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I videogiochi in Italia valgono 2,2 miliardi di euro

AGI – Il settore dei videogiochi in Italia vale 2 miliardi e 243 milioni di euro, in crescita del 2,9% rispetto al 2020. L’avanzamento non era scontato, visto il confronto con un’ annata – causa pandemia – da record. Sono i dati dell’IIDEA, l’Associazione che rappresenta l’industria dei videogiochi in Italia.

Software e hardware

Il segmento software si riconferma il più forte del mercato, con un valore di 1,8 miliardi di euro, ossia l’80% del totale. Rispetto al 2020 è rimasto sostanzialmente piatto, a causa – ha spiegato Juan Insausti Alonso De Celada, account manager Iberia & Italy di Sparkers – di un leggero calo nelle vendite. La flessione non è dovuta tanto alla disaffezione dei giocatori quanto alla mancanza di nuove uscite. “Da un lato gli editori sono in attesa di un maggior numero di console distribuite sul mercato, dall’altro si sono accumulati ritardi dovuti alla pandemia”.

A sorreggere il segmento sono stati i giochi per smartphone e tablet. Con una crescita dell’8,7%, le app valgono 762 milioni di euro, a un soffio dal valore combinato dei software per pc e console (771 milioni). Restano invece ancora una nicchia le piattaforme di streaming.

L’hardware, con 442 milioni di euro, costituisce il 20% del mercato. ma nel 2021 ha registrato una crescita a doppia cifra (+12,1%). Merito soprattutto dell’ultima generazione di console. Positivo anche l’andamento degli accessori (+3,3%). Lo scorso anno, ad esempio, i videogiocatori italiani hanno speso quasi 58 milioni in gamepad, poco meno di 20 per gadget audio, circa 12 per volanti e altrettanti per sedute e postazioni.

Meno giocatori, più tempo di gioco

Il numero dei videogiocatori è leggermente diminuito. Probabile che alcuni si siano avvicinati durante il lockdown a un mondo che hanno abbandonato poco dopo. I videogiocatori restano comunque 15,5 milioni, più di una persona su tre fra i 6 e i 64 anni.

Se la platea si è ristretta, è aumentato il suo coinvolgimento: ogni utente ha giocato, in media, per 8,7 ore a settimana, mezz’ora in più rispetto al 2020. Chi ha una console ci ha giocato in media per 8 ore (con un picco di 9 sulla Nintendo Switch). Più contenuto il tempo dedicato alle app (oltre 5 ore), che comunque supera quello speso davanti ai pc (quasi 4 ore e mezza).

I dispositivi mobili sono però i più utilizzati, con 9 milioni di videogiocatori italiani. Seguono pc e console domestiche, con 6,9 milioni di utenti. Resiste il segmento delle console portatili, utilizzate da 1,4 milioni di persone.

Donne e trentenni: dove crescere

Il 56% dei giocatori è composto da uomini e il 44% da donne. La differenza di genere resta pronunciata per quanto riguarda l’uso di console e pc (i maschi sfiorano il 60%). C’è invece molto più equilibrio nei giochi per smartphone e tablet, dove il 47% degli utenti è donna.

Il “fattore D” potrebbe non solo aumentare la platea ma anche cambiare la geografia dei titoli di maggior successo. Nelle console, infatti, i videogiochi più venduti sono tipicamente maschili: azione e sport, con Fifa 2022, Grand Theft Auto V e Fifa 21 in cima alle vendite.

Sulle app, per ragioni di utilizzo ma anche di pubblico, il quadro cambia. Il riequilibrio di genere è quindi uno degli spazi di crescita. L’altro riguarda l’età. C’è infatti una forte polarizzazione in due fasce: 15-24 e 45-64 anni si spartiscono – praticamente alla pari – quasi la metà dei videogiocatori italiani.

È l’ennesima conferma (se mai ce ne fosse bisogno) che i videogame non sono un passatempo per ragazzini ma, come afferma Marco Saletta, Presidente di IIDEA, “uno dei più interessanti e innovativi media di intrattenimento”. LA polarizzazione conferma anche, come sottolineato da Eduardo Mena, research director di Ipsos MORI, che c’è grande margine, soprattutto tra i 25 e i 44 anni.  


I videogiochi in Italia valgono 2,2 miliardi di euro

I titoli di Stato italiani (a breve) valgono o no meno di quelli greci?

Italia come la Grecia, uno spettro che in molti hanno agitato – o temuto – nei giorni apicali della crisi che ha portato alla nascita del governo Conte. Quando cioè si prevedeva quasi da ogni parte un riscorso alle elezioni anticipatissime di agosto, la Borsa cedeva e lo spread schizzava in su come il fiotto di una fontana appena inaugurata.

A dire il vero, anche dopo non tutti si sono tranquillizzati, soprattutto perché anche dopo la nascita del governo lo spread ha continuato a fluttuare su valori attorno, se non oltre, i 200 punti.

Perché la Grecia fa paura

L’accostamento della situazione italiana a quella greca evoca paure quasi ancestrali in tutti i settori della società, perché la crisi deflagrata ad Atene nel 2011 (ma in realtà aperta già nel 1009, con l’ammissione che qualcuno aveva truccato i conti per riuscire ad entrare nell’euro) ha avuto costi finanziari estremamente ingenti, e sociali spaventosi.

Il Paese solo ora sta uscendo dal tunnel, ma il miglioramento dei conti pubblici dopo tre duri piani di salvataggio messi a punto da Fmi e Ue non può nascondere che i costi sociali sono stati altissimi e non ancora superati.

Più deboli della Grecia?

Per questi motivi quando, sul Corriere della Sera, Federico Fubini lancia l’allarme in molti deglutiscono con difficoltà. “Almeno sulle scadenze a breve termine, i titoli di Stato greci hanno iniziato a offrire un rendimento più basso di quelli italiani”, rivela la prima firma del Corriere in materia economica, “Il premio richiesto dagli investitori per il rischio di comprare un Buono ordinario del Tesoro rimborsabile a marzo 2019 era più alto di quello di un governo espulso da anni dal mercato dei capitali come quello di Atene”. Più alto è il rendimento, più alta è la percentuale di rischio; quindi più alto il rendimento, minore è la fiducia dei mercati nel Paese che gli emette (in questo caso l’Italia).

In altre parole, mettiamo paura. Noi, non la Grecia.

C’è chi dice no

Rispondono piccati Claudio Borghi Aquilini e Alberto Bagnai. Il primo è il responsabile economico della Lega e ha insegnato per anni economia prima di abbracciare la politica, il secondo è docente universitario. Entrambi sono parlamentari del Carroccio, nonché molto scettici in materia di euro.

“Peccato non sia vero”, scrivono insieme al Corriere. “Basta aprire un qualsiasi sito di borsa per sincerarsi che né i Bot a 3 mesi né quelli a 6 hanno un prezzo di mercato inferiore a quello degli omologhi greci”.

La controrisposta

Fubini ribatte con lo stesso tono. Elenca numeri e cifre, nota che “il 29 maggio i Bot semestrali sono stati collocati al rendimento di 1,213 percento, mentre la stessa settimana i pari titoli greci allo 0,85 percento”. E prosegue: “Lo mostra un semplice grafico Bloomberg. Forse i due esponenti politici (Borghi Aquilini e Bagnai, ndr) dovrebbero mandare le precisazioni a quell’agenzia”. E aggiunge anche l’indirizzo di New York, prima di concludere: “Il crollo di valore dei titoli italiani dell’ultimo mese si spiega con il timore per le posizioni che i due propugnano: l’uscita dall’euro”.

Il problema è sempre quello

Insomma, se per Borghi e Bagnai il problema non esiste, per Fubini esiste eccome e consiste proprio nell’essere questo governo giallo-verde retto da un sostanziale credo euroscettico.

Ma proprio ieri lo spread è sceso (anche se a quota 236) e, soprattutto, la Borsa ha guadagnato più di tre punti. Con questo governo giallo-verde.

Ma la cosa, nota qualcuno, deve essere messa direttamente in relazione con un’intervista rilasciata sempre al Corriere della Sera da ministri dell’economia, Giovanni Tria. In cui il titolare di via XX Settembre dice due cosa. La prima: l’euro no si tocca. La seconda: massima attenzione ai conti pubblici. E alla fine Milano è la migliore d’Europa. I maligni potrebbero pensare che qualcun altro, al posto di Tria, non sarebbe riuscito allo stesso modo a rassicurare i mercati.

Agi News