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“Negli Stati Uniti la pandemia ha frantumato il mercato del lavoro”

AGI – “Il dato sull’occupazione americana è molto sorprendente, quasi sconvolgente. Ci si aspettava che ad aprile l’economia Usa creasse oltre un milione di posti e invece ne sono arrivati appena 226mila. Il motivo? La domanda di lavoro c’è, ma apparentemente manca l’offerta. Oppure, forse, la risposta è un po’ più complessa. Il mondo del lavoro Usa esce frantumato da questa pandemia. C’è troppa volatilità sui dati e troppa dislocazione sul mercato del lavoro, sulla logistica. Si tratta di fatti nuovi, che non si erano mai visti prima”.

Così, a caldo, il professor Fabrizio Pagani, esperto di macroeconomia, capo della segreteria tecnica dell’ex ministro italiano dell’Economia e delle Finanze, Pier Carlo Padoan, consigliere economico dell’ex Presidente del Consiglio Enrico Letta ed ex sherpa del G20, prova a spiegare all’AGI i deludenti dati del mercato del lavoro Usa.

 “Diciamo così: domanda e offerta di lavoro non sono più stabili. In altre parole, mentre prima domanda e offerta s’incrociavano in modo tutto sommato naturale, ora a causa della dislocazione e cioè dei troppi spostamenti il mercato è diventato più complesso, più difficile da decifrare. C’è stato un rimescolamento. Con la pandemia si è creata più volatilità, perché si crea molta domanda dove non c’è abbastanza offerta, oppure si crea offerta in settori dove non c’è domanda. Ecco questo è il concetto di dislocazione“, afferma Pagani. 

Per spiegare ancora meglio il concetto, Pagani prova a fare qualche esempio. “L’economia, dopo la pandemia, tende a riprendersi meglio nel settore manifatturiero e cioè nell’industria, piuttosto che nei servizi. Per cui chi lavorava nei servizi, cioè nei ristoranti, nel commercio, o nel settore viaggi si è spostato nel settore manifatturiero, dove si assume di più e si è più tutelati. E ora, che i servizi riaprono, chi si è spostato in fabbrica, non torna indietro, non riprende a fare il cameriere”.

“La pandemia – prosegue – crea una frantumazione del mondo del lavoro, un cambiamento radicale, che è difficile da rimarginare, anche delle abitudini lavorative. Prendiamo i baby boomer, quelli nati negli anni Cinquanta e Sessanta, che oggi hanno intorno ai 60 anni, o sono over 55. E’ gente che ha lavorato 40 e più anni e che prende al balzo i mutamenti introdotti dalla pandemia, per lasciare il lavoro, andare i pensione, o part time, o lavorare da casa. Trova la scusa psicologica, o contrattuale della pandemia per iniziare a fare altre cose”.

    “Insomma, – spiega ancora – questa frantumazione del mondo del lavoro è più profonda di quanto non appaia a prima vista e anche le statistiche del mondo del lavoro incominciano a dimostrarlo”. “E poi il dato sull’occupazione Usa ad aprile dimostra anche un’altra cosa. E cioé che aveva ragione la Federal Reserve, almeno per ora. Powell ci ha visto giusto. Nel senso che era giusto mantenere le politiche accomodanti e che non ci sono problemi di inflazione, perché certi aumenti dei prezzi sono temporanei e non innescano aumenti a catena sul mercato del lavoro. Non ci sono pressioni sui salari. Lo dimostra il fatto che dopo i dati Usa sull’occupazione statunitense, il Treasury a 10 anni è sceso”.


“Negli Stati Uniti la pandemia ha frantumato il mercato del lavoro”

La guerra dei dazi tra Cina e Stati Uniti, tappa per tappa 

Primo accordo tra Usa e Cina sui dazi: scongiurato l’aumento delle tariffe che sarebbero dovute scattare il 15 dicembre. Trump conferma la sospensione dei dazi al 15% su quasi 160 miliardi di dollari di prodotti made in China, a cui Pechino avrebbe risposto con tariffe su 3.300 prodotti statunitensi. Ecco le principali tappe da marzo del 2018, tra turbolenze e schiarite.

2018 – 8 MARZO: IMPOSTA SU ACCIAIO, ALLUMINIO Il presidente Donald Trump annuncia tariffe del 25% sulle importazioni di acciaio e del 10% sull’alluminio da diversi paesi nel tentativo di ridurre l’enorme deficit commerciale degli Stati Uniti. Nel 2017 il deficit ha raggiunto 566 miliardi di dollari, di cui 375 miliardi di dollari con la Cina, il più grande produttore mondiale di acciaio e alluminio. 

22 MARZO: LA RISPOSTA DELLA CINA Alla vigilia della loro applicazione, Trump sospende le tariffe per diversi paesi ma non per la Cina. Pechino risponde con una lista di 128 prodotti statunitensi su cui si dice che imporra’ dazi doganali del 15-25% se i negoziati con Washington falliranno.

19 MAGGIO: SEGNI DI RICONCILIAZIONE I due paesi annunciano una bozza di accordo in base al quale Pechino accetta di ridurre “significativamente” il suo surplus commerciale. Nelle settimane successive, la Cina compie diversi gesti di conciliazione, riducendo i dazi doganali, eliminando le restrizioni e offrendo di acquistare beni statunitensi extra.

6 LUGLIO: RICOMINCIANO LE TENSIONI Nonostante i segnali distensivi, gli Stati Uniti, riaccendono le tensioni mettendo dazi del 25% su circa 34 miliardi di dollari di importazioni cinesi tra cui auto, dischi e componenti di aerei. Pechino risponde con tariffe di pari dimensioni e portata, anche su prodotti agricoli, automobili e prodotti navali.

23 AGOSTO: IL RILANCIO DI TRUMP Washington decide l’imposizione di tariffe su altri 16 miliardi di dollari di merci cinesi, esattamente il giorno dopo la ripresa dei negoziati. La Cina risponde con tariffe del 25% su 16 miliardi di dollari di merci americane, tra cui le moto Harley-Davidson, bourbon e il succo d’arancia.

24 SETTEMBRE: DA WASHINGTON ALTRI DAZI La Casa Bianca decide di mettere tariffe del 10% su 200 miliardi di dollari di importazioni cinesi. Pechino impone dazi doganali su 60 miliardi di dollari di merci americane.

1 DICEMBRE: LA TREGUA L’amministrazione Usa sospende per tre mesi l’aumento tariffario dal 10 al 25% che sarebbe dovuto scattare il 1 gennaio su 200 miliardi di dollari di merci cinesi. La Cina, dal canto suo, accetta di acquistare una quantità “molto consistente” di prodotti statunitensi e sospende per tre mesi, a partire dal 1 gennaio, tariffe aggiuntive per le automobili e i ricambi auto prodotti negli Stati Uniti. Allo stesso tempo permette le importazioni di riso americano.

2019 – 10 MAGGIO: RIPRENDONO LE OSTILITA’, OBIETTIVO HUAWEI Washington pone fine alla tregua, aumentando i dazi su 200 miliardi di dollari di importazioni cinesi. Trump apre un nuovo fronte nella guerra commerciale e il 15 maggio decide di impedire alle aziende americane l’utilizzo di apparecchiature di telecomunicazione straniere ritenute un rischio per la sicurezza. Una mossa contro il gigante cinese Huawei. Il Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti annuncia anche il divieto per le aziende Usa che vendono o trasferiscono tecnologia statunitense a Huawei. Il 20 maggio tuttavia stabilisce una sospensione di 90 giorni del divieto.

29 GIUGNO: NUOVE NEGOZIAZIONI Al G20 di Osaka, Trump e il presidente Xi Jinping stabiliscono un cessate il fuoco. Washington si impegna a non imporre nuove tariffe e Trump dichiara che i negoziati commerciali sono “di nuovo in carreggiata”. I negoziatori americani e cinesi si incontrano a Shanghai il 30 e 31 luglio per colloqui che vengono definiti “costruttivi” e decidono di continuare le discussioni a settembre.

1 AGOSTO: NUOVE SANZIONI AMERICANE Accusando Pechino di non aver rispettato le promesse di acquistare prodotti agricoli Usa e fermare la vendita dell’oppioide fentanil, Trump annuncia tariffe del 10% su altri 300 miliardi in merci cinesi a partire dal 1 settembre. La decisione significa che praticamente tutti i 660 miliardi di dollari di scambi annuali tra le due maggiori economie del mondo saranno soggetti a dazi. Pechino minaccia contromisure.

5 AGOSTO: LA GUERRA VALUTARIA La Cina permette allo yuan di scendere sotto le 7,0 unità rispetto al dollaro per la prima volta in 11 anni. Washington accusa Pechino di manipolare la sua moneta per sostenere le sue esportazioni ma la Banca centrale cinese nega. I media statali cinesi annunciano che Pechino ha sospeso gli acquisti delle esportazioni agricole americane.

1 SETTEMBRE: TARIFFE INCROCIATE Diventano operative nuove tariffe al 15% su prodotti cinesi per un valore di 112 miliardi di dollari. E sempre dal primo settembre partono ‘i controdazi’ di Pechino, che porta dal 5 al 10% i dazi su alcuni prodotti Usa inclusi i semi di soia, le auto e il petrolio, per un giro d’affari di 75 miliardi di dollari. Sul fronte States, le nuove tariffe colpiscono 3.800 prodotti, il 60% dei quali di largo consumo (dai vestiti alle tv a schermo piatto, dagli elettrodomestici alle carni). Dal primo ottobre poi – secondo i piani dell’amministrazione Usa – i dazi del 25% già in vigore su 250 miliardi di merci cinesi (soprattutto prodotti industriali o semilavorati) saliranno al 30%. E dal 15 dicembre gli Usa minacciano di applicare l’aliquota del 15% su altri 160 miliardi di import.

2 SETTEMBRE: IL RICORSO AL WTO La Cina presenta un ricorso al Wto contro gli Stati Uniti per gli ultimi dazi imposti.

12 SETTEMBRE: USA POSTICIPANO DAZI AL 15 OTTOBRE Trump annuncia lo slittamento di due settimane dell’aumento dei dazi sui beni cinesi importanti negli Usa per 250 miliardi di dollari. L’entrata in vigore delle nuove tariffe viene cosi’ posticipate dal primo al 15 ottobre prossimo.

11 OTTOBRE: NUOVA TREGUA E ‘FASE 1’ DELL’INTESA Trump annuncia dopo aver incontrato il vice presidente cinese Liu He, al termine della due giorni di negoziati a Washington: “Siamo arrivati alla fase uno di un accordo sostanzioso”. Congelati gli aumenti tariffari del 5% su 250 miliardi di beni cinesi importati negli Usa che sarebbero altrimenti scattati dal prossimo 15 ottobre. La parziale intesa comprende i servizi finanziari, i prodotti agricoli e progressi sul contenzioso relativo alla proprietà intellettuale. La Cina acconsente all’acquisto di prodotti agricoli statunitensi per 40-50 miliardi di dollari. Affrontato separatamente il nodo Huawei.

26 NOVEMBRE: STRETTA FINALE Usa e Cina sono alla “stretta finale” sul negoziato: “Sta andando molto bene, ma allo stesso tempo vorremmo che andasse altrettanto bene a Hong Kong”, dice Trump, dopo che i principali negoziatori di Washington e Pechino si sono sentiti telefonicamente per dare gli ultimi ritocchi alla Fase 1 dell’accordo.

28 NOVEMBRE: TRUMP FIRMA LEGGE CONTRO HONG KONG Il presidente Usa firma la legge a sostegno dei manifestanti pro democrazia a Hong Kong. Hong Kong esprime “estremo rammarico” e la Cina minaccia “dure contromisure”.

13 DICEMBRE: RAGGIUNTA FASE UNO DELL’INTESA L’accordo sospende l’introduzione di nuove tariffe, sia da parte degli Stati Uniti che della Cina, il 15 dicembre. Trump conferma la sospensione dei dazi al 15% su quasi 160 miliardi di dollari di prodotti made in China, a cui Pechino avrebbe risposto con tariffe su 3.300 prodotti statunitensi. 

Agi

Quanto stanno investendo gli Stati Uniti nel 5G?

L’amministrazione Trump ha annunciato venerdì i suoi piani per accelerare l’installazione di reti 5G, compresa la promessa di miliardi di dollari per dare alle aree rurali l’accesso più remoto alle comunicazioni mobili ultraveloci.

“La nuova rete 5G migliorerà la vita degli americani in molti modi”, ha detto alla Casa Bianca il capo della Federal Communications Regulatory Agency (Fcc), Ajit Pai.

La Fcc ha annunciato delle aste per queste nuove reti e ha promesso un fondo da 20,4 miliardi di dollari per dotare, nel decennio, di reti rurali ad alta velocità che, a causa della vastità del territorio degli Stati Uniti, Uniti, hanno ridotto o nessun accesso a Internet.

“Dall’agricoltura di precisione alle reti di trasporto intelligenti alla telemedicina e altro ancora, vogliamo che gli americani siano i primi a trarre vantaggio da questa nuova rivoluzione digitale, proteggendo nel contempo i nostri innovatori e i nostri cittadini. E non vogliamo che gli americani che fanno la campagna restino ai margini”, ha detto Pai.

Con la sua consueta tendenza all’iperbole, il presidente degli Stati Uniti ha detto di volere “il prima possibile il 5G, e anche il 6G”. Non si sa se sia ambizione o la riproposizione del “punto, due punti!” di Totò e Peppino, ma di sicuro Donald Trump si è schierato: “Le nuove reti sono più potente, più veloci e più intelligenti dello standard attuale. Le aziende americane devono intensificare i loro sforzi. Non c’è motivo per cui dovremmo essere in ritardo”.

Non lo dice, ma il “ritardo” è, prima di tutto, nei confronti della Cina. Il 5G, oltre a essere un gigantesco propulsore per l’economia del Paese, è anche l’ennesimo campo di gara con Pechino. Due eccellenti motivi per accelerare.

Le nazioni leader

Sfruttare le potenzialità del 5G vorrebbe dire 391 miliardi di dollari e 1,8 milioni di posti di lavoro in cinque anni. È la stima fatta da Analysis Group in un rapporto della Ctia, l’associazione americana che rappresenta il settore delle comunicazioni wireless. L’indagine certifica il progresso degli Stati Uniti. La Ctia, miscelando diversi parametri (progetti pilota, copertura, infrastrutture, applicazioni) arriva a una classifica dei Paesi meglio piazzati nello sviluppo del 5G. Nel 2017, gli Usa erano al terzo posto, alle spalle di Cina e Corea del Sud. Nella nuova graduatoria (che vede l’Italia al quinto posto, primo tra europei accanto alla Gran Bretagna), ha scavalcato Seul e ha affiancato proprio la Cina. Quarto il Giappone.

Leggi anche: Lo speciale Agi sul 5G

“Il miglioramento nel ranking degli Stati Uniti – afferma il rapporto – è attribuibile agli investimenti significativi dell’industria wireless americana nelle reti 5G e all’azione del governo”. Gli Usa sembrano più pronti nella messa a terra dei servizi. Cioè nella capacità di fornirli a imprese e utenti. La Cina ha invece un “significativo vantaggio infrastrutturale”, con 14 “celle” (le stazioni che coprono un’area) ogni 10.000 abitanti e 5 ogni 10 miglia quadrate. Gli Stati Uniti si fermano rispettivamente a 4,7 e 0,4. L’infrastruttura cinese è quindi molto più capillare. È (anche) alla luce di questo testa a testa che va osservata la questione Huawei, le pressioni di Washington sui Paesi alleati da una parte e la dura difesa di Pechino (oltre che del gruppo di Shenzen).

Verizon, 5G già aperto ai clienti

Verizon offre già alcuni servizi 5G al pubblico. 5G Home consente di connettere ad alta velocità la propria casa in alcune aree di Houston, Sacramento, Indianapolis e Los Angeles. Per chi è già un cliente mobile di Verizon, costa 50 dollari al mese (non esistono ancora pacchetti annuali). Non ha un tetto di dati e promette di essere 20 volte più veloce rispetto alle più diffuse connessioni 4G Lte. La velocità più frequente, al momento, è di 300 Mbps, ma in alcune zone si toccano i 940 Mbps.

Verizon ha promesso di allargare il perimetro dell’offerta, per raggiungere 30 citta entro la fine del 2019. Ma – al momento – c’è un problema: sono ancora pochissimi i dispositivi, fissi o mobili, che possono sfruttare il 5G. Ecco perché l’espansione sarà, con tutta probabilità, rimandata alla seconda metà dell’anno. Nel frattempo, però, l’operatore ha fatto un altro passo: dal 3 aprile offre ai clienti, per la prima volta, un piano wireless per dispositivi mobili, a Minneapolis e Chicago.

Se le reti ci sono, anche in questo caso, quello che manca sono gli smartphone. Per sfruttare il 5G, infatti, serve essere in un’area delle due città coperte e avere un Motorola Z3, l’unico a oggi compatibile e sul mercato. Presto ne arriveranno altri,come il Galaxy S10 5G e il V50 ThinQ di LG. Vista la scarsa presenza di dispositivi, nella vita di tutti i giorni non ci sarà una rivoluzione, neppure a Minneapolis e Chicago. Così come non cambia nulla nel conto economico di Verizon. Il ceo Hans Vestberg, ha spiegato a Cnbc che non si aspetta di vedere un impatto significativo sul bilancio fino al 2021. È però un traguardo, simbolico e non solo, importante: i clienti possono pagare (10 dollari aggiuntivi al proprio abbonamento) per avere il 5G nelle mani.

Tra nuove reti e fusioni

AT&T, altro grande operatore Usa, ha già detto che intende avere una copertura 5G nazionale entro il 2020. Ha già varato servizi 5G in 12 città americane: Houston, Dallas, Atlanta, Waco, Charlotte, Raleigh, Oklahoma City, Jacksonville, Louisville, New Orleans, Indianapolis e San Antonio. Ma è un’offerta circoscritta ad alcune imprese e a una ristretta cerchia di clienti. Non è quindi libera come quella di Verizon, anche se un piano simile dovrebbe arrivare nel 2019.

Alla corsa partecipano anche gli altri due big del mercato, che potrebbero accelerare se le autorità americane approveranno la loro fusione. T-Mobile e Sprint si sono già accordare un anno fa, ma il via libera non è ancora arrivato. Nessuna delle due ha aperto un servizio pronto all’uso. T-Mobile copre già una trentina di città, tra le quali Los Angeles, New York e Las Vegas. Ma non è accessibile ai clienti, perché la rete non è ancora compatibile con alcun dispositivo. Dovrebbe esserlo nella seconda metà del 2019. La compagnia prevede di coprire due terzi della popolazione americana con una velocità di 100 Mpbs entro il 2021.

Le reti 5G di Sprint dovrebbero invece aprire al pubblico a maggio, in alcuni luoghi come aeroporti e impianti sportivi, in città come Atlanta, Chicago, Dallas. Poco dopo dovrebbero aggiungersi Houston, Los Angeles, New York City, Phoenix e Washington. Tutto questo con un’occhio alla fusione. Il 7 marzo, l’amministratore delegato di T-Mobile Usa, John Legere, ha affermato che un nuovo soggetto forte (cioè il gruppo che risulterebbe dalla fusione) permetterebbe di offrire connessioni ultraveloci casalinghe anche nelle aree rurali (che ospitano il 45% della popolazione) e – grazie a una maggiore concorrenza –consentirebbe agli americani di risparmiare 13 miliardi di dollari entro il 2024.    

Agi

Stati Uniti e Cina si stanno mettendo d’accordo per chiudere la guerra dei dazi?

La Cina definisce “costruttivi” i colloqui in corso con gli Stati Uniti sulla risoluzione delle dispute commerciali, ma smentisce l’offerta da duecento miliardi di dollari per ridurre il surplus con gli Usa, come dichiarato in forma anonima da un funzionario di Washington nelle scorse ore. “Questo rumor non è vero”, ha dichiarato il portavoce del ministero degli Esteri Lu Kang in conferenza stampa. 

Lu ha aggiunto, senza scendere nel dettaglio, che i colloqui di Washington tra Cina e Stati Uniti sul commercio, giunti al secondo round dopo il primo svoltosi a Pechino il 3 e 4 maggio scorsi, “a quanto so, sono in corso e sono costruttivi”.

Giunto a Washington, il vice primo ministro cinese con delega agli affari economici e finanziari, Liu He, ha incontrato il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, a cui ha ribadito che la Cina vuole “gestire in maniera appropriata” le divergenze sul commercio con gli Usa per un “reciproco beneficio”, secondo quanto riporta l’emittente televisiva statale cinese, China Central Television.

Pace sul sorgo

In un segnale di distensione, il ministero del Commercio aveva annunciato l’interruzione dell'inchiesta anti-dumping sulle importazioni di sorgo dagli Stati Uniti, che erano soggette, secondo misure temporanee decise il mese scorso a dazi del 178,6%.

La Cina ha deciso di terminare le indagini anti-dumping sulle importazioni di sorgo proveniente dagli Stati Uniti perché “non sono nell’interesse pubblico”.

La decisione è stata annunciata da un comunicato diffuso dal ministero del Commercio, che cita i timori di un aumento dei costi segnalati da chi lavora nel settore e crescenti difficoltà per il settore agricolo.

Le indagini erano state lanciate a febbraio, e il 17 aprile scorso il ministero aveva deciso l’applicazione di una tariffa temporanea anti-dumping del 178% sul sorgo importato dagli Stati Uniti.

Lo scorso anno la Cina ha importato sorgo dagli Usa per 1,1 miliardi di dollari e la decisione di imporre dazi avveniva nel pieno delle tensioni sul commercio tra Cina e Stati Uniti. Il sorgo è utilizzato in Cina sia come mangime che per la produzione di alcolici.

Zte sullo sfondo

L’atmosfera tra Cina e Stati Uniti sul commercio si è rasserenata negli ultimi giorni. I colloqui – che si concluderanno il 19 maggio – seguono all’apertura di Trump, rispetto al caso Zte, oggetto di un bando settennale per la vendita di componenti al gigante della tecnologia cinese sull’accusa di esportazioni illegali verso l’Iran, che verrà preso nuovamente in considerazione dal Dipartimento del Commercio di Washington su richiesta dello stesso Trump. Una decisione che ha tuttavia sollevato le critiche della fronda anti-cinese alla Casa Bianca. 

Agi News