euro nel 2021, che diventano 56 miliardi se si considera il biennio appena trascorso.

Per quanto riguarda il turismo internazionale, le perdite si assestano a meno 23 miliardi di euro e colpiscono soprattutto le città d’arte. Si tratta di cifre che solo in minima parte risultano bilanciate dalla crescita dei consumi domestici: appena 7 miliardi. Si stima infatti che queste perdite interessino la produzione agroalimentare per un valore di circa 15 miliardi.

Tutti questi numeri incidono anche sulla perdita di posti di lavoro e la riduzione degli impiegati nell’intero comparto: sono 193mila in meno rispetto al 2019, in particolare donne e giovani, gli anelli più fragili della catena lavorativa. Almeno un terzo delle imprese denuncia infatti di aver perso personale, cifra da leggere alla luce d’una ristorazione – quella italiana – fatta principalmente di aziende a conduzione familiare, in cui solo il 40% ha dipendenti.

Alla perdita di posti di lavoro, s’accompagna la difficoltà di trovare personale, soprattutto professionalizzato e formato: il rapporto parla di 4 aziende su 10 che lamenta la mancanza di candidati validi. Tuttavia, si legge nell’indagine Fipe, nella paralisi del settore incide anche il caro materie prime e l’energia ha la sua incidenza: l’87% degli imprenditori registra aumenti della bolletta energetica fino al 50% e del 25% per i prodotti alimentari mentre i rincari sono assorbiti, allo stato attuale, dagli esercenti: a febbraio 2022, lo scontrino medio è salito del 3,3% rispetto a un incremento generale dei prezzi del 5,7%.

Oltre metà (56,3% di bar e ristoranti) non rivedrà a breve al rialzo i propri listini, ma sarà a breve inevitabile, oltre che necessario, per poter remunerare correttamente i dipendenti. Le prospettive sono poi ancora più incerte dallo scenario di guerra che impatta sulle produzioni alimentari, materie prime energetiche.


Tra pandemia e guerra non c’è pace per ristoranti e bar

 La guerra in Ucraina potrebbe cambiare per sempre l’agricoltura italiana

AGI – La guerra in corso in Ucraina potrebbe provocare conseguenze a lungo termine per l’agricoltura italiana. A spiegarlo all’AGI è il presidente della Coldiretti, Ettore Prandini, intervenuto a LetExpo, la fiera del trasporto e della logistica sostenibile a Verona.

“Per anni – sottolinea Prandini – abbiamo avuto un sistema europeo spinto dalla logica della globalizzazione accelerata, che ci ha fatto puntare spesso sulla delocalizzazione di produzioni e aziende. Una logica sbagliata e fallimentare. In Europa abbiamo avuto dei sostegni contributivi erogati quando le imprese non producevano”.

Adesso, con la guerra scatenata dalla Russia, “capiamo l’importanza di essere aperti ma senza delocalizzare risorse e settori strategici”. Insomma, secondo Prandini, “l’Italia deve puntare ad aumentare la sua autosufficienza produttiva”.

La guerra tra Mosca e Kiev penalizza le filiere di grano e mais, ma non per quello che si pensa. “Da questi due Paesi – sottolinea il presidente della Coldiretti – importiamo il 5% di grano tenero e il 18-20% di mais. Sugli aumenti di pasta e pane il vero problema non è il grano, ma il boom del costo energetico, che impatta anche sul settore dei fertilizzanti, dove Russia e Ucraina sono tra i maggiori produttori al mondo”.

In questo campo “gli aumenti dei concimi chimici sono già superiori al 180%. E c’è un rischio approvvigionamento“. E poi “è vero che importiamo poco in termini percentuali sul grano tenero da Russia e Ucraina, ma sono il terzo produttore mondiale quindi la situazione va a incidere su altri mercati e, di riflesso, sul nostro”.

Dallo sblocco dei terreni agricoli ‘a riposo’, decisa dall’Ue, Coldiretti ha “stimato che si può recuperare un milione di ettari di superficie, su 12 milioni totali di terre coltivabili”. Poi creando “dei bacini di accumulo dell’acqua, nell’arco di 6-7 anni possiamo pensare di arrivare a una buona autosufficienza dall’estero”. Ora, conclude Prandini, “bisogna sfruttare il Pnrr” e “incentivare la capacità produttiva, investendo su temi come digitalizzazione, agricoltura di precisione, cisgenetica e Nbt”. 


 La guerra in Ucraina potrebbe cambiare per sempre l’agricoltura italiana

La guerra in Ucraina fa impennare i prezzi di metalli e materie prime

AGI – L’invasione russa dell’Ucraina e le crescenti, dure sanzioni economiche contro Mosca hanno fatto salire alle stelle i prezzi di gas, oro e dei metalli come alluminio, rame, palladio e nichel, spingendoli a nuovi massimi storici.

Il barile del Brent del Mare del Nord ha sfiorato nella giornata di lunedì 7 marzo i 140 dollari all’inizio della seduta asiatica, vicino al record assoluto di 147,50 dollari raggiunto a luglio 2008, prima che le quotazioni dell’oro nero si calmassero un po’. Stati Uniti e Unione europea stanno “discutendo molto attivamente” la possibilità di fermare le importazioni di petrolio russo in risposta all’invasione dell’Ucraina, ha affermato domenica il ministro degli Esteri americano Antony Blinken.

Più cauta la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, che ha evitato sinora di menzionare i divieti di importazione poiché la Russia fornisce il 40% del gas consumato nell’Ue. Il prezzo del gas di riferimento europeo, l’olandese Ttf, è balzato al nuovo record di 345 euro per megawattora (MWh) per poi ripiegare in mattinata a 260 euro, +34%.

Sulla scia dei prezzi dell’energia sono saliti anche quelli dei metalli prodotti in Russia, con l’alluminio che ha superato per la prima volta la soglia dei 4.000 dollari per tonnellata, mentre rame e palladio hanno toccato nuovi massimi storici rispettivamente a 10.845 dollari per tonnellata e 3.442,47 dollari per oncia.

All’apertura degli scambi, una tonnellata di alluminio con consegna in tre mesi ha raggiunto il picco di 4.073,50 dollari sul mercato dei metalli di base di Londra (London Metal Exchange, Lme). Il palladio e’ salito del 5,6% a 3.170,49 dollari l’oncia, dopo aver toccato il massimo storico di 3.172,22 dollari a inizio seduta.

La Russia rappresenta il 40% della produzione mondiale del metallo utilizzato dalle case automobilistiche nei convertitori catalitici per ridurre le emissioni. Anche i metalli industriali sono aumentati, trainati da forti guadagni. Il nichel, senza raggiungere gli ultimi picchi risalenti al 2007, è cresciuto di oltre il 25%, fino a toccare i 37.800 dollari, mentre le catene di approvvigionamento globali hanno cercato di valutare la possibile assenza di forniture dalla Russia, il terzo maggior produttore di nichel.

La situazione in Ucraina ha fatto impennare anche l’oro, bene rifugio per eccellenza, che ha superato i 2.000 dollari l’oncia, toccando il livello più alto da settembre 2020. Il forte aumento dei prezzi delle materie prime ha suscitato preoccupazioni per la crescita economica nei paesi che si stanno ancora riprendendo dalla pandemia di Covid.

“Purtroppo, in un ambiente stagflazionario, questo non è vero – ha osservato Jeffrey Halley, senior analyst di Oanda – il timore è che le proiezioni di crescita per il 2022 in tutto il mondo dovranno essere drasticamente riviste al ribasso e sarà interessante vedere cosa faranno le banche centrali del mondo”.

E ha spiegato: “La stagflazione si riferisce a paesi che stanno sperimentando un aumento simultaneo dell’inflazione e una produzione economica in stallo”. Ieri i combattimenti hanno impedito a circa 200.000 persone di evacuare la città ucraina assediata di Mariupol per il secondo giorno consecutivo, quando il presidente russo Vladimir Putin ha promesso di portare avanti la sua invasione a meno che Kiev non si arrenda.

Le partecipazioni del più grande fondo negoziato in borsa al mondo e garantito dall’oro, lo Spdr Gold Trust, sono aumentate dello 0,4% a 1.054,3 tonnellate venerdì scorso, al top da meta’ marzo 2021. 


La guerra in Ucraina fa impennare i prezzi di metalli e materie prime

Corruzione e guerra civile, così il Libano è diventato un Paese fallito

Secondo molti analisti il Libano è un paese già fallito. Per altri manca molto poco al crack. Certo è che il paese sta subendo una grave e prolungata depressione economica. Secondo l’ultimo rapporto della Banca Mondiale, Bank Lebanon Economic Monitor (Lem), pubblicato a giugno, la crisi economica e finanziaria del Paese dei cedri è tra le peggiori di sempre nella storia, addirittura da metà del 1800. Per alcuni economisti quella libanese rientra nella top 10 dei default finanziari, per altri addirittura nella top 3. “Di fronte a sfide colossali, la persistente inazione politica e l’assenza di un governo pienamente funzionante, continuano ad aggravare condizioni socio-economiche già disastrose e una fragile pace sociale senza un chiaro punto di svolta all’orizzonte”, scrive l’istituto di Washington. 

Il titolo del rapporto della Banca Mondiale non promette nulla di buono: “Lebanon Sinking: To the Top 3”. La pubblicazione presenta i recenti sviluppi economici ed esamina le prospettive del paese con i rischi annessi. Per oltre un anno e mezzo, il Libano ha affrontato sfide differenti: la più grande crisi economica e finanziaria in tempo di pace, la pandemia da Covid-19 e l’esplosione del porto di Beirut, avvenuta il 4 agosto dell’anno scorso.

Come evidenziato dagli osservatori internazionali tutte le risposte politiche ed economiche della autorità libanesi a queste sfide sono state completamente inadeguate e fallimentari. Nel paese non si è mai arrivati a un consenso su iniziative politiche efficaci. L’unità di intenti, invece, si è trovata nella difesa strenua di un sistema economico fallimentare che continua a favorire pochi a danno della maggioranza. A peggiorare la situazione, una prolungata guerra civile che ha aggravato condizioni socio-economiche sempre più disastrose che rischiano di provocare fallimenti nazionali sistemici con effetti regionali e potenzialmente globali.

I numeri della banca Mondiale non lasciano scampo e tratteggiano uno scenario con moltissime ombre. L’istituto stima che nel 2020 il Pil si sia contratto del 20,3%, dopo un calo del 6,7% nel 2019. Di fatto, il Pil libanese è precipitato dai quasi 55 miliardi di dollari nel 2018 a circa 33 miliardi di dollari nel 2020, mentre il prodotto pro capite è sceso di circa il 40%. Una contrazione così forte, normalmente, è associata, spiega la Banca Mondiale, a conflitti o guerre. “Le condizioni monetarie e finanziarie rimangono altamente volatili; nel contesto di un sistema di tassi di cambio multipli”.

Il cambio medio si è deprezzato del 129% nel 2020. L’effetto sui prezzi si è tradotto in un’impennata dell’inflazione, con una media dell’84,3% nel 2020. Soggetto a un’incertezza eccezionalmente alta, si prevede che il Pil si contrarrà di un ulteriore 9,5% anche quest’anno.

Il Libano affronta un pericoloso esaurimento delle risorse, compreso il capitale umano, e la manodopera altamente qualificata è sempre più propensa a cogliere opportunità all’estero, creando una perdita sociale ed economica permanente per il paese”, ha detto Saroj Kumar Jha, direttore regionale del Mashreq della Banca Mondiale. “Solo un governo riformista, che intraprenda un percorso credibile di ripresa economica e finanziaria, e che lavori a stretto contatto con tutte le parti interessate, può invertire la rotta di un’ulteriore caduta e prevenire una maggiore frammentazione nazionale”.

Le condizioni del settore finanziario continuano a deteriorarsi. L’onere dell’aggiustamento in corso nel settore finanziario è altamente regressivo, concentrato sui depositanti più piccoli, sulla maggior parte della forza lavoro e sulle pmi.  Più della metà della popolazione è al di sotto della soglia di povertà nazionale, con la maggior parte della forza lavoro – pagata in lire – che soffre per il crollo del potere d’acquisto. Con il tasso di disoccupazione in aumento, una quota crescente di famiglie sta affrontando difficoltà di accesso ai servizi di base, compresa l’assistenza sanitaria in questo periodo più importante che mai.

L’istituto di Washington sottolinea anche l’impatto delle crisi su quattro servizi pubblici di base: elettricità, approvvigionamento idrico, servizi igienici e istruzione. La depressione ha ulteriormente minato i già deboli servizi pubblici attraverso due effetti: ha aumentato significativamente i tassi di povertà, con un numero maggiore di famiglie che non possono permettersi beni sostitutivi privati, diventando così più dipendenti dai servizi pubblici. Pone a forte rischio la sostenibilità finanziaria e l’operatività di base del settore, aumentandone i costi e riducendone le entrate.

La fornitura di servizi pubblici essenziali è fondamentale per il benessere dei cittadini. Il forte deterioramento dei servizi di base continuerà a creare implicazioni nel lungo termine: migrazione di massa, perdita di apprendimento, cattivi servizi sanitari, mancanza di reti di sicurezza adeguate. Il danno permanente al capitale umano, evidenzia la Banca Mondiale, sarebbe molto difficile da recuperare. E forse proprio questa dimensione della crisi libanese la rende unica rispetto ad altre

I motivi del crollo di un paese che un tempo era noto come la Svizzera del Medio Oriente sono molteplici. La corruzione ha reso impossibile, dopo la guerra civile durata dal 1975 al 1990, una ripresa forte anche perché la forza del paese era il capitale umano, ormai allo stremo, e i servizi. Alcuni economisti hanno parlato del sistema finanziario del Libano come di uno schema Ponzi regolato a livello nazionale, dove si prende in prestito nuovo denaro per pagare i creditori esistenti. Funziona fino a quando il denaro fresco non si esaurisce.

Dopo la guerra civile, il Libano ha provato a mettere a posto i conti pubblici, con il turismo, gli aiuti stranieri, l’industria finanziaria e la generosità degli stati arabi del Golfo, che hanno finanziato lo stato sostenendo le riserve della banca centrale di Beirut. Altra fonte affidabile di dollari erano le rimesse dei milioni di libanesi che andavano all’estero a lavorare. Anche durante il crollo finanziario globale del 2008, i flussi nelle banche libanesi sono proseguiti. Le rimesse hanno iniziato a rallentare a partire dal 2011, con il deterioramento politico dell’area e con la caduta nel caos della vicina Siria. Gli stati musulmani sunniti del Golfo si sono allontanati a causa della crescente influenza nel paese dell’Iran, attraverso Hezbollah, il gruppo sciita libanese armato il cui potere politico è cresciuto notevolmente.

Il deficit di bilancio è salito alle stelle e la bilancia dei pagamenti è sprofondata ancora di più. Questo fino al 2016, quando le banche hanno iniziato a offrire tassi di interesse più alti per i nuovi depositi in dollari, una valuta ufficialmente accettata nell’economia. Il tutto mentre in altre parti del mondo i tassi andavano verso lo zero. I dollari hanno ripreso a scorrere e le banche a finanziare la spesa sempre maggiore. Ma i tassi di interesse alti vanno pagati. E ora il conto è stato servito.


Corruzione e guerra civile, così il Libano è diventato un Paese fallito

La guerra dei dazi tra Cina e Stati Uniti, tappa per tappa 

Primo accordo tra Usa e Cina sui dazi: scongiurato l’aumento delle tariffe che sarebbero dovute scattare il 15 dicembre. Trump conferma la sospensione dei dazi al 15% su quasi 160 miliardi di dollari di prodotti made in China, a cui Pechino avrebbe risposto con tariffe su 3.300 prodotti statunitensi. Ecco le principali tappe da marzo del 2018, tra turbolenze e schiarite.

2018 – 8 MARZO: IMPOSTA SU ACCIAIO, ALLUMINIO Il presidente Donald Trump annuncia tariffe del 25% sulle importazioni di acciaio e del 10% sull’alluminio da diversi paesi nel tentativo di ridurre l’enorme deficit commerciale degli Stati Uniti. Nel 2017 il deficit ha raggiunto 566 miliardi di dollari, di cui 375 miliardi di dollari con la Cina, il più grande produttore mondiale di acciaio e alluminio. 

22 MARZO: LA RISPOSTA DELLA CINA Alla vigilia della loro applicazione, Trump sospende le tariffe per diversi paesi ma non per la Cina. Pechino risponde con una lista di 128 prodotti statunitensi su cui si dice che imporra’ dazi doganali del 15-25% se i negoziati con Washington falliranno.

19 MAGGIO: SEGNI DI RICONCILIAZIONE I due paesi annunciano una bozza di accordo in base al quale Pechino accetta di ridurre “significativamente” il suo surplus commerciale. Nelle settimane successive, la Cina compie diversi gesti di conciliazione, riducendo i dazi doganali, eliminando le restrizioni e offrendo di acquistare beni statunitensi extra.

6 LUGLIO: RICOMINCIANO LE TENSIONI Nonostante i segnali distensivi, gli Stati Uniti, riaccendono le tensioni mettendo dazi del 25% su circa 34 miliardi di dollari di importazioni cinesi tra cui auto, dischi e componenti di aerei. Pechino risponde con tariffe di pari dimensioni e portata, anche su prodotti agricoli, automobili e prodotti navali.

23 AGOSTO: IL RILANCIO DI TRUMP Washington decide l’imposizione di tariffe su altri 16 miliardi di dollari di merci cinesi, esattamente il giorno dopo la ripresa dei negoziati. La Cina risponde con tariffe del 25% su 16 miliardi di dollari di merci americane, tra cui le moto Harley-Davidson, bourbon e il succo d’arancia.

24 SETTEMBRE: DA WASHINGTON ALTRI DAZI La Casa Bianca decide di mettere tariffe del 10% su 200 miliardi di dollari di importazioni cinesi. Pechino impone dazi doganali su 60 miliardi di dollari di merci americane.

1 DICEMBRE: LA TREGUA L’amministrazione Usa sospende per tre mesi l’aumento tariffario dal 10 al 25% che sarebbe dovuto scattare il 1 gennaio su 200 miliardi di dollari di merci cinesi. La Cina, dal canto suo, accetta di acquistare una quantità “molto consistente” di prodotti statunitensi e sospende per tre mesi, a partire dal 1 gennaio, tariffe aggiuntive per le automobili e i ricambi auto prodotti negli Stati Uniti. Allo stesso tempo permette le importazioni di riso americano.

2019 – 10 MAGGIO: RIPRENDONO LE OSTILITA’, OBIETTIVO HUAWEI Washington pone fine alla tregua, aumentando i dazi su 200 miliardi di dollari di importazioni cinesi. Trump apre un nuovo fronte nella guerra commerciale e il 15 maggio decide di impedire alle aziende americane l’utilizzo di apparecchiature di telecomunicazione straniere ritenute un rischio per la sicurezza. Una mossa contro il gigante cinese Huawei. Il Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti annuncia anche il divieto per le aziende Usa che vendono o trasferiscono tecnologia statunitense a Huawei. Il 20 maggio tuttavia stabilisce una sospensione di 90 giorni del divieto.

29 GIUGNO: NUOVE NEGOZIAZIONI Al G20 di Osaka, Trump e il presidente Xi Jinping stabiliscono un cessate il fuoco. Washington si impegna a non imporre nuove tariffe e Trump dichiara che i negoziati commerciali sono “di nuovo in carreggiata”. I negoziatori americani e cinesi si incontrano a Shanghai il 30 e 31 luglio per colloqui che vengono definiti “costruttivi” e decidono di continuare le discussioni a settembre.

1 AGOSTO: NUOVE SANZIONI AMERICANE Accusando Pechino di non aver rispettato le promesse di acquistare prodotti agricoli Usa e fermare la vendita dell’oppioide fentanil, Trump annuncia tariffe del 10% su altri 300 miliardi in merci cinesi a partire dal 1 settembre. La decisione significa che praticamente tutti i 660 miliardi di dollari di scambi annuali tra le due maggiori economie del mondo saranno soggetti a dazi. Pechino minaccia contromisure.

5 AGOSTO: LA GUERRA VALUTARIA La Cina permette allo yuan di scendere sotto le 7,0 unità rispetto al dollaro per la prima volta in 11 anni. Washington accusa Pechino di manipolare la sua moneta per sostenere le sue esportazioni ma la Banca centrale cinese nega. I media statali cinesi annunciano che Pechino ha sospeso gli acquisti delle esportazioni agricole americane.

1 SETTEMBRE: TARIFFE INCROCIATE Diventano operative nuove tariffe al 15% su prodotti cinesi per un valore di 112 miliardi di dollari. E sempre dal primo settembre partono ‘i controdazi’ di Pechino, che porta dal 5 al 10% i dazi su alcuni prodotti Usa inclusi i semi di soia, le auto e il petrolio, per un giro d’affari di 75 miliardi di dollari. Sul fronte States, le nuove tariffe colpiscono 3.800 prodotti, il 60% dei quali di largo consumo (dai vestiti alle tv a schermo piatto, dagli elettrodomestici alle carni). Dal primo ottobre poi – secondo i piani dell’amministrazione Usa – i dazi del 25% già in vigore su 250 miliardi di merci cinesi (soprattutto prodotti industriali o semilavorati) saliranno al 30%. E dal 15 dicembre gli Usa minacciano di applicare l’aliquota del 15% su altri 160 miliardi di import.

2 SETTEMBRE: IL RICORSO AL WTO La Cina presenta un ricorso al Wto contro gli Stati Uniti per gli ultimi dazi imposti.

12 SETTEMBRE: USA POSTICIPANO DAZI AL 15 OTTOBRE Trump annuncia lo slittamento di due settimane dell’aumento dei dazi sui beni cinesi importanti negli Usa per 250 miliardi di dollari. L’entrata in vigore delle nuove tariffe viene cosi’ posticipate dal primo al 15 ottobre prossimo.

11 OTTOBRE: NUOVA TREGUA E ‘FASE 1’ DELL’INTESA Trump annuncia dopo aver incontrato il vice presidente cinese Liu He, al termine della due giorni di negoziati a Washington: “Siamo arrivati alla fase uno di un accordo sostanzioso”. Congelati gli aumenti tariffari del 5% su 250 miliardi di beni cinesi importati negli Usa che sarebbero altrimenti scattati dal prossimo 15 ottobre. La parziale intesa comprende i servizi finanziari, i prodotti agricoli e progressi sul contenzioso relativo alla proprietà intellettuale. La Cina acconsente all’acquisto di prodotti agricoli statunitensi per 40-50 miliardi di dollari. Affrontato separatamente il nodo Huawei.

26 NOVEMBRE: STRETTA FINALE Usa e Cina sono alla “stretta finale” sul negoziato: “Sta andando molto bene, ma allo stesso tempo vorremmo che andasse altrettanto bene a Hong Kong”, dice Trump, dopo che i principali negoziatori di Washington e Pechino si sono sentiti telefonicamente per dare gli ultimi ritocchi alla Fase 1 dell’accordo.

28 NOVEMBRE: TRUMP FIRMA LEGGE CONTRO HONG KONG Il presidente Usa firma la legge a sostegno dei manifestanti pro democrazia a Hong Kong. Hong Kong esprime “estremo rammarico” e la Cina minaccia “dure contromisure”.

13 DICEMBRE: RAGGIUNTA FASE UNO DELL’INTESA L’accordo sospende l’introduzione di nuove tariffe, sia da parte degli Stati Uniti che della Cina, il 15 dicembre. Trump conferma la sospensione dei dazi al 15% su quasi 160 miliardi di dollari di prodotti made in China, a cui Pechino avrebbe risposto con tariffe su 3.300 prodotti statunitensi. 

Agi

La guerra dei dazi e la svalutazione dello yuan affondano le Borse mondiali 

La guerra dei dazi affonda le Borse europee che chiudono in profondo rosso sulla scia di Wall Street e bruciano 180 miliardi di euro. Il listino Usa viaggia con pesanti perdite: attualmente il Dow Jones arretra del 2,25%, lo S&p del 2,36% e il Nasdaq il 3,07%. A picco le piazze asiatiche anche per le proteste a Hong Kong.

A inasprire le tensioni oggi si è aggiunto un nuovo tassello: lo yuan precipita ai minimi da 11 anni. La moneta cinese tocca per la prima volta dal 2008 la fatidica soglia delle 7 unità per un dollaro: un elemento di novità che rischia di trasformare la guerra commerciale sino-americana in una guerra di valute. Non si è fatta dunque attendere la risposta cinese alle mosse di Trump.

Il deprezzamento dello yuan non sfugge al presidente Usa che sollecita nuovamente la Fed a tagliare i tassi di interesse per sostenere il dollaro. Su Twitter, Trump scrive: “La Cina ha abbassato il prezzo della loro valuta ad un minimo storico. Si chiama manipolazione della valuta. Stai ascoltando, Federal Reserve? Questa è una grave violazione che indebolirà notevolmente la Cina nel tempo!”.

A Trump replica la banca centrale cinese che smentisce di aver voluto manipolare la sua moneta. In realtà la decisione delle autorità di Pechino mira ad aiutare le imprese esportatrici, penalizzate dalla guerra dei dazi. Tuttavia la svalutazione è un’arma a doppio taglio e rischia di mettere in difficoltà le imprese cinesi indebitate in dollari. Inoltre uno yuan troppo debole rischia di innescare una fuga di capitali dalla Cina e pertanto è uno strumento che va dosato con cura.

I listini del vecchio continente terminano in forte calo: l’Eurostoxx 600, che racchiude le più grandi aziende quotate in Europa, ha perso il 2,2%, con 180 miliardi di capitalizzazione in fumo in una sola seduta; flessione più limitata a Milano, che brucia circa 7 miliardi. A Parigi il Cac 40 perde il 2,19% a 5.241,55 punti. A Londra l’Ftse 100 cede il 2,47% e scende a 7.223,85 punti. Il Dax di Francoforte lascia sul campo l’1,80% a 11.658,51 punti. A Milano l’Ftse Mib cala dell’1,3% a 20.773 punti.

Immediata la corsa ai beni rifugio. Le quotazioni dell’oro stanno salendo a ritmo incalzante. Il metallo nobile aumenta del 2% e secondo gli analisti, la domanda è destinata a crescere. Anche il tasso dei Treasury Usa a 10 anni scende ai minimi dal novembre 2016 e l’inversione della curva dei rendimenti dei T-Bond (il rafforzamento dei tassi dei titoli a tre mesi che superano quelli dei Treasury a 10 anni), considerato un chiaro segnale di recessione, cresce ai massimi dall’aprile 2007. Anche il prezzo del petrolio è in netto calo a New York, per effetto dell’escalation della guerra dei dazi.

Agi

Il G20 in Giappone non impegnerà gli Usa a fermare la guerra dei dazi

Il G20 di Fukuoka, in Giappone, cede alle pressioni di Washington, e rinuncia a impegnare gli Stati Uniti per una pace nella guerra commerciale che sta destabilizzando l’economia mondiale.

Inaugurata dagli Stati Uniti contro la Cina, la guerra dei dazi è “la principale minaccia” alla crescita globale, ha affermato Christine Lagarde, ma la dichiarazione rilasciata dal direttore del Fondo monetario internazionale ai giornalisti dice ciò che gli sherpa dell’amministrazione Trump hanno voluto fosse eliminato nel comunicato finale del vertice, ancora non ufficiale.

Insieme a questa presa d’atto è stato censurato il riferimento “al riconoscimento della necessità di risolvere le tensioni nel commercio”, pur affermando che esse si sono “intensificate”: gli americani, osservano gli analisti, vogliono evitare di assumersi formalmente responsabilità in grado di contraddire le iniziative in corso contro Pechino.

Così, il comunicato finale ripercorrerà sostanzialmente quello diramato lo scorso dicembre al termine del G20 di Buenos Aires, dove i ministri delle Finanze e i governatori delle banche centrali invitarono Washington e Pechino a una tregua di almeno cinque mesi, poi rotta a maggio, quando entrambe le parti hanno cominciato a imporre l’una all’altra aumenti dei dazi.

I ministri del G20, afferma la bozza, “continueranno a lavorare sui rischi in corso e sono pronti a prendere ulteriori azioni”. In realtà, ha chiarito ancora Lagarde, la guerra dei dazi tra Stati Uniti e Cina potrebbe “danneggiare” le opportunità di ripresa. “Ci siamo riuniti in un momento di stabilizzazione dell’economia – ha aggiunto Lagarde – ma la rotta è precaria”.

Una convergenza, pur vaga, sembra invece essere stata trovata sulla opportunità di tassare i giganti del web, come Amazon, Google e Facebook. Il G20 si impegna a “raddoppiare” entro la fine del prossimo anno gli impegni per arrivare alla meta. L’idea, secondo le indiscrezioni circolate ieri, e’ di tassare Facebook, Google e altre multinazionali digitali non piu’ sulla presenza fisica, dove si trovano i loro uffici, ma in base a dove registrano le loro entrate.

Agi