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Ai nuovi lavoratori i sindacati servono ancora o basta un gruppo Facebook?

Il sindacato del futuro potrebbe essere completamente digital e social. È uno scenario immaginato da Quartz che ha provato a capire quanto la rete, e in particolare i gruppi Facebook, siano già in grado di dare una voce “collettiva” a tutti quei lavoratori che non possono iscriversi ad un sindacato tradizionale o che cercano una nuova forma per essere rappresentati e difesi. Parliamo dei collaboratori freelance nati all’epoca dello smart working che lavorano da casa o nei coworking, che non hanno mai visto in faccia i loro colleghi e che, nonostante questa distanza, hanno bisogno di unirsi per portare avanti le stesse battaglie.

Meno costi e più rapidità

I social, del resto, permettono di avere molti vantaggi rispetto al sindacato tradizionale. Si possono condividere molto più rapidamente informazioni ed eventi, aggiornando continuamente in caso di novità e discutendo, quasi in tempo reale, sulle azioni da intraprendere. Permettono di portare avanti scelte democratiche dato che i gruppi sono chiusi, privati e danno la possibilità di lanciare sondaggi e quindi vere e proprie votazioni.

Ma non solo. Abbattono i costi delle sedi fisiche, semplificano gli ostacoli burocratici e fanno ottenere, sfruttando i meccanismi della rete, una maggiore visibilità per le proprie campagne. I dipendenti freelance, i collaboratori, i lavoratori a scadenza, quelli che fanno parte della cosiddetta gig economy, hanno cioè capito che è la rete il luogo giusto dove ritrovarsi, discutere e combattere per i propri diritti.

Un meccanismo che è già partito (e funziona)

Fast Company ha recentemente raccontato della protesta portata avanti dai lavoratori di un’azienda di consegne, Instacart, per ottenere salari più alti. Un protesta nata, organizzata e portata a compimento all’interno di un gruppo Facebook dedicato. Tutto nonostante molti dipendenti fossero iscritti a un sindacato tradizionale che, però, non avrebbe potuto dare loro la possibilità di portare avanti un “no-delivery day”  (un giorno senza consegne) in maniera così repentina e con un impatto mediatico così forte.

Ogni gruppo Facebook, inoltre, impone delle regole di comportamento ai suoi membri molto rigide che ricordano veri e propri statuti ed è governato da amministratori, i famosi admin, che controllano tutto quello che viene pubblicato eliminando qualsiasi forma di spam o di post non inerente al conseguimento di un obiettivo comune. E non è un caso che Facebook abbia deciso di dare loro sempre più poteri.

Un esercito di 100 milioni di membri

Ogni giorno su Facebook nascono moltissimi gruppi e già 100 milioni utenti li popolano e li animano. E quelli dedicati al mondo del lavoro, in particolare, hanno dimostrato quanto possano essere utili nell’unire persone intorno a interessi e intenti comuni. Sia recuperando valori trasmessi dai sindacati “fisici” e sia sfruttando le possibilità offerte dai social come quello di Mark Zuckerberg. Quartz cita altri due esempi: il gruppo chiuso “Airline FA Contract Compare & Share” dove più di 3mila assistenti di volo discutono di ciò che accade, a livello contrattuale e non solo, all’interno delle varie compagnie aeree a cui appartengono; e il gruppo “I’m a Real Estate Appraiser" dove periti ed esperti si ritrovano per avere maggiore controllo all’interno del loro settore in un’epoca di grande cambiamento. 

Dalle bandiere in piazza agli hashtag

Il mondo digitale sta cambiando, infine, anche la creazione e la diffusione degli slogan. Ci sono meno voci urlate dentro ai megafoni, meno discese in piazza e più “cancelletti”da diffondere su twitter e su Facebook. La forma migliore per coinvolgere opinione pubblica e media. Dai dipendenti di Zara, e il loro #ChangeZara per ottenere salari più dignitosi, a #NameTheTranslator e #NoFreePhotos, la lotta di traduttori e fotografi professionisti contro i lavoratori improvvisati.

Le firme di protesta, necessarie per portare avanti le rivendicazioni davanti ai vertici delle aziende, non si raccolgono più nei gazebo ma direttamente attraverso piattaforme specifiche come coworker.org. Tutte iniziative che, nel 2015, ottennero persino l’appoggio e la lode dell’allora Presidente americano, Barack Obama. In un mondo così veloce anche le proteste hanno bisogno di essere coordinate molto rapidamente e arrivando a un numero di utenti più largo possibile nel tempo più breve possibile. Cosa che i sindacati, almeno quelli classici, non stanno più riuscendo a fare. Facebook, invece, sì ed è pronto a prendersi anche questa forma di ritrovo e discussione. 

 

Agi News

Intesa Sanpaolo primo brand bancario per impatto sulla Rete secondo l’iLeader Index

Intesa Sanpaolo è il primo marchio nel settore bancario in Italia per presenza digitale secondo l'indice i-Leader, la ricerca sulla leadership digitale condotta dall'Agi in collaborazione con la società di business digitale DOING. L'i-Leader Index raccoglie i KPI (Indicatore Key Performance) pubblici diffusi su social network e sul web e li elabora secondo ponderazioni che misurano l'importanza dei diversi canali e l'impatto sulla Rete di protagonisti della vita pubblica, persone e brand.

Intesa Sanpaolo risulta il terzo marchio in assoluto dopo Ferrari e Tim Italy. La ricerca ha coinvolto oltre 200 personalità e marchi dello spettacolo, dello sport, della politica e del giornalismo, tutti leader nel proprio campo. Per ciascuna delle cinque categorie (business leader, star dello sport, show buz & web star, opinion leader e brand italiani), l'indice i-Leader ha svolto un'analisi quali-quantitativa della presenza digitale misurando le attività in rete in base a quattro aspetti fondamentali: engagement (interazioni degli utenti), reach (visibilità), popolarità (dimensione della follower base), sentiment.

I risultati della ricerca sono stati presentati all'Ara Pacis di Roma in una conversazione tra Riccardo Luna, Marco Pratellesi , direttore e condirettore di Agi, e Enrico Mentana , direttore TG LA7 e top opinion leader categoria giornalisti. Spiega Fabrizio Paschina, responsabile del Servizio Pubblicità e Web Intesa Sanpaolo: "Non e facile per una banca essere presente sulle piattaforme social: i temi finanziari e le questioni relative alla quotazione del titolo e alla privacy spesso portano a una presenza di pura forma. Diversa e stata la scelta di Intesa Sanpaolo che con notevole visione alcuni anni fa si e invece affacciata alle piattaforme social con un approccio votato all'ascolto della rete, al dialogo con i clienti e con i cittadini, all'offerta di risposte pratiche su prodotti e servizi. Un cosi buon posizionamento nell'i-Leader Index conferma la correttezza di impostazione della comunicazione digitale secondo quell'approccio di condivisione (sharing) che ha fin qui connotato tutta la strategia di comunicazione della Banca". 

Agi News

Secondo l’Ocse chi comincia a lavorare oggi andrà in pensione dopo i 71 anni. L’analisi

In Italia, a chi entra oggi nel mercato del lavoro, la flessibilità per accompagnare l'uscita dal lavoro "sarà offerta solo dopo i 67 anni". Chi ha iniziato a lavorare in Italia nel 2016 a 20 anni, in base alla legge che lega l'età pensionabile alle aspettative di vita, andrà in pensione a 71,2 anni, contro i 74 anni della Danimarca e i 71 dell'Olanda. In Irlanda e Finlandia andrà in pensione a 68 anni, mentre in tutti gli altri Paesi Ocse l'età pensionabile sarà raggiunta prima. È quanto emerge dal rapporto Ocse 'Pension at Glance', come si legge sul Quotidiano Nazionale.

Attualmente l'età pensionabile in Italia è di 66,6 anni, ma salirà a 67 anni a partire dal 2019 proprio in base all'ultima revisione sulle aspettative di vita dell'Istat. L'organizzazione di Parigi invita invece tutti i governi a introdurre più flessibilità in vista dell'accesso alla pensione. In particolare, secondo l'Ocse, per alcuni paesi questa necessità "diventa urgente". 

L'Ocse rileva che nei 35 Paesi membri dell'organizzazione solo Italia, Danimarca, Finlandia, Olanda Portogallo e Slovacchia hanno introdotto il calcolo dell'aspettativa di vita nella legislazione previdenziale e che questo aumenterà l'età pensionabile in media di 1,5 anni per gli uomini e di 2,1 anni per le donne. Lo scrive anche Il Sole 24 Ore.

L'Ocse evidenzia anche che il tasso di sostituzione, cioè la percentuale di stipendio medio accumulato nel corso di una vita lavorativa che va a formare la pensione, nei 35 Paesi Ocse è attualmente del 63%, mentre il Italia sale al 93,2%, contro un minimo del 29% in Gran Bretagna e un massimo del 102% in Turchia. Ocse evidenzia che negli ultimi due anni il passo delle riforme previdenziali nei 35 Paesi membri ha "rallentato" e che gli interventi sono stati "meno ampi". Ciò è avvenuto perchè il "miglioramento delle finanze pubbliche ha diminuito le pressioni" sulla necessità di rivedere i parametri per accedere alla pensione.

"In alcuni Paesi – si legge nel rapporto – in un contesto di invecchiamento della popolazione e di incombente riduzione del lavoro, questa necessità diventa urgente. Solo così le politiche previdenziali possono rispondere alle domande di flessibilità senza mettere a repentaglio la sicurezza economica degli anziani".  Nel rapporto l'Ocse evidenzia che "quasi i due terzi dei cittadini dell'Ue" chiedono più part time e di unire pensioni parziali e lavoro, piuttosto che andare definitivamente in pensione. Tuttavia i tassi di adozione di queste richieste sono "relativamente bassi".

In Europa, secondo l'Ocse, "circa il 10% delle persone tra i 60 e i 69 anni combina lavoro e pensione" e nei Paesi Ocse "circa il 50% dei lavoratori sopra i 65 anni lavoro part time". "Questi livelli sono stati stabili negli ultimi 15 anni" si legge nel rapporto Ocse.  La spesa previdenziale nei 35 Paesi dell'Ocse è aumentata del 2,5% a partire dal 1990. è quanto si legge nel rapporto Ocse sulle pensioni. In Italia la spesa per le pensioni è già oltre il 15%, anche se "le prospettive di lungo termine sono migliorate e il ritmo della spese già anticipate è notevolmente diminuito".

 

Agi News

Cosa rischia ora Ryanair se non si adegua alle disposizioni dell’Antitrust

Ryanair continua a non dare informazioni sui diritti dei passeggeri dopo la cancellazione dei voli e l'Antitrust avvia un procedimento per inottemperanza. "L'Autorità garante della concorrenza e del mercato – informa una nota – ha deliberato in data 29 novembre l'avvio di un procedimento di inottemperanza nei confronti di Ryanair per non aver dato seguito a quanto prescritto nel provvedimento cautelare adottato lo scorso 25 ottobre 2017 con la quale l' Autorità ha imposto al vettore irlandese, a seguito delle cancellazioni dei voli operate negli scorsi mesi di settembre e ottobre – in larga misura riconducibili a ragioni organizzative e gestionali del vettore – l'adozione di specifiche misure volte a fornire informazioni chiare, trasparenti e immediatamente accessibili sui diritti dei consumatori italiani. 

Il procedimento di inottemperanza avviato potrà condurre all'irrogazione di una sanzione amministrativa pecuniaria compresa tra 10.000 e 5 milioni di euro.  In particolare, l'Antitrust, con il proprio provvedimento cautelare, ha ordinato a Ryanair – sia attraverso una comunicazione specificamente diretta ai consumatori italiani che attraverso informazioni facilmente reperibili a partire dalla home page del sito Internet in lingua italiana della compagnia – di informare i consumatori italiani, con chiarezza, dei diritti nascenti dalla cancellazione dei voli, in modo da consentire loro di acquisire piena ed adeguata consapevolezza relativamente: alla immediata accessibilità e comprensione dell'informazione circa la sussistenza non solo del diritto al rimborso e/o alla modifica gratuita del volo cancellato ma anche alla compensazione pecuniaria, ove dovuta; all'elenco completo delle date, delle tratte e del numero di ogni volo cancellato in relazione al quale è sorto non solo il diritto al rimborso e/o alla modifica gratuita del volo ma anche alla compensazione pecuniaria, ove dovuta; alla connessa e immediata fruibilità della procedura da seguire per richiedere il rimborso e/o la modifica gratuita del volo e la compensazione pecuniaria ad essi spettante. 

Leggi anche l'articolo del Sole 24 Ore

Entro il termine di 10 giorni previsto dalla delibera del 25 ottobre, Ryanair non ha comunicato l'avvenuta esecuzione di quanto prescritto dal provvedimento cautelare e le relative modalità di attuazione. Tale comportamento, prosegue l'Autorità, si è protratto anche dopo che il Tar del Lazio, con ordinanza del 22 novembre 2017, ha respinto la domanda incidentale di sospensione dell'esecuzione del provvedimento cautelare dell'Autorità presentata da Ryanair; infatti, la compagnia irlandese non ha trasmesso alcuna comunicazione al riguardo, né risulta che abbia posto in essere azioni volte a ottemperare al provvedimento dell'Autorità.

Agi News

Quanto guadagna un fattorino di Deliveroo? Secondo l’azienda i rider sono felici

Si chiama gig economy; il nome può sembrare carino, addirittura quasi accattivante. Ma nella realtà non è altro che 'economia del lavoretto'. Una cosa che, nelle intenzioni di chi se l'è inventata, dovrebbe essere la sintesi stessa del lavoro temporaneo, ma che, in tempo di crisi, è diventato ripiego a medio termine di chi deve sbarcare il lunario. E che alla fine non si è più sentito nè tanto carino nè tanto temporaneo e ha cominciato a organizzarsi. E a protestare.

Fino al flash mob di venerdì sera davanti al quartier generale di Deliveroo – quelli in bicicletta con lo scatolone sulla schiena che consegnano cibo a domicilio, per intenderci –  in via Ettore Ponti a Milano. Come già successo a Londra nell'agosto 2016, i lavoratori, indossando 'maschere senza volto', hanno esposto striscioni con la scritta "siamo lavoratori, non schiavi".

Perché protestano

Al centro della protesta, la decisione della multinazionale londinese di abolire il salario minimo di 5,60 euro l'ora pagato ai fattorini che, "senza garanzie e tutele", effettuano le consegne di cibo. Il 31 dicembre i contratti scadranno e i 'riders', come si chiamano i pedalatori, temono sull'introduzione del cottimo

Come si racconta Deliveroo

La protesta è arrivata come una doccia fredda per la società leader del mercato globale del food delivery che opera oggi in 12 Paesi, lavora con oltre 35mila ristoranti partner e ha generato oltre un miliardo di euro di ricavi per il settore della ristorazione tra giugno 2016 e giugno 2017. In Italia – stando ai dati dell'azienda – questa crescita ha prodotto oltre 20 milioni di euro di aumento dei ricavi per i ristoranti e i loro fornitori. In Italia Deliveroo nell'ultimo anno è cresciuta rapidamente, e oggi conta su oltre 1.900 ristoranti partner nelle 10 città in cui opera. Con la sua attività, afferma Deliveroo, "sta attirando importanti investimenti e cresce rapidamente. Se in Italia continuasse per due anni a crescere ai ritmi dei ristoranti partner nel mondo tra giugno 2016 e giugno 2017, creerebbe circa 5mila opportunità di lavoro, 67 milioni di euro di valore aggiunto lordo per l'economia italiana e 5,5 milioni di euro sarebbero pagati al Fisco italiano"

Nel mondo

  • 12 Paesi
  • 35mila ristoranti
  • 1 miliardo di euro di ricavi
  • 20 milioni di aumento di ricavi per i partner e i fornitori

In Italia

  • 1.900 ristoranti partner
  • 11 città
  • 1.300 rider
  • In media in Italia un rider guadagna 9.60 euro lordi per ogni ora di lavoro

Leggi anche: quanto guadagna un magazziniere di Amazon?

Come reagisce alla protesta

"In un recente sondaggio, il 90% dei rider Deliveroo si dice soddisfatto del lavoro che svolge" scrive l'azienda in una nota, "Per questo sappiamo che questo gruppo (di manifestanti, ndr) non rappresenta il punto di vista della grande maggioranza dei rider che lavorano con Deliveroo in Italia. Nello stesso sondaggio il 90% dei rider ha affermato di apprezzare la flessibilità che offre il lavoro con Deliveroo e il 93% ha detto che consiglierebbe questo lavoro ad un amico. I rider apprezzano anche le condizioni economiche".

​Che cosa è la gig economy. E come funziona

A febbraio scorso con Deliveroo, collaboravano più di 700 rider – la maggior parte under 30 – che venivano pagati tra i 7 e gli 8 euro lordi l'ora (la variazione dipende dalla città in cui si lavora). Chi usa la bicicletta riceve 1-1,5 euro in più a consegna, mentre chi lavora con lo scooter ha un rimborso per la benzina.

Foodora opera in 4 città (Milano, Torino, Roma e Firenze) attraverso la collaborazione di circa 900 rider, tutti – sottolinea la società – regolarmente contrattualizzati, che hanno in media 23/24 anni. "Sono loro a decidere quando dare la disponibilità, proprio in modo da integrare questo lavoro con loro occupazione primaria, solitamente lo studio. E per questo sono loro stessi a richiedere una buona flessibilità, per esempio durante le sessioni di esami. I rider possano decidere in totale autonomia se e quando lavorare, indicando la loro disponibilità nelle diverse fasce orarie, e hanno anche la facoltà di non presentarsi per effettuare la consegna, anche all’ultimo momento e senza obblighi ulteriori", spiegava all'Agi Foodora. 

La società ha scelto di stipulare con i propri rider regolari contratti di collaborazione, piuttosto che pagare con ritenuta d'acconto o partita iva: "ciò vuol dire che Foodora paga regolarmente i contributi Inps e Inail previsti dal contratto, oltre ad offrire un’assicurazione integrativa per i danni a terzi e l’accesso alle convenzioni con le ciclofficine per la manutenzione del mezzo". Il compenso offerto ai rider di Foodora è di 4 euro a consegna. Mediamente vengono effettuate due consegne l’ora, quindi un rider di Foodora riceve un compenso medio di 8 euro lordi/ora (7,20 euro netti). 

Just Eat ha un modello di business differente rispetto alle altre realtà del comparto perché agisce da intermediario tra ristoranti e consumatori. La consegna è affidata direttamente ai locali affiliati che hanno già un servizio proprietario di consegna a domicilio e che gestiscono la flotta dei propri rider in totale autonomia sotto ogni aspetto. Le tariffe orarie dei partner di Just Eat variano tra gli 8 e gli 11 euro, prevedono un bonus per il lavoro nei giorni festivi e in presenza di maltempo e agevolazioni economiche sulla manutenzione delle biciclette/scooter. In alcune città italiane è attivo poi il servizio JUST EAT Delivery, che consente ai ristoranti che non hanno un servizio di consegne proprietario di affidarsi a JUST EAT anche per il trasporto. 

Agi News

La pubblicità non è più occulta ma niente è cambiato per Chiara Ferragni e gli altri influencer

Il giro di vite contro gli influencer su Instagram, e contro la pubblicità occulta nei loro post, non ha cambiato numeri e performance. Almeno secondo quanto emerge dall'analisi di Blogmeter che mostra come le nuove regole non abbiano penalizzato star come Chiara Ferragni e le sorelle Jenner. Negli Usa l'istituto a tutela dei consumatori (Federal Trade Commission) e l’antitrust hanno stabilito una regola semplice e precisa: vanno segnalati chiaramente i post che vengono realizzati attraverso collaborazioni commerciali. L’azienda sponsor deve essere taggata nel post e gli hashtag come #ad, #adv o #sponsored devono essere facilmente leggibili e riconoscibili dall’utente. Anche in Italia lo Iap (Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria) si è mosso seguendo la stessa strada richiedendo una maggiore trasparenza agli influencer rispetto ai contenuti da loro pubblicati.  

Chiara Ferragni e gli altri influencer su Instagram. Quali effetti?  

Per capire se gli influencer hanno risentito, nei numeri, di queste nuove direttive Blogmeter ha analizzato i post contenenti gli hashtag #ad, #adv e #sponsored degli ultimi otto mesi (da marzo a ottobre 2017) pubblicati da oltre 6.600 influencer (di cui 3.000 italiani). Il primo dato che salta agli occhi è l’aumento, a livello globale, dei post accompagnati dagli hashtag prima citati: da marzo a giugno 2017, su un totale di 770mila post pubblicati dagli Influencer, i post sponsored sono stati circa 11.500, nei quattro mesi successivi si sale a 16.500, con un incremento percentuale di circa il 44%. La situazione è ancora più sorprendente considerando i soli influencer italiani: da marzo a giugno i post con espliciti fini pubblicitari sono stati circa 1.800 su 274.500 totali, ma da luglio ad ottobre la cifra è salita vertiginosamente arrivando quasi a 7.000 post sponsorizzati su 245.000. L'aumento è del 285%. 

L'esempio di Chiara Ferragni (e delle sorelle Jenner) 

Questo picco tra luglio e ottobre è stato generato principalmente dall’influencer italiana più discussa del web, Chiara Ferragni, compagna del cantante Fedez. La nota fashion blogger ha raddoppiato il numero di post con gli hashtag della sponsorizzazione, passando dai 39 post pubblicati tra marzo e giugno agli 85 pubblicati nei quattro mesi successivi. Il suo profilo, tra marzo e ottobre, ha registrato una media di 238mila interazioni per i post non sponsorizzati e 221,7mila per quelli contenenti gli hashtag di sponsorizzazione. La fondatrice del blog The Blonde Salad  ha registrato un importante crescita di engagement (+137,6%), passando da 8,1 milioni di interazioni tra marzo e giugno a 19,4 milioni tra luglio e ottobre, un dato che la posiziona in cima alla classifica di engagement, prima anche di altri influencer internazionali come le sorelle Jenner che dominano però la top 5 dei contenuti più engaging. Il post con hashtag #ad più cliccato è proprio di Kylie, sponsorizzato dal sito d’abbigliamento fashionnova.com, che raggiunge i tre milioni di interazioni. Segue a brevissima distanza un post di Kendall sponsorizzato dal brand di orologi Daniel Wellington che ottiene 2,9 milioni di interazioni. Numeri però che non hanno determinato un cambiamento. Secondo Paola Nannelli, Head of Influencer Marketing di Blogmeter, “Non abbiamo assistito a cali di engagement perché le influencer in questione sono riuscite a mantenere un equilibrio nel loro piano editoriale social: in altre parole i contenuti sponsorizzati si alternano a contenuti legati alla loro vita personale mantenendo così alto l’interesse della propria community”. 

Agi News

Buzzfeed licenzierà 100 persone 

BuzzFeed taglierà 100 posti di lavoro. Una delle società media che ha registrato la più forte crescita negli ultimi anni, starebbe pagando i risultati del 2017, al di sotto delle attese. Lo riporta il Wall Street Journal. I licenziamenti valgono, nel complesso, poco meno del 6% dei 1700 dipendenti. La maggior parte dei licenziamenti dovrebbe arrivare nel settore commerciale e amministrativo della sede statunitense, dove sarà tagliato l'8% della forza lavoro.

Ma il ridimensionamento potrebbe toccare anche personale amministrativo e giornalisti della sede britannica. La notizia confermerebbe l'indiscrezione, pubblicata il 16 novembre sempre dal Wall Street Journal, secondo la quale BuzzFeed non centrerà i target di fine anno: l'obiettivo di 350 milioni di dollari di fatturato dovrebbe essere mancato del 15-20%. Cioè di 70 milioni. Una falla sulle previsioni che rende "remota", secondo la fonte del Wsj, una quotazione imminente, indicata come molto probabile fino a poche settimane fa.

Agi News

Quanto vale Jeff Bezos? Grazie al Black Friday di Amazon, più di quanto immaginate

Il vero affare per il Black Friday l'ha fatto Jeff Bezos. Grazie alle offerte per la giornata che apre la stagione degli sconti, il fondatore e amministratore delegato di Amazon vale più di 100 miliardi di dollari. A far lievitare il suo 'peso', riporta Bloomberg, sono state le azioni del colosso delle vendite online, il cui valore è salito di oltre il 2% sull'onda dell'ottimismo dei trader per le vendite degli ultimi giorni, cresciute del 18,4% rispetto allo scorso anno.
 
Il traguardo dei 100 miliardi di dollari fa di Bezos la prima persona ad avere costruito un patrimonio netto a 12 cifre dal 1999, quando il co-fondatore di Microsoft, Bill Gates, raggiunse quella soglia.
Nel luglio 2017, Bezos ha spodestato Gates dal podio di persona più ricca del mondo. Il patrimonio netto di Gates è diminuito pari passo con l'intensificarsi dell'impegno filantropico. A giugno, Gates ha fatto una donazione di 64 milioni di azioni Microsoft in beneficenza, il suo più grande 'regalo' da quando ha fondato la Fondazione Bill e Melinda Gates nel 2000, scrive Quartz.
 
Oxfam​ prevede che il mondo avrà il suo primo trillionario entro 25 anni, dal momento che la ricchezza dei super ricchi del mondo cresce esponenzialmente. In questo momento, Bezos sembra il candidato più accreditato per raggiungere questo traguardo.

Agi News

Quanti soldi deve il mondo del calcio alle banche venete?

Tre banche, cinquecento nomi, 10,3 miliardi. Di prestiti andati a male. Sono i numeri da capogiro di una inchiesta condotta da La Stampa sugli elenchi dei grandi debitori delle tre banche – Monte dei Paschi, Popolare di Vicenza e Veneto Banca – per salvare le quali i contribuenti hanno cacciato 10,6 miliardi di euro. Elenchi in cui compaiono  tanti nomi familiari al grande pubblic perché legati al mondo più popolare che c'è: quello del calcio.

Secondo l'inchiesta, tra i grandi debitori delle banche ci sono alcuni campioni dello sport – tra tutti Roberto Bettega, debitore con Veneto Banca, e Sebastian Giovinco e Vincenzo Iaquinta, soci di una partecipata esposta nei confronti di Popolare di Vicenza – ma anche imprenditori del mondo del pallone come la famiglia Sensi e Maurizio Zamparini, proprietario del Palermo, del Venezia e del Pordedone. La Italpetroli, all'epoca in cui apparteneva ai Sensi (ora è di Unicredit) si espose, secondo il quotidiano, per 73 milioni di euro per sostenere la Roma. Due invece le società che fanno capo a Zamparini: la Mare Monte Grado, che deve 60 milioni di euro alla Bpvi, e la Gasda, che deve altri 60 milioni d Monte Paschi. Con la banca senese sono esposti anche i Mezzaroma, costruttori e propietari del Siena quando militava in serie A (per 27 milioni) e Fabrizio Lori, proprietario del Mantova attraverso la Nuova Pansac, che ha lasciato un buco di 31,7 milioni.

Altri debitori che non sono nel pallone

Non sono ovviamente solo le società sportive ad aver affossato i conti delle banche. Secondo l'inchiesta della Stampa ci sono  pezzi di enti locali, come Riscossione Sicilia, che deve a Mps 237 milioni, o la romanissima Atac, esposta per 49,5 milioni. Bazzecole in confronto agli 85 milioni che la società Bagnolifutura – incaricata della riqualificazione dell'area e che fa capo a Comune di Napoli e Regione Campania – deve alla banca senese.

Un discorso a parte merita Sorgenia: pesa sui conti di Mps per 318 (Sorgenia Power), 41 (Sorgenia Spa) e 49,5 milioni (Tirreno Power, al 50% in quota Sorgenia). Ma anche il mondo delle Coop non scherza: grava per 183 milioni tra esposizioni del colosso edile Unieco e quelle della  di Holmo, la holding che controlla Unipol 

Con Veneto Banca sono esposti la Saia di Verbania, che avrebbe dovuto – senza successo – rilanciare il polo industriale piemontese e ora deve all'istituto 5,3 milioni.

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Cosa cambia col bonifico istantaneo per i correntisti italiani

Oggi il bonifico istantaneo è una realtà anche in Italia. Basta un click e, attraverso i canali digitali, il correntista può trasferire soldi fino a 15 mila euro in pochi secondi – circa 10 – sette giorni su sette, 24 ore su 24. I contro? Il costo, più alto rispetto ai bonifici ordinari, e l’impossibilità di revocarli. Ma come è nato? E qual è la prospettiva di diffusione?

Un’iniziativa europea

Il progetto è nato sul tavolo della Banca centrale europea che – ricorda Wired – aveva fissato il traguardo due anni fa: entro il 2017 bonifici istantanei nei 34 Paesi dell’area Sepa, che unifica i sistemi di pagamenti in euro. Al momento al progetto hanno aderito:

  • ABN AMRO Bank 
  • AS SEB Pank 
  • Banco Bilbao Vizcaya Argentaria 
  • Banca Patrimoni Sella 
  • Banca Sella S.p.A. 
  • Banca Sella Holding SpA 
  • Banco de Sabadell 
  • Bankia S.A. 
  • CaixaBank 
  • ERSTE Group Bank AG 
  • Intesa Sanpaolo SpA 
  • Latvijas Banka – Bank of Latvia 
  • Lietuvos Bankas – Bank of Lithuania 
  • Raiffeisen Bank International AG 
  • Raiffeisenlandesbank Oberösterreich 
  • UniCredit Bank AG (HypoVereinsbank) 
  • UniCredit S.p.A 
  • Verso Bank

Dall’Italia hanno partecipato Banca SellaIntesa Sanpaolo e Unicredit. L’attività di questi istituti, secondo i rappresentanti di Eba Clearing (gruppo francese che offre sistemi di pagamento alle banche europee), permette di riverberare l’accesso ai bonifici istantanei a 500 operatori dei pagamenti istantanei. Ed entro la fine del prossimo anno il numero di istituti “potrebbe raggiungere una massa critica”.

Applicazioni e vantaggi

Innumerevoli, sostiene il Sole24Ore, sono le applicazioni pratiche: dalla compravendita di beni usati alle spedizioni a domicilio, fino allo sblocco delle forniture o all'instant cash management per le aziende. Per non parlare dei vantaggi in termini di efficienza operativa, minore uso del contante e degli strumenti cartacei come assegni.

Per ora trasferimenti solo in uscita

Per il momento i correntisti italiani potranno ricevere solo bonifici immediati in entrata, ma non potranno spedire denaro. Dal 27 novembre Banca Sella darà iol via ai primi trasferimenti in uscita super veloci. Intesa e Unicredit inizieranno nel 2018, la prima a gennaio, la seconda dal 22 febbraio.

Quanto costa

Le tre banche italiane applicano commissioni diverse sui bonifici istantanei: Intesa Sanpaolo applicherà un costo fisso pari a 1,6 euro (0,60 euro oltre al costo ordinario Sepa online ossia un euro) fin quando sarà in vigore il limite operativo di invio di 15 mila euro, successivamente il costo scenderà allo 0,004% con un limite massimo di 20 euro per transazioni fino a 500 mila euro.

UniCredit applicherà costi pari a 2,5 euro (un bonifico dal Conto Genius costa 2,2 euro).

Banca Sella al momento non applica costi per gli instant payments dal conto online Websella, ma applicherà una commissione di 2,30 euro a partire da marzo.

 

 

 

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