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È la sfiducia reciproca a impedire un’intesa tra Cina e Usa sui dazi

La sfiducia reciproca tra Usa e Cina rende difficile il negoziato sui dazi, ma il raggiungimento di un’intesa sarebbe utile a entrambi i Paesi. Secondo gli analisti, il rallentamento dell’economia legato alla guerra commerciale tra i due colossi rischia di produrre danni pesanti.

E se Pechino rischia di deragliare, anche a Washington non manca chi comincia a preoccuparsi per una visione che negli “ultimi tre o quattro anni si è fatto sempre più ostile” nei confronti del Dragone, come fa notare sulle colonne del Wall Street Journal Stephen Hadley, che è stato consigliere per la Sicurezza nazionale di George W. Bush. È un dato di fatto che tra tutte le scelte politiche fatte da Donald Trump, proprio la guerra commerciale con la Cina sia stata quella che ha registrato meno contrasti.

E, anzi, è stata applaudita in modo quasi bipartisan. Le ragioni non mancano: Pechino, scrive il quotidiano statunitense, non si è dimostrato un partner affidabile per le imprese, ha accentuato il carattere bellicoso nei confronti dei Paesi vicini e ha continuato a reprimere il dissenso. Il rischio però è che il confronto stia scivolando verso un punto di rottura.

La questione, rileva sempre sul Wsj l’ex segretario al Tesoro, Henry Paulson, “è che abbiamo un atteggiamento verso la Cina ma non una politica nei confronti della Cina. La Sicurezza nazionale, l’Fbi, la Cia, il dipartimento della Difesa trattano la Cina come un nemico e i membri del Congresso competono tra loro per vedere chi si dimostra più ‘falco’. Nessuno naviga controvento, fornisce equilibrio. Tanto che c’è da chiedersi chi possa realisticamente fare qualcosa che abbia una qualche possibilità di ottenere risultati che non siano dannosi per la nostra economia e gli interessi della sicurezza nazionale nel lungo periodo”.

L’analisi prevalente nelle stanze del potere a Washington sembra ignorare che la storia della Cina è in direzione di una sempre maggiore integrazione internazionale e non il contrario. E che la Cina, afferma Susan Thornton, che ha avuto incarichi di alta responsabilità in Asia orientale per il dipartimento di Stato sotto le amministrazioni Obama e Trump, non è un monolite ma “un vasto Paese, molto complicato da governare e pieno di costanti spinte contrastanti all’interno del sistema”.

A spingere per un’intesa è anche l’andamento dell’economia. Gli effetti della guerra commerciale, sottolinea Alberto Conca, responsabile degli investimenti di Zest asset management, cominciano a farsi sentire “negativamente sia sui dati macroeconomici sia sulle aspettative”.

E Trump potrebbe finire per pagare questo rallentamento in termini elettorali. Che poi è quello che si augurano i suoi avversari. Come l’ex presidente della Federal Reserve di New York, William Dudley, che ha irritualmente esortato l’istituto centrale statunitense a non toccare i tassi d’interesse anche in caso di frenata del Pil per azzoppare la rielezione dell’attuale inquilino della Casa Bianca.

Ma a rischiare di rimanere scottata dallo scontro sui dazi è soprattutto la Cina. Secondo S&P il Pil di Pechino, dopo anni di boom a due cifre, crescerà in media del 4,6% nel prossimo decennio. Un risultato naturale e salutare per un’economia divenuta più matura, nota la società di rating, ma che la guerra commerciale in corso con gli Usa rischia di rendere difficile da gestire.

“Più la Cina si localizza”, afferma Shaun Roache, capo economista per l’area Asia-Pacifico dell’agenzia di classificazione, “più lentamente sembra destinata a crescere”. Pechino ha bisogno di aumentare la sua produttività e per farlo non può prescindere dalla tecnologia straniera.

Anche per questo Washington si sente in vantaggio nella guerra commerciale in corso. “Il messaggio alla Cina”, conclude Hadley, “dovrebbe essere: fissiamo le regole di ingaggio. Ma non commettete errori. Se non riuscissimo a far funzionare le cose e precipitassimo in un combattimento a mani nude, saremo pronti e vinceremo”. 

Agi

Perché la strada per un’intesa sulla web tax in Europa resta tutta in salita

Il vertice europeo sull'innovazione e il digitale di Tallin si avvicina e le grandi aziende del web attendono di vedere quale decisione verrà presa sul loro regime fiscale. Dall’incontro dei ventotto che si terra il prossimo 29 settembre infatti dovrebbe uscire una parola definitiva sulla realizzazione di una web tax volta a erodere i guadagni faraonici delle digital ventures che, grazie a stratagemmi fiscali legati alla natura aleatoria della loro merce – i dati – riescono a eludere le tassazioni dei Paesi europei, che sono stanchi di rimanere a bocca asciutta.

Nella sua relazione la Commissione Europea mette nero su bianco che “la digitalizzazione dell’economia cancella la differenza tra beni e servizi, rivoluzionando completamente i modelli di business”. Riassumendo, a essere messo in discussione è il principio della tassazione legata al luogo fisico della società, come spiega il Sole 24 Ore.

Appuntamento per l'Ecofin di dicembre

L’Unione continua a chiedere una revisione completa delle regole fiscali a livello mondiale per adattarsi alle nuove realtà, ma come spiega Il vice presidente della Commissione europea Valdis Dombrovskis: “In assenza di progressi appropriati a livello mondiale, l’Unione dovrebbe mettere a punto le proprie soluzioni per tassare i profitti delle imprese nell’economia digitale”. L’obiettivo della Commissione è di avere una linea comune per la riunione dell’Ecofin che si terrà a dicembre, così da portarla compatti davanti all’Ocse.

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Una proposta a lungo termine per la Commissione Europea sarebbe quella di estendere alle aziende digitali la base imponibile unica (Ccctb), inizialmente proposta per le società che hanno sedi in più Paesi, spiega Repubblica. Ma una proposta di questo tipo richiederebbe troppo tempo, per questa ragione vengono valutate delle soluzioni temporanee e di più veloce applicazione. Tra queste una tassa sul fatturato da applicare nel paese in cui viene registrato il profitto, la ritenuta alla fonte sulle transazioni digitali e una imposta da applicare ai servizi offerti e alle pubblicità.

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Sarà difficile trovare un accordo in Europa

Ma trovare un accordo tra i ventotto sarà difficile, soprattutto visto che, in materia fiscale vige il principio dell’unanimità. Paesi come l’Irlanda per esempio, che da sempre hanno favorito le multinazionali digitali applicando aliquote preferenziali pur di essere eletti a sede europea dei loro commerci, sono contrari all’applicazione a livello comunitario di norme che per loro sarebbero dannose. “Ogni misura di tassazione digitale”, osserva il Business Europe citato dal Sole 24 Ore, “deve essere sviluppata in modo da proteggere la competitività delle imprese europee e garantire parità di condizioni sul piano globale”.

Per approfondire, leggi anche sulla Stampa: L'Europa tra la web tax e il rischio di una guerra commerciale con gli Stati Uniti

Padoan: "in gioco c'è l'efficienza economica e la sovranità fiscale"

Scrive Repubblica: "L'Europa si ritrova divisa di fronte a una questione fiscale, come già accaduto in passato (basti pensare alla tassa sulle transazioni finanziarie). La proposta di una "Web tax", una forma di imposizione che metta fine alle scappatoie legalmente possibili dei giganti di Internet dagli impegni col Fisco dei Paesi in cui operano, era uno degli argomenti caldi sul tavolo dell'Ecofin di Tallinn e alla fine dieci ministri hanno firmato la proposta, inizialmente lanciata da Francia, Italia, Germania e Spagna, perchè la "web tax" allo studio a livello di Ue e anche di Ocse preveda che i giganti di internet siano tassati sulla base del fatturato anzichè dei profitti. I paesi che hanno sottoscritto l'iniziativa oltre ai quattro iniziali sono Austria, Bulgaria, Grecia, Portogallo, Slovenia, Romania. "Non possiamo accettare più a lungo che queste società facciano business in Europa pagando tasse minime ai nostri Tesori – si legge nella dichiarazione politica firmata dai 10 ministri – In gioco c'è l'efficienza economica, così come l'equità e la sovranità fiscale". Il ministro italiano Pier Carlo Padoan ha spiegato a fine riunione che "parecchi hanno detto di condividere lo spirito" della tassazione ed è "importante che la presidenza estone abbia confermato l'idea di produrre risultati entro fine mandato, cioè entro pochi mesi".

 

 

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