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Precario il lavoro, precari i margini delle aziende. Un’analisi sulla crisi dei call center

In Italia circa 80mila persone lavorano nei call center. Di queste, la metà risponde alle chiamate dei clienti (inbound) e l’altra metà si occupa di outbound (ovvero propone agli utenti nuovi piani tariffari o prodotti da acquistare). Ma per molti di loro il posto di lavoro – che da anni rappresenta l’emblema della precarizzazione – è più a rischio che mai. E non è solo un problema dei lavoratori di Almaviva che, come ordinato dal giudice con una sentenza di pochi giorni, dovrà riassorbire (a Catania) i 153 licenziati del call center Almaviva Contact di Roma, che oggi non esiste più. La questione è ben più ampia, assorbe tutto il comparto e non solo Almaviva – che nel settore fa la parte del leone, anche perché impiega lavoratori italiani e non delocalizza all'estero – e affonda le radici nell’aumento dei costi e nei bassissimi stipendi.

I campanelli d’allarme

Secondo quanto riporta il Sole24Ore, il settore, “a sentire sia i sindacati sia le imprese, sembra avvertire un crescendo di campanelli di allarme. Nel Rapporto Asstel, che sarà presentato il 28 novembre, si quantificano in 2 miliardi – e in salita fra il 2 e il 4% – i ricavi del settore nel 2016. Dall’altra parte anche i costi sono in aumento con marginalità crollata ed Ebitda al 4,6% dei ricavi: in calo dell’11% fra 2015 e 2016 e del 6% fra 2014 e 2015. Pur trattandosi di un mercato altamente frammentato, i primi 12 player generano oltre il 60% del fatturato totale che per il 90% viene da 50 aziende”.

Ma non solo: “L’attività nel nostro settore – spiega Paolo Sarzana, presidente di Assocontact – presenta livelli di remunerazione talmente bassi che per molte realtà non ne garantiscono la sopravvivenza. E se è vero che in questo momento non ci sono crisi attive, è altrettanto vero che ci sono tantissime imprese in sofferenza, che perdono soldi, con un rischio di default in aumento”.

L’autoregolamentazione imposta dal Mise

Parlando di remunerazione – continua il Sole – il discorso finisce inevitabilmente sulla committenza. Qui il Mise ha portato 13 grandi società committenti a firmare a maggio un “Protocollo di autoregolamentazione sulle attività di call center in outsourcing”. Tra i punti qualificanti figura l’impegno a svolgere almeno l’80% delle attività in Italia. A breve ci sarà una verifica. “Vedremo i risultati. Certo è – aggiunge Sarzana – che è in arrivo anche il rinnovo contrattuale, con un inevitabile aumento dei costi. È chiaro che i futuri livelli di remunerazione dovranno tenerne conto e questi 13 grandi committenti dovranno dare l’esempio”.

Le aggregazioni nate per abbattere i costi

Nel frattempo, le tensioni sui costi stanno spingendo sempre di più alle aggregazioni. Nel settore si attendono, quindi, altri piccoli e grandi consolidamenti nei prossimi mesi sulla scia di quanto successo l’anno scorso con la fusione tra Visiant e Contacta, aziende italiane quinta e nona sul mercato, che ha dato vita a Covisian. Lo stesso Gruppo Covisian ha qualche giorno fa annunciato di aver acquisito l’88% del capitale di Vivocha, azienda italiana specializzata in sistemi digitali per il Crm.

Quella dei call center è stata per anni una giungla. La circolare Damiano – sostiene il quotidiano in un altro articolo – ha portato all'assunzione di 26mila lavoratori, con la distinzione fra inbound e outbound. “Nel settore però si è nel frattempo insinuato un tarlo che ha lavorato in profondità, intrecciandosi a una crisi economica che ha di fatto sublimato una situazione esplosiva. La globalizzazione (e le delocalizzazioni) esistono anche per i call center. Altrove ci sono costi minori, ma questo si chiama dumping se poi si va a gareggiare su commesse in Italia. Si è intervenuti nel 2012 con l'articolo 24-bis del Dl sviluppo in cui è stato previsto che chiunque si rivolga o sia contattato da call center debba sapere se sta parlando con qualcuno all'estero”.

A questo si unisce “l'obbligo di comunicazioni al ministero del Lavoro, di cui sia i sindacati sia le aziende lamentano una diffusa inottemperanza. Intanto arrivano crisi e un periodo di gare su gare, con i committenti interessati a spuntare il miglior prezzo possibile. In questo quadro disattendere le norme sulle delocalizzazioni ad alcuni ha fatto gioco, e ad altri no. Ecco che spuntano le crisi, con sindacati e istituzioni impegnati a salvare posti di lavoro. Ma la salvaguardia ha comportato spesso facilitazioni per le realtà salvate, in grado così di fare offerte competitive con l'effetto, velenoso, di abbassare il mercato”.

 

Agi News

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