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Ita vuole vederci chiaro sugli incentivi che gli aeroporti danno alle low cost

AGI – Ita Airways vuole vederci chiaro sugli incentivi che gli aeroporti di Bari, Brindisi, Catania, Palermo e Torino avrebbero concesso alle low cost per entrare nelle loro rotte. La compagnia vuole accedere alla documentazione relativa agli accordi di incentivazione e di co-marketing per acquisire ogni informazione utile a comprendere le politiche adottate dagli tali aeroporti a favore dei vettori non di bandiera.

Ita Airways ha più volte manifestato il proprio malcontento nei confronti di quella che definisce “la poca trasparenza di tali politiche di incentivazione“, soprattutto nei confronti “delle low cost, a fronte dei documenti pubblici relativi agli accordi in essere con la compagnia di bandiera, che devono rispettare una normativa dettata dalle autorità competenti”.

Le regole, e dunque anche le forme di incentivazione, secondo il vettore “devono essere trasparenti ed uguali per tutti“. Ita Airways trova “inadeguato” il rapporto tra le compagnie low cost e gli aeroporti che operano in regime di concessione pubblica. 


Ita vuole vederci chiaro sugli incentivi che gli aeroporti danno alle low cost

Dalla Pa al fisco e al lavoro. Come il governo vuole usare il Recovery Fund

AGI – I regolamenti di Next Generation EU non entreranno in vigore prima del 2021, ma il Governo, allo scopo di avviare un dialogo informale con la Commissione Ue, ha già approntato delle linee guida per la definizione del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Ieri sera l’esecutivo le ha condivise con la Camera per avviare una collaborazione fra le istituzioni in una fase programmatica che rappresenta uno “snodo strategico”. Di seguito le linee guida principali di intervento delineate nelle 73 pagine che compongono il documento, fra la lettera del premier Giuseppe Conte, il testo e le 32 slide. 

Più investimenti pubblici

L’esecutivo evidenzia la “necessità di politiche che consentano di ampliare gli incentivi e le risorse, al fine di ripristinare un livello adeguato di investimenti e di infrastrutture”. Per questo “importanti misure di sostegno agli investimenti saranno introdotte nel breve periodo per accelerare l’uscita del Paese” dalla crisi. A queste saranno affiancate “tutte le azioni necessarie per garantire appalti pubblici efficienti, trasparenti e con tempi certi”.

Per coinvolgere risorse private, “laddove ne sussistano i presupposti, nel settore della realizzazione di infrastrutture di pubblica utilità”, si ricorrerà anche a “schemi di partenariato pubblico-privato”. Sulle concessioni autostradali, poi, “si darà ulteriore impulso al processo di revisione” e la rete “dovrà essere adeguata alla progressiva diffusione dei veicoli elettrici”. Fra le infrastrutture su cui il Governo intende puntare ci sono “in primo luogo la rete ferroviaria ad alta velocità per passeggeri e merci”, oltre a interventi sulla rete stradale e autostradale con una particolare attenzione per ponti e viadotti. 

Pubblica amministrazione, ricerca e sviluppo

L’efficienza della Pa è “un indicatore fondamentale per valutare le potenzialità di crescita di un Paese”; su questo fronte il processo di innovazione verrà accompagnato “da ulteriori azioni di riforma” che costituiscono “un programma strategico di rafforzamento delle competenze e della capacità amministrativa”. 

Saranno aumentate le risorse pubbliche dedicate alla ricerca di base e applicata: il governo si ripropone di “accompagnare il Pnrr per incrementare complessivamente la spesa per R&S e ricerca universitaria di almeno 0,2 punti percentuali di Pil nel prossimo quinquennio”. Fra gli altri punti cardine anche “favorire l’accesso degli studenti diplomati a corsi di laurea in discipline Stem, inclusa l’informatica” e l’istituzione di “crediti d’imposta per gli investimenti innovativi e verdi”. 

Fisco e lavoro

Il governo metterà in campo anche una riforma del sistema fiscale e delle regole del lavoro. Con l’obiettivo di un fisco “equo, semplice e trasparente” il primo passo sarà una “riforma complessiva della tassazione diretta e indiretta”. Altro punto qualificante il sostegno alle famiglie e alla genitorialità. Il governo inoltre intende “disattivare anche tutti gli aumenti di Iva e accise previsti dalle clausole di salvaguardia”.

Sul fronte del lavoro, invece, oltre alla riduzione del costo “attraverso la riduzione del cuneo fiscale”, l’esecutivo punta su un “rafforzamento della contrattazione collettiva nazionale” e anche sull’introduzione “del salario minimo legale”, che garantirà nei settori a basso tasso di sindacalizzazione “un livello di reddito collegato ad uno standard minimo. 

Una giustizia più svelta e il capitolo sanità

Il Pnrr ha l’obiettivo di dare all’Italia un ordinamento giuridico più moderno e attraente attraverso tre cardini: la riduzione della durata dei processi civili e penali, la revisione del codice civile e la riforma del diritto societario. Su quest’ultimo tema gli intenti sono “uniformare la governance societaria agli standard Ue” e “la riforma della disciplina della crisi d’impresa”. 

Le risorse saranno usate anche “per il rafforzamento della resilienza e della tempestività di risposta del sistema sanitario”, anche attraverso “lo sviluppo della sanità di prossimità”. Gli investimenti saranno diretti anche verso “la digitalizzazione dell’assistenza medica ai cittadini”. 

I criteri per i progetti e le risorse

L’esecutivo ha indicato anche i criteri – positivi e negativi. Fra quest’ultimi spiccano “i progetti ‘storici’ che hanno noti problemi di attuazione di difficile soluzione”, mentre è un fattore ben visto “la rapida attuabilità/cantierabilità” e la monitorabilità di progetti con effetti positivi rapidi su numerosi beneficiari. 

La ‘Recovery and resilience facility’ metterà a disposizione dell’Italia 191,4 miliardi, che saliranno a 208,6 miliardi grazie ad altri fondi europei. Per quanto riguarda la Rff “il 70% dell’importo totale dovrà consistere in progetti da presentare al più tardi nel 2022” con le risorse relative che “dovranno essere impegnate entro quell’anno”. Il Governo intende utilizzare la parte di sovvenzioni “per conseguire un incremento netto di pari entità degli investimenti pubblici nel periodo 2021-2026”. Al piano Pnrr si affiancherà “una programmazione di bilancio volta a riequilibrare la finanza pubblica nel medio termine” dopo la forte espansioni del deficit prevista per quest’anno in conseguenza della pandemia. 

Agi

Agli statali lo smart working piace così tanto che nessuno vuole tornare in ufficio

Oltre 9 dipendenti pubblici si 10 (il 93,6%) vorrebbe proseguire con lo smart working anche una volta finita l’emergenza coronavirus. Divenuto obbligatorio a partire da febbraio 2020 con le direttive per il contenimento dell’emergenza sanitaria, lo smart working è stato una novità assoluta per oltre 1/3 delle amministrazioni pubbliche italiane. E ha rappresentato una vera e propria rivoluzione, come emerge da un’indagine di Fpa (società del gruppo Digital360) a cui hanno risposto oltre 4.000 dipendenti pubblici.

Se – come ha sottolineato la ministra della Pa, Fabiana Dadone – una volta tornati alla normalità almeno il 40% dei dipendenti pubblici dovrà adottare una modalità di lavoro agile, questi si dicono pronti: il 93,6% vorrebbe continuare a lavorare in smart working. Ma per la maggior parte (il 66%) il lavoro da casa deve essere integrato con dei rientri in ufficio organizzati e funzionali.

Che ne pensa il lavoratore dello smart working

Oggi, rileva l’indagine, il 92,3% di questi dipendenti della Pa sta lavorando in modalità ‘smart’ e per l’87,7% di loro si tratta di un’esperienza completamente nuova, per cui hanno dovuto utilizzare in maggioranza pc, cellulari e connessioni internet personali, spesso condividendo lo spazio in cui lavorano con altri membri della famiglia, e senza ricevere una formazione specifica sul lavoro da remoto. Eppure, il bilancio dello smart working ‘forzato’ nella Pa è assolutamente positivo: l’88% dei dipendenti giudica l’esperienza di successo e il 61,1% ritiene che questa nuova cultura, basata sulla flessibilità e sulla cooperazione all’interno degli enti, fra gli enti e nei rapporti con i cittadini e le imprese, prevarrà anche una volta finita la fase di emergenza.

Perché piace lo smart working

Lo smart working ha permesso inoltre al 69,5% del personale della Pa di “organizzare e programmare meglio il proprio lavoro”, al 45,7% di “avere più tempo per sé e per la propria famiglia”, al 34,9% di “lavorare in un clima di maggior fiducia e responsabilizzazione”. In 7 casi su 10 è stata assicurata totale continuità al lavoro, per il 41,3% dei lavoratori l’efficacia è persino migliorata (per un altro 40,9% è rimasta analoga). Per oltre il 50% la relazione con i colleghi è invariata, per il 20% addirittura migliorata. 

“L’emergenza Covid19 ha portato un’adozione massiva e rapida dello smart working nella Pa, che può essere il punto di partenza per ridisegnare il futuro del lavoro pubblico – commenta Gianni Dominici, direttore generale di Fpa – le amministrazioni che già stavano sperimentando il lavoro agile hanno saputo reagire meglio all’emergenza, riuscendo a mettere in poco tempo in smart working tutti i dipendenti e superando le difficoltà, tecnologiche e organizzative, causate inevitabilmente da questa introduzione forzata. Questa esperienza, tuttavia, sta dimostrando che anche nella Pa è possibile lavorare in modo flessibile e per obiettivi invece che guardando solo agli orari e al cartellino, con effetti positivi sia per l’attività che per la vita personale”.

“Infranti stereotipi e pregiudizi”

“Perchè lo smart working diventi effettivamente una nuova modalità di organizzazione del lavoro nella Pubblica Amministrazione – conclude Dominici – ora è necessario ripensare i processi di lavoro, definire puntualmente obiettivi e risultati individuali e fare formazione specifica sull’uso delle tecnologie e degli strumenti di comunicazione, come consigliano gli stessi dipendenti pubblici. A questo scopo, approfondiremo e commenteremo i risultati della ricerca durante FORUM PA 2020, che vuole contribuire a una diversa visione di sviluppo anche sul tema del lavoro pubblico”.

“Pur se avvenuta in modo spesso improvvisato, l’applicazione dello Smart Working per la Pa nella prima fase dell’emergenza ha dimostrato un’efficacia da molti inaspettata, infrangendo stereotipi e pregiudizi e dimostrando che un diverso modo di lavorare nella PA non solo è possibile, ma può portare grandi benefici per le amministrazioni, i lavoratori e la società nel suo insieme – afferma Mariano Corso, presidente di P4I, la società di Advisory del gruppo Digital360 e responsabile dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano – la gestione della fase 2 può oggi rappresentare l’occasione per rendere più efficaci le nuove modalità di lavoro, dimostrandone i benefici. In questo modo la fine dell’emergenza non sarà per la Pa un ritorno al passato, ma piuttosto un nuovo inizio da affrontare con modelli di lavoro più flessibili, efficienti e sostenibili”. 

Agi

Perché Lufthansa non vuole comprare Alitalia

Nessun investimento diretto in Alitalia ma la proposta di una partnership commerciale. Lufthansa rilancia la sua proposta per la compagnia aerea italiana e, al momento, di una acquisizione tout court non ne vuole sentir parlare. Dalla partnership commerciale Alitalia potrebbe avere più vantaggi, ha spiegato il responsabile per Lufthansa del dossier Alitalia, Joerg Eberhart, presidente e ceo di Air Dolomiti, in audizione in commissione Trasporti della Camera.

“Con Fs e Atlantia abbiamo condotto incontri positivi e svolto un intenso lavoro ma non abbiamo trovato un piano comune che consentisse di proporre un investimento. Per questo proponiamo una partnership commerciale che avrebbe più vantaggi rispetto a un investimento”, ha spiegato aggiungendo che questa “potrebbe generare per Alitalia un risultato annuale di 100 milioni di euro in più”.

Perché il matrimonio non s’è mai fatto

Il manager tedesco ha svelato poi i motivi per cui le nozze tra le due società non sono mai state celebrate: cambi di governo e di interlocutori, oltre agli interessi, spesso confliggenti, tra i vari attori. “Non c’era un piano Lufthansa, c’era un piano Fs e c’erano i commenti nostri e di Atlantia. Non potevamo investire perché il piano non era concordato e per mancanza di capacità manageriale. Capacita’ manageriale che avremmo potuto mandare a Roma, dedicare al progetto”, ha osservato Eberhart, ma “senza accordo con gli stakeholder principali, commissari, governo, sindacati sulla direzione in cui sviluppare l’azienda per chi viene da fuori è abbastanza difficile”.

Nel periodo del commissariamento si sono succeduti tre differenti governi (Gentiloni, Conte I e Conte II, ndr): “Anche come continuità del governo era una sfida anche per noi durante gli ultimi due anni e mezzo trovare gli interlocutori giusti. Era difficile ogni volta ricominciare da zero con nuove persone. Questi i motivi per cui abbiamo proposto una partnership commerciale” e non un investimento.

Per Lufthansa inoltre è necessaria una forte ristrutturazione della compagnia italiana: “Siamo fortemente convinti che un profondo risanamento di Alitalia sia inevitabile. Solo così con il tempo necessario e partendo da una posizione di forza potrà scegliere tra Lufthansa, British Airways ed Air France-Klm, facendo una scelta libera”. Ultima ratio taglio di rotte ed esuberi. “Se tutte le misure messe in campo non bastassero si dovrà pensare a un ridimensionamento ma questo non è il fine. La cancellazione di tratte, flotta e personale navigante sarebbe solo l’ultima ratio. Prima bisognerebbe provare tutto”, ha rassicurato Eberhart.

Arriva un nuovo direttore generale

Dopo il manager tedesco a sedersi davanti alla Commissione Trasporti della Camera, il commissario straordinario, Giuseppe Leogrande che ha subito annunciato Giancarlo Zeni come nuovo direttore generale. “Con lui metteremo mano al piano industriale e alle misure di efficientamento e di riorganizzazione”, ha assicurato. Il nuovo dg lascerà la carica di amministratore delegato di Blue Panorama e guadagnerà 250.000 euro lordi all’anno. “All’interno dell’azienda ci sono figure retribuite di più. Non è una cosa clamorosa considerando la riduzione dell’organo commissariale”, lo ha difeso Leogrande dai malumori dei parlamentari. La strada tracciata dal commissario comunque è indicata. “L’obiettivo è chiudere entro il 31 maggio. È chiaro che può essere raggiunto o con la cessione o anche attraverso il conferimento” di Alitalia “a una newco”.

Anche la ministra delle Infrastrutture e Trasporti, Paola De Micheli si è soffermata sui tempi. “Sono assolutamente convinta che si debbano rispettare i tempi previsti dal decreto. Gli interventi dovranno rispettare quella tempistica e quella copertura finanziaria”, ha detto.

Circa un nuovo coinvolgimento di Fs, la ministra ha spiegato che “è evidente che la partecipazione” delle Ferrovie nell’aviolinea “sarà valutata da Fs nel momento in cui sarà realizzato il mandato di questo decreto da parte del commissario e si saranno generate le nuove condizioni per poter eventualmente partecipare a un altra cordata. Ma sono condizioni che Fs dovrà valutare nel momento in cui sarà terminato il mandato. Non credo che sia giusto e corretto verso Fs prevedere allo stato attuale una determinazione di imperio”, ha sottolineato De Micheli aggiungendo che “la preoccupazione” principale del governo è “il mantenimento dei livelli occupazionali”. 

Agi

Perché Scholz vuole l’unione bancaria dell’Eurozona

Il ministro delle Finanze tedesco, Olaf Scholz spinge per completare il piano di unione bancaria dell’Eurozona. Lo ha scritto lo stesso Scholz in un articolo sul Financial Times, nel quale sostiene che le banche europee devono dotarsi di un sistema comune di assicurazione sui depositi. Secondo Scholz il ruolo globale dell’Europa sarebbe compromesso se non venisse completata l’integrazione del settore finanziario dell’Eurozona.

Perché è necessaria l’integrazione

“La necessità di approfondire e completare l’unione bancaria europea è innegabile. Dopo anni di discussioni, la situazione di stallo deve finire “, ha scritto Scholz, il quale evidenzia che con la Brexit, l’Ue perderà la City londinese – il suo più grande centro finanziario – e ciò significa che è giunto il momento di promuovere una migliore integrazione delle banche dell’area euro.

La Bce e i leader europei hanno più volte sollecitato governi dell’Ue a porre fine alle divisioni politiche sul completamento dell’unione bancaria, più nel dettaglio hanno sempre sostenuto che questo progetto è essenziale per rendere l’Eurozona più resistente agli shock economici e per consentire alle banche fallite di essere liquidate in sicurezza, senza la necessità di pesare sulle tasche dei contribuenti.

Proteggere i depositanti durante un collasso bancario

L’elemento più sorprendente contenuto nelle proposte di Scholz è il suo piano per creare un sistema comune europeo a protezione dei depositanti durante un collasso bancario. La Germania ha sempre respinto tali piano, i in mezzo all’ostilità pubblica nei confronti di qualsiasi tentativo percepito di mettere i contribuenti in pericolo per le banche instabili in altri Paesi.

Il sistema di riassicurazione fungerebbe da sostegno ai fondi nazionali, contribuendo a garantire che i governi possano onorare il loro obbligo legale di proteggere i depositi fino a 100.000 euro in caso di collasso bancario.

Merkel accetterà la proposta?

Accettare una qualche forma di meccanismo europeo comune di assicurazione dei depositi non è stato “un piccolo passo per un ministro delle finanze tedesco”, ha scritto Scholz.

Tuttavia, le sue proposte presentano pesanti avvertimenti e condizioni, che sono suscettibili di suscitare preoccupazione negli Stati membri dell’Ue con le finanze più deboli e i settori bancari fragili. Le sue proposte rischiano di trovare opposizione anche in Germania. Il Ft nota che gli amministratori pubblici tedeschi considerano l’iniziativa di Scholz un ‘non-paper‘, cioè una proposta personale del ministro, avanzata solo per favorire la discussione e che non è stata coordinata con il cancelliere tedesco Angela Merkel, il quale non è certo se appoggerà o meno questo piano. 

Agi

Nell’era del capitalismo digitale ci vuole un’economia civile, dice Zamagni

Marx è stato superato dalla Storia, ma anche il capitalismo ha vissuto momenti migliori. È ora di trasformare, non di riformare. A dirlo in questa intervista all’AGI Stefano Zamagni, l’economista dell’Università di Bologna che ha affiancato Benedetto XVI nel redigere il testo della Caritas in Veritate. A marzo Papa Francesco lo ha nominato presidente della Pontificia Accademia delle Scienze

Professore, che succede? Il capitalismo sembrava una macchina destinata a durare in eterno, invece per qualcuno sta esalando l’ultimo respiro.

“No, il capitalismo non sta morendo. A differenza di altri sistemi può modificare le sue caratteristiche nel tempo. Dura dal XVII secolo, ed è passato in questo tempo dal capitalismo commerciale a quello agricolo e poi a quello industriale, mentre oggi abbiamo il capitalismo finanziario”.

Che è l’ultima.

“No! Dal 2001 è iniziata la sua fase digitale. Il problema è che ad ogni passaggio di fase si pensa che sia finita la Storia, oggi come in passato. Invece siamo già in una nuova fase iniziata da quasi un ventennio. Solo che a tutt’oggi ancora abbiamo capito poco delle caratteristiche di questa nuova forma di capitalismo, e delle sue conseguenze”.

Non può essere lasciato solo?

“La transizione digitale in corso tende al monopolio e all’oligopolio. Riflettiamo su un dato: il valore dell’economia immateriale adesso supera di gran lunga quello dell’economia materiale. Solo che le nostre società non sono arrivate in tempo a regolamentare la dimensione immateriale dell’economia, e questa è una cosa che ha il suo impatto sull’economia e la democrazia. Se si prendono cinque imprese come Google, Amazon, Facebook, Apple e Microsoft vediamo che insieme hanno una capitalizzazione di borsa maggiore del PIL del Portogallo. Di un intero Stato europeo. Ripeto: la questione non è solo economica e non può non avere conseguenze sulla democrazia”.

La Fine della Storia che in realtà è Fine delle Democrazie. Da Francis Fukuyama a Jean-Francois Revel.

“Guardi, tutto questo non è inevitabile. Il problema è che le classi politiche finora hanno dormito sonni tranquilli, ritenendo che il digitale fosse solo una questione di tecnologia. Invece è qualcosa di trasversale, che passa dalla pura tecnologia all’economia e alla politica. Qualcuno inizia a reagire: l’Ue ha varato il suo Codice Etico, la Camera dei Lord si è pronunciata. Ma siamo ancora agli inizi: gli Usa non si sono mossi, anche se certo lo faranno. L’Europa comunque al momento ha una posizione isolata, e questo è il cardine del problema”.

Ma se il modello economico liberista mostra tutte le sue rughe, non sarebbe il caso di tornare al Keynes che ci permise di uscire dalla crisi del ’29?

“In economia esistono due grandi paradigmi, più un terzo. Quest’ultimo, quello marxista, è stato abbandonato dopo la fine del sistema sovietico. Nemmeno la Cina lo vuole più. Gli altri due sono l’economia politica e l’economia civile. Il primo risale ad Adam Smith …”

… un po’ vecchiotto.

“Non vada di fretta, sennò sbaglia un’altra volta. Adam Smith è della fine del Settecento. Ma sappia che il modello dell’economia civile di mercato, che è tutto italiano, risale al 1753. In quell’anno l’Università Federico II di Napoli istituì prima al mondo – ripeto: prima al mondo – una cattedra di economia civile. Era la Napoli di Antonio Genovesi”.

E di Giovan Battista Vico. Siamo alla vigilia della Rivoluzione Francese.

“Poi ci arriviamo. Per il momento consideri solo che il modello dell’economia politica è divenuto egemone per via della prima Rivoluzione Industriale. Ora, tra l’economia politica e quella civile ci sono molti contatti, se non sovrapposizioni. Entrambi infatti sono per l’economia di mercato. Keynes rientra perfettamente nella prima, è inglese. Ma è una persona estremamente colta e intelligente, e capisce le aporie del mercato. Non conosce l’economia civile, sviluppatasi in un ambiente cattolico mentre lui è protestante, ma capisce che il mercato deve essere corretto e regolato. È uscito in questi giorni un libro, la riedizione degli scritti di Keynes a cura di Giorgio La Malfa: un libro importante e utile che ribadisce questo aspetto. Non dimentichiamoci, però, che il modello proposto da Keynes da solo oggi non è più in grado di affrontare le nuove sfide”.

Lei stesso, Professore, ha detto che comunque diversi punti di contatto ci sono.

“Anche casi in cui le due scuole si sovrappongono. Ma tenga in considerazione che fra noi e la crisi del ’29 ci sono la globalizzazione e la quarta Rivoluzione Industriale, quella dell’economia immateriale. Poi c’è un’altra differenza: l’economia politica si basa sull’assunto antropologico dell’homo oeconomicus e sulla metafora della mano invisibile del mercato che alla fine tutto riequilibra. L’economia civile parte invece dall’assunto antropologico dell’homo reciprocans e si appoggia sul principio di reciprocità oltre che su quello dello scambio”.

Chiaro, ma così siamo solo sul livello dei principi astratti.

“In concreto questo vuol dire che per l’economia classica l’importante è la massimizzazione del bene totale, del Pil. Per l’economia civile invece il fine è la realizzazione del bene comune. La prima considera l’economia un’attività che nulla ha a che vedere con l’etica e la politica, la seconda esige che tra le tre sfere ci sia un dialogo continuo.”

Per Keynes l’economia non era solo una questione di numeri.

“Appunto: l’economista non è un tecnico, e l’economia è una scienza morale. Eppure si sentono dire delle cose terribili, come sulla Tav. Tipo: l’analisi costi-benefici è una procedura di analisi neutrale. Ma come si può? Aggiungo che il paradigma dell’economia politica è insufficiente su un altro punto. Il modello di ordine sociale che privilegia si basa su due pilastri, lo Stato e il mercato. L’economia civile, invece, pensa a tre pilastri: Stato, mercato e comunità. In Keynes il mercato è governato dallo Stato, il che non basta. Ormai lo Stato non è più in grado di controllare un mercato divenuto globale”.

Ma se lo Stato è insufficiente, a chi ci si affida?

“Alla comunità, alla società civile organizzata che si regolamenta e reinventa la politica. Nel suo ambito la persona agisce e vede riconosciuta la sua capacità propositiva”.

Bene, sembra che lei abbia in mente qualcosa come il Terzo Settore

“Il punto non è quello di tutelare il Terzo Settore, ma di riconoscergli la sua specificità. La riforma del 2017 va in effetti in questa direzione, passando dal regime concessorio a quello del riconoscimento. Il Terzo Settore è il luogo della reciprocità. Il mercato è il luogo dello scambio e lo Stato il luogo del comando. La reciprocità, invece, è la traduzione nella pratica del principio di Fraternità”.

Ecco che c’entrava la Rivoluzione Francese …

“Mica solo quella. La Fraternità – la cui prima formulazione esplicita risale al francescanesimo –  è qualcosa di più profondo della solidarietà, concetto con il quale viene spesso confusa. Da parte loro i cattolici, nel loro complesso, sono per natura di cose portatori di una impostazione che va verso l’economia civile”. 

Quindi?

“Quindi non si può fare a meno del loro ruolo politico, del loro apporto. Il problema piuttosto è quello della forma di questo apporto. L’idea di un partito cattolico com’era la Dc è superata. Ma dire che dovrebbero disperdersi a mo’ di lievito nelle altre formazioni politiche è non capire i termini della questione. È la regola democratica: se in un partito rappresenti il 3 o il 5 percento sei irrilevante. Questo è il frutto, inevitabile, del frazionamento. Si deve creare non tanto una rete, che è piuttosto il metodo da seguire, quanto una convergenza su un progetto ben definito. Non in nome della fede, ma di un progetto che sia accettabile da parte di tutti, laici e non laici, di trasformazione della società. Bisogna trasformare, non riformare. Le riforme sono per i tempi ordinari; questi sono tempi straordinari. Ce lo ricorda sempre Francesco”.

Agi

Ma Savona vuole davvero il ritorno alla Lira? Breve storia del “Piano B”

Con una lettera Paolo Savona ha provato il 27 maggio a fugare i dubbi sulla sua posizione anti europeista. In un testo affidato a Scenarieconomici.it, sito a cui spesso il professore ha affidato le proprie riflessioni su economia, finanza e innovazione, dice: "Le mie posizioni sono note. Voglio un' Europa diversa, più forte ma più equa". Savona ha parlato di “polemiche scomposte” auspicando inoltre l'attribuzione "al Parlamento europeo di poteri legislativi sulle materie che non possono essere governate con pari efficacia a livello nazionale". Propone di "creare una scuola europea di ogni ordine e grado per pervenire a una cultura comune che consenta l'affermarsi di consenso alla nascita di un'unione politica". 

Parole però che non hanno tranquillizzato fino in fondo. Non sul tema più caldo, quello su cui molti si aspettavano qualche riga. Nella lettera infatti non si fa riferimento diretto all’euro, né alle sorti dell'Italia dentro o fuori la moneta unica. Savona è in questi giorni indicato da molti come l’ideatore di un piano B per risolvere la crisi dell’eurozona. Il primo, il piano A, prevedeva una riforma dell’area euro ma una sostanziale sopravvivenza della moneta unica. Il secondo, quello B appunto, una rottura ordinata dell’euro e un ritorno alla sovranità monetaria nazionale, alla libertà di creare moneta, di svalutare per favorire le esportazioni, in sintesi un ritorno ad una moneta nazionale come fu la Lira.

 

Ma Savona preferisce davvero la rottura dell'Euro?

In realtà Savona non sarebbe l’ideatore di questo piano di uscita ordinata dell’Italia dall’Euro, anche se ne parlò in alcune occasioni, come una puntata de L’infedele di Gad Lerner del 2012 che sta circolando molto sui social in queste ore. Savona, al minuto 8 di questo video ancora disponibile su Youtube, spiega alle telecamere che un piano per l'uscita ordinata dall'Euro e un ritorno ad una moneta nazionale, come era la Lira, era qualcosa che già l'ex ministro dell'economia Giulio Tremonti aveva preparato, dicendosi sicuro che anche Bankitalia, "conoscendola bene" aveva pronto un piano alternativo all'Euro in caso di emergenza: il famoso Piano B, che però non dice mai di preferire ad una riforma dell'Euro stando dentro l'Euro. 

In articolo sempre su Scenarieconomici.it pubblicato il 27 maggio si ricostruisce la storia del Piano B e della sua relazione con Savona, che oggi si dà per scontata: emerge che nel 2015, durante una conferenza alla Link University di Roma intitolata proprio “Un piano B per l’Italia, Paolo Savona fece solo l’introduzione alla discussione, dove però si concentrò solo sul piano A, quello che spesso ha detto di preferire, ovvero una serie di misure necessarie  “per rendere l’Euro una moneta veramente comune ed unitaria europea”.

Mentre in realtà il Piano B sarebbe stato il frutto del lavoro di un team di economisti non concepito come “una strada da percorrere, ma come un piano di emergenza a fronte di eventi monetari improvvisi e di rottura”. Una sorta di “Lancia di salvataggio” o di “Uscita d’emergenza” economica, spiega l’articolo che ricorda l’evento, “che viene progettata non per un suo normale utilizzo, ma per far fronte ad eventi imprevedibili ed indesiderati che, comunque, potrebbero accadere non per nostra volontà”.

 

@arcangeloroc

Agi News

Ancora guai per il Milan, ora Li Yonghong vuole fare causa a Fininvest

Li Yonghong passa al contrattacco. A poche ore dal “no” dell’Uefa al settlement agreement, il patron del Milan ha chiesto agli avvocati di Gianni Origoni Grippo Cappelli &Partners di studiare un’azione legale con Finivest. Lo rivela Milano Finanza.

Leggi anche: Cosa sta succedendo esattamente al Milan

Nyon, dopo aver negato il voluntary agreement, ha bocciato anche il patteggiamento delle sanzioni relative alla violazione del Fair Play Finanziario per il periodo 2015-2017. Una decisione che rischia di incidere negativamente sul futuro del club rossonero: i giudici dell’Uefa, che si esprimeranno a metà giugno, hanno un ampio ventaglio di sanzioni da cui scegliere per punire il Milan: la più severa sarebbe l’esclusione dall’Europa League.

A pesare sulla bocciatura, le incertezze sul rifinanziamento del debito di 303 milioni contratto con il fondo americano Elliott. In sostanza: i dubbi sulla solidità finanziaria dell’imprenditore oggetto di numerose inchieste giornalistiche e di una inchiesta aperta dalla procura di Milano.

È così che Rossoneri Sport Investment del misterioso imprenditore cinese, ha incaricato lo studio legale di Milano di avviare “una valutazione dei profili di tutela del proprio investimento (740 milioni) nel Milan in caso di soccombenza nei confronti dell’Uefa”, scrive Milano Finanza. Allo studio le clausole del contratto firmato il 13 aprile dell’anno scorso con Fininvest.

“All’attenzione dei legali di Gop ci sono le garanzie che, secondo una prima interpretazione di parte, sarebbero state inserite nell’accordo relativo alla compravendita”. Nel ragionamento cinese, solo il bilancio del 2017 è opera della nuova gestione, mentre gli altri documenti finanziari, finiti nel mirino dei tecnici di Nyon, arrivano dalla precedente gestione targata Adriano Galliani.

Nessun commento trapela per il momento da Fininvest. Nel frattempo, scrive Repubblica, è stato convocato per venerdì 25 maggio un delicatissimo cda a Casa Milan: Li dovrà versare altri 10 milioni di euro per il previsto aumento di capitale. Se i soldi non arrivano, Elliott potrebbe subentrare in anticipo nella gestione societaria. 

Agi News

Così Bruxelles vuole imporre più trasparenza alle piattaforme online

Il digitale è un canale di vendita, spesso, irrinunciabile. Tante aziende però sono obbligate a passare da alcuni “imbuti”, che si chiamano Amazon, Google, Expedia. Intermediari che danno più o meno visibilità a un articolo, un'azienda, un hotel.

Con quali criteri? Vuole capirlo meglio l'Unione europea, che ha presentato una proposta di legge rivolta alla gestione dei rapporti tra grandi piattaforme e aziende. Obiettivo: “Garantire un contesto imprenditoriale equo, prevedibile, sostenibile e affidabile nell'economia online”.

La parola chiave è “trasparenza”. Nei termini di utilizzo dei servizi, la loro gestione dei dati, le politiche di prezzo adottate, i motivi che portano all'esclusione o alla maggiore visibilità di un'impresa. Le regole si rivolgono quindi a qualsiasi piattaforma che, in base alle esigenze degli utenti, restituisce una gerarchia di offerte. Come fanno app store, motori di ricerca, siti di e-commerce e servizi di prenotazione di hotel.

“Contro l'abuso di potere”

“Piattaforme e motori di ricerca – ha spiegato la commissaria all'Economia digitale Mariya Gabriel – sono canali importanti per far sì che le imprese europee raggiungano i propri clienti. Dobbiamo essere certi che non abusino del loro potere. Stiamo facendo un passo importante – ha continuato – per introdurre regole chiare sulla trasparenza, un meccanismo efficiente per la risoluzione delle controversie”. La proposta include anche “l'avvio di un osservatorio per analizzare le pratiche delle piattaforme online in modo più dettagliato”. Si tratta, appunto, di “un passo”. Che porterà al Parlamento europeo e poi all'approvazione dei singoli Stati. Non si tratta quindi, ancora, di una legge, ma di una proposta. Ecco quello che prevede.

Aumento della trasparenza

Le piattaforme online devono garantire che le condizioni applicate siano facilmente “comprensibili e disponibili”. Devono essere indicati “in anticipo” (cioè nei termini di servizio sottoscritti quando si accede al servizio) i motivi per cui un'impresa può essere eliminata o sospesa dalla piattaforma. In questi casi, sarà comunque obbligatorio dare un preavviso per consentire alle aziende di attuare modifiche per adeguarsi.

La gestione dei dati

Le piattaforme devono formulare e pubblicare “politiche generali” che riguardano: i dati generati dai loro servizi cui è possibile accedere, chi può accedervi e a quali condizioni; il trattamento dei dati; il modo in cui utilizzano le clausole contrattuali per richiedere la gamma più favorevole o il prezzo più conveniente dei prodotti e dei servizi offerti. Gli intermediari online e i motori di ricerca dovranno “stabilire i criteri generali che determinano l'ordine in cui i beni e i servizi sono classificati”. L'Unione europea vuole quindi mettere un occhio negli algoritmi che rispondono alle domande degli utenti.

Risoluzione delle controversie

Quando aziende piattaforme arrivano allo scontro, le nuove regole puntano a un percorso che faciliti la risoluzione delle controversie. Gli intermediari devono dotarsi di un sistema interno di trattamento dei reclami. Per non favorire un punto d'incontro senza arrivare in tribunale, le piattaforme online dovranno “elencare nelle loro condizioni i nominativi dei mediatori indipendenti e qualificati con cui intendono cooperare in buona fede per la risoluzione delle controversie”. Per riequilibrare la bilancia delle forze in campo, l'Ue offrirà alle aziende uno strumento in più: “Alle associazioni che rappresentano le imprese sarà riconosciuto il diritto di agire in giudizio per conto delle imprese per ottenere l'applicazione delle nuove norme”.

L'osservatorio europeo

L'Ue battezza un osservatorio per capire se le nuove norme (quando approvate e applicate) funzionano. “Monitorerà problematiche e opportunità attuali e future nell'economia digitale” per consentire alla Commissione di sviluppare nuovi punti o correggere rotta. In base ai risultati fotografati dall'osservatorio, “la Commissione valuterà la necessità di ulteriori misure entro tre anni”.

Agi News

Trump lo vuole disdire ma Cop21 ci ha già cambiato la vita

Nessuno potrà dire "non mi riguarda". Una decisione degli Usa sulla partecipazione al Cop 21 avrà riflessi fino nel più remoto villaggio africano. L'annuncio di Trump su Cop21 è atteso per le 15 ora americana, l'intesa di Parigi di fine 2015 è già in vigore nei Paesi europei e ha già inciso su importanti scelte economiche. La Cina sta creando 13 milioni di posti di lavoro nel settore delle energie rinnovabili. Le grandi aziende energetiche hanno preparato e sviluppato piani di ricerca e sviluppo in questa direzione. La Green Economy è già una realtà tangibile anche per molte famiglie, a cominciare da quelle che hanno adeguato le proprie abitazioni.

L'esperto: un no cambierebbe lo scenario politico

  • L’Accordo di Parigi (o Cop21), oltre a spostare il monitoraggio sulle emissioni di gas serra al 2020, "creava la premessa del Club del 55%: ovvero i Paesi, ricchi, che emettono il 55% dei gas serra prodotti sul pianeta, diventano donatori di 180 miliardi di dollari da destinare ai Paesi più poveri perché aggiornino le proprie industrie e riducano le emissioni. Gli Usa da soli – spiega il professor Carlo Bollino – producono qualcosa come il 20% delle emissioni. Più o meno altrettante ne produce la Cina. Senza gli Stati Uniti nell'accordo cambia completamente la prospettiva del Club del 55%. Per rimpiazzare una nazione che da sola ‘vale’ il 20%, devo trovare altri 20 Paesi che producono l’1% a testa. Si ridisegna la mappa e si sposta la leadership politica, con la Cina che diventa il membro più importante del Club”.
  • La componente costi

Un altro effetto, è l’aumento dei costi marginali. “Se si sfilano gli Usa, viene a mancare una componente importante sul piano tecnologico. In questo caso, non è che aumentino del 20% i costi sostenuti dagli altri Paesi: l’incremento si aggirerebbe sul 35%. Perché diventano necessari maggiori investimenti in tecnologia”.

  • Alla ricerca di un vantaggio

Il terzo aspetto è quello che probabilmente costituisce il ‘movente’ di Trump: “Se non deve più preoccuparsi di contenere le emissioni, l’industria Usa  ha costi di produzione ridotti. Insomma, un tentativo di ridare competitività nell’ottica di “America First”, in casa mia comando io e mi faccio le mie regole”.

  •  Il 'rischio emulazione'

C’è infine l’aspetto politico: “Se non ci credono gli Usa, può darsi che qualcun altro si sfili. Se le rinnovabili diventano meno interessanti, anche altri Paesi possono decidere di lasciare”.

Effetti sull’Italia

Non sono facilmente quantificabili nell’immediato. Il nostro Paese ha ratificato l'accordo: lo ha firmato nell'aprile 2016 all'Onu. In ottobre Camera e Senato hanno approvato la legge di ratifica e l'11 dicembre 2016 è entrato definitivamente in vigore.

I riflessi sull'economia

L'applicazione dell'accordo Cop21 del 2015 ha comportato il rinnovo degli sconti fiscali (65%) sugli interventi di ristrutturazione edilizia per l'efficienza energetica. Quindi, gli effetti concreti e positivi sulla economia reale sono stati, in estrema sintesi:

  • Riqualificazione del patrimonio edilizio
  • Diffusione del fotovoltaico per le abitazioni
  • Sviluppo delle fonti alternative
  • Ricerca, occupazione e indotto nel settore delle rinnovabili
  • Ecobonus, sconto fiscale pari al 65% dei costi delle ristrutturazioni per la riqualificazione energetica delle abitazioni private
  • Sconto fiscale del 65% per l'installazione di pannelli fotovoltaici
  • Sviluppo dell'alta velocità ferroviaria
  • Sviluppo della mobilità metropolitana su ferro
  • Fondi statali per l'efficienza energetica degli edifici scolastici
  • Fondi statali per aggiornare gli edifici pubblici
  • Attivazione di un protocollo di ricerca sulla produzione di biocarburanti per aerei

Il governo, Renzi prima e Gentiloni poi, riserva un allegato del Def all'applicazione dell'accordo e il ministero dell'Ambiente prepara ogni anno una relazione al Parlamento.

Leggi anche:

Una scheda sintetica sulla Stampa di Torino.

Le sette ipotesi dal Corriere della Sera.

Gli scenari tratteggiati da Repubblica.

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