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Natale di magra, la spesa per i regali scenderà del 18% a 7,3 miliardi

Natale di magra per gli italiani che quest’anno spenderanno 7,3 miliardi di euro per i regali, il 18% in meno rispetto ai 9 miliardi del 2019. La stima è della Confcommercio, secondo cui almeno un quarto degli italiani non acquisterà nulla, anche perché le occasioni vedersi con amici e parenti saranno limitate, rendendo impossibile lo scambio dei tradizionali pacchetti. La spesa media pro capite sarà di 164 euro, in leggero calo rispetto ai 169 euro del 2019, ma l’aumento delle spese inferiori ai 300 euro (dal 91,6% al 94,2%) e la riduzione di quelle superiori ai 300 euro (-31%), di fatto, riducono il valore degli acquisti.

Tra chi farà i regali (il 74,2% dei consumatori), generi alimentari (68%) e giocattoli (51,2%), seppure in flessione rispetto allo scorso anno, si confermano come la tipologia più gettonata, ma a registrare la maggiore crescita rispetto al 2019 sono gli abbonamenti a piattaforme streaming (+10,5%) e i buoni regalo digitali (+7,2%). Pesante calo, invece, per l’acquisto di biglietti per spettacoli e concerti (-26%) e per i trattamenti di bellezza (-25%) a causa delle restrizioni imposte dalla pandemia.  

A causa dell’incertezza conseguente al Covid perde inoltre appeal l’acquisto anticipato dei regali a fine novembre. A pensarci, sfruttando le occasioni offerte da Black Friday e Cyber Monday, è stato il 20% dei consumatori contro il 26% dell’anno scorso, mentre aumenta dal 51,3% al 61% la quota di chi preferisce aspettare la prima metà di dicembre. Soltanto il 17,3% della tredicesima sarà destinato ai regali, mentre la maggior parte (oltre il 67%) verrà utilizzata per spese per la casa, risparmio, tasse e bollette.

 “Sarà un Natale ‘gelido’ sul fronte dei consumi, con acquisti in discesa in tutti i settori. Il 28% degli italiani, il numero più elevato di sempre, non farà quest’anno alcun regalo per l’impossibilità ad incontrare amici e parenti o a causa delle difficoltà economiche attuali”, commenta il Codacons.

Secondo l’associazione dei consumatori, a ridursi sarà anche la spesa per gli addobbi della casa (-15%) e, per la prima volta, i consumi alimentari subiranno un tonfo (-10%, pari a circa -500 milioni di euro tra Natale e Capodanno) a causa delle limitazioni legate al Covid e del ridotto numero di persone nelle case durante pranzi e cenoni. La spesa degli italiani per il Natale passerà dai 386 euro a famiglia del 2019 ai circa 308 euro del 2020, con una contrazione media del 20%.

Ma a risentire della situazione attuale sarà anche la ristorazione: lo scorso anno 5,6 milioni di italiani optarono per il classico cenone della Vigilia al ristorante e 5 milioni circa per il pranzo del 25 dicembre. Quest’anno, sia per le restrizioni sul fronte dei cenoni, sia per la paura di contagi, la spesa per cene e pranzi fuori casa precipiterà del 65%, con una contrazione di circa 490 milioni di euro tra Natale e Capodanno. Drastico crollo anche per i viaggi di fine anno, eventi e spettacoli, con una spesa in picchiata del -85% sul 2019.


Natale di magra, la spesa per i regali scenderà del 18% a 7,3 miliardi

Nel 2020 la spesa delle famiglie è calata del 4% 

AGI – Nel 2019 la stima della spesa media mensile delle famiglie italiane è di 2.560 euro mensili in valori correnti, sostanzialmente invariata rispetto al 2018 (-0,4%) e sempre lontana dai livelli del 2011 (2.640 euro mensili), cui avevano fatto seguito due anni di forte contrazione non recuperata negli anni successivi. Lo rileva l’Istat in un report dedicato, sottolineando che le stime preliminari del primo trimestre 2020 “mostrano che le misure di contenimento della diffusione del Covid-19 hanno prodotto un calo di circa il 4% della spesa media mensile rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente”. In particolare, la marcata riduzione dell’offerta e della domanda commerciale al dettaglio ha determinato una flessione delle spese diverse da quelle per prodotti alimentari e per l’abitazione di oltre il 12% rispetto al primo trimestre 2019.

Il gap della spesa tra Nord e Sud è di 740 euro 

Nel 2019, anche se in lieve attenuazione, restano ampi i divari territoriali sul fronte delle spese per i consumi delle famiglie, rileva l’Istat, spiegando che nel Nord-ovest si spendono circa 740 euro in più (800 nel 2018) rispetto a Sud e Isole.

I livelli di spesa più elevati, e superiori alla media nazionale, continuano a registrarsi nel Nord-ovest (2.810 euro), nel Nord-est (2.790) e nel Centro (2.754 euro); più bassi, e inferiori alla media nazionale, nelle Isole (2.071 euro) e nel Sud (2.068 euro). Nel Sud e nelle Isole, dove le disponibilità economiche sono generalmente minori, a pesare di più sulla spesa delle famiglie sono le voci destinate al soddisfacimento dei bisogni primari quali, ad esempio, quelle per Alimentari e bevande analcoliche: rispetto alla media nazionale (18,1%), questa quota di spesa pesa il 23,3% nel Sud e il 21,4% nelle Isole mentre si ferma al 15,9% nel Nord-est. Nel Sud si registra tradizionalmente anche la quota di spesa più elevata per Bevande alcoliche e tabacchi rispetto al resto del Paese (mediamente pari, tra il 2014 e il 2019, al 2,2%, contro l’1,8% a livello nazionale); tuttavia, nel 2019 questa spesa scende nel Sud da 48 a 45 euro mensili (-6,8% rispetto al 2018), fondamentalmente a causa del calo della spesa per sigarette, che passa da 27 a 24 euro mensili, segnando dunque una contrazione del 9,8% rispetto all’anno precedente.

Le regioni più care

Le regioni con la spesa media mensile più elevata nel 2019 sono Trentino-Alto Adige (2.992 euro), Lombardia (2.965 euro) e Toscana (2.922); in particolare, nel Trentino-Alto Adige si registra, rispetto al resto del Paese, la quota di spesa più alta destinata a Servizi ricettivi e di ristorazione (6,8%; la media nazionale è 5,1%). Puglia e Calabria sono le regioni con la spesa più contenuta, rispettivamente 1.996 e 1.999 euro mensili, quasi mille euro in meno del Trentino-Alto Adige. In Puglia si osserva la quota più bassa destinata a Ricreazione, spettacoli e cultura (3,2%, contro una media nazionale del 5,0%) e in Calabria la quota più alta per Alimentari e bevande analcoliche (25,0%).

In città si spende di più

I livelli e la composizione della spesa variano a seconda della tipologia del comune di residenza. Anche nel 2019, nei comuni centro di area metropolitana le famiglie spendono di più: 2.909 euro mensili, +328 euro rispetto alle famiglie residenti nei comuni periferici delle aree metropolitane e in quelli con almeno 50mila abitanti (cioè il 12,7% in più, nel 2018 era l’8,6%) e +466 euro rispetto alle famiglie residenti nei comuni fino a 50mila abitanti che non appartengono alla cerchia periferica delle aree metropolitane (il 19,1% in più, nel 2018 era il 17,0%). Rispetto al 2018, i divari tra i comuni centro delle aree metropolitane e tutti gli altri comuni si sono dunque leggermente ampliati. Nei comuni centro di area metropolitana si registra anche nel 2019 la quota di spesa più bassa destinata ad Alimentari e bevande analcoliche (15,2%, contro il 19,2% dei comuni fino a 50mila abitanti che non appartengono alla cerchia periferica delle aree metropolitane); lo stesso vale per le quote di spesa destinate ad Abbigliamento e calzature (rispettivamente 3,7% e 4,8%) e Trasporti (9,3% contro 12,1%).

Al contrario, nei comuni centro di area metropolitana si registrano le quote più elevate di spesa per Abitazione, acqua, elettricità, gas e altri combustibili (40,5%, molto sopra il dato medio nazionale, contro il 32,9% dei comuni fino a 50mila abitanti che non appartengono alla cerchia periferica delle aree metropolitane) e per Servizi ricettivi e di ristorazione (rispettivamente 5,4% e 4,9%). Le quote di spesa destinate alle altre tipologie di beni e servizi non registrano, invece, particolari differenze al variare del tipo di comune di residenza. 

Agi

Nel 2017 la spesa delle famiglie italiane è aumentata più del loro reddito 

Gli italiani nel 2017 hanno speso più di quanto hanno guadagnato, invertendo la rotta e dimostrandosi meno 'formiche' del passato. La spesa delle famiglie è cresciuta più del reddito: è scesa la propensione al risparmio ed è aumentato il potere d'acquisto (+0,6%) seppure "in rallentamento rispetto alle tendenze registrate nel biennio precedente".

È il quadro di sostanziali luci tratteggiato dall'Istat per il 2017. Notizie positive anche sul fronte del debito pubblico. Bankitalia ha registrato a febbraio un lieve calo: è diminuito di 0,1 miliardi, risultando pari a 2.286,5 miliardi.

Nel 2017, ha rilevato l'Istat nei Conti economici nazionali per settore istituzionale, le famiglie hanno aumentato la spesa per consumi finali (+2,5% in termini nominali) in misura superiore rispetto all'incremento del reddito disponibile (+1,7%); di conseguenza, la propensione al risparmio delle famiglie scende al 7,8% (-0,7 punti percentuali rispetto al 2016).

Per effetto dell'aumento dell'1,2% del deflatore dei consumi privati, la crescita del reddito disponibile corrisponde a un incremento del potere di acquisto delle famiglie dello 0,6%.

Il prelievo fiscale dovuto alle imposte sulla produzione e a quelle correnti e in conto capitale ha inciso sul reddito disponibile delle famiglie per il 16,2%, su quello delle società non finanziarie per il 23,8% e su quello delle società finanziarie per il 18,6%.

Le società finanziarie hanno registrato un miglioramento dell'accreditamento di 14 miliardi di euro rispetto al 2016, mentre per le società non finanziarie e per le famiglie c'è stato un peggioramento pari a, rispettivamente, 3 e 4 miliardi di euro.

L'indebitamento delle amministrazioni pubbliche si è ridotto di 1,9 miliardi di euro, con un saldo pari a -39,7 miliardi di euro. Il tasso di profitto delle società non finanziarie nel 2017 è sceso al 41,7% (-0,7 punti percentuali rispetto al 2016) e il tasso di investimento cresce al 21,1% (+0,9 punti percentuali).

Le società finanziarie hanno registrato una riduzione del valore aggiunto ai prezzi base (-1,4%).

Bankitalia ha rivisto al rialzo il dato sul debito pubblico italiano del 2017. Rispetto ai dati diffusi lo scorso 15 marzo, ha spiegato nel fascicolo 'Finanza pubblica, fabbisogno e debitò, il dato relativo al debito del 2017 è stato rivisto al rialzo di circa 7 miliardi, "principalmente a seguito dell'advice dell'Eurostat in merito al trattamento statistico dell'operazione di liquidazione coatta amministrativa di Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca".

A febbraio infine sono aumentate le entrate tributarie: sono state pari a 29,4 miliardi, in aumento di 1,5 miliardi rispetto a quelle rilevate nello stesso mese del 2017.

Agi News

Gli italiani a rischio povertà ora sono 18 milioni: pesano tasse e tagli alla spesa sociale

Con tasse record una spesa sociale tra le più basse d'Europa, in Italia il rischio povertà o di esclusione sociale ha raggiunto livelli di guardia molto preoccupanti. È quanto emerge dall'analisi realizzata dall'Ufficio studi della Cgia, secondo la quale il rischio di povertà o di esclusione sociale tra il 2006 e il 2016 è aumentato in Italia di quasi 4 punti percentuali, raggiungendo il 30% della popolazione (Il Manifesto).

In buona sostanza le persone in difficoltà e deprivazione sono passate da 15 a 18,1 milioni. Il livello medio europeo è invece salito solo di un punto, attestandosi al 23,1%: 6,9 punti in meno rispetto alla nostra media. In Francia e in Germania, invece, in questi 10 anni il rischio povertà è addirittura diminuito e attualmente presentano un livello di oltre 10 punti in meno al dato medio Italia (Huffington Post).

La povertà nel Sud Italia: grave la situazione in Sicilia, Campania e Calabria

A livello regionale per quanto riguarda la povertà la situazione al Sud è pesantissima. Gli ultimi dati disponibili riferiti al 2016 ci segnalano che il rischio povertà o di esclusione sociale sul totale della popolazione ha raggiunto il 55,6% in Sicilia, il 49,9% in Campania e il 46,7% in Calabria.

Il dato medio nazionale, come dicevamo più sopra, ha raggiunto il 30% (4,1 punti percentuali in più tra il 2006 e il 2016). In questi ultimi anni di crisi, nota la Cgia, alla gran parte dei Paesi mediterranei sono state "imposte" una serie di misure economiche di austerità e di rigore volte a mettere in sicurezza i conti pubblici. In via generale questa operazione è stata perseguita attraverso uno "smisurato aumento delle tasse, una fortissima contrazione degli investimenti pubblici e un corrispondente taglio del welfare state" (Tgcom24).

"Risultato drammatico"

"Da un punto di vista sociale – commenta il coordinatore dell'Ufficio studi della CGIA Paolo Zabeo – il risultato ottenuto è stato drammatico: in Italia, ad esempio, la disoccupazione continua a rimanere sopra l'11 per cento, mentre prima delle crisi era al 6 per cento. Gli investimenti, inoltre, sono scesi di oltre 20 punti percentuali e il rischio povertà ed esclusione sociale ha toccato livelli allarmanti. In Sicilia, Campania e Calabria praticamente un cittadino su 2 si trova in una condizione di grave deprivazione. E nonostante i sacrifici richiesti alle famiglie e alle imprese, il nostro rapporto debito/Pil è aumentato di oltre 30 punti, attestandosi l'anno scorso al 131,6 per cento".

In questi ultimi anni la crisi ha colpito indistintamente tutti i ceti sociali, anche se le famiglie del cosiddetto popolo delle partite Iva ha registrato, statisticamente, i risultati più preoccupanti. Il ceto medio produttivo, insomma, ha pagato più degli altri gli effetti negativi della crisi e ancora oggi fatica ad agganciare la ripresa.

La mancanza di ammortizzatori sociali per le partite Iva

"A differenza dei lavoratori dipendenti – nota il Segretario della Cgia Renato Mason – quando un autonomo chiude l'attività non beneficia di alcun ammortizzatore sociale. Perso il lavoro ci si rimette in gioco e si va alla ricerca di una nuova occupazione. In questi ultimi anni, purtroppo, non è stato facile trovarne un altro: spesso l'età non più giovanissima e le difficoltà del momento hanno costituito una barriera invalicabile al reinserimento, spingendo queste persone verso impieghi completamente in nero".

Il peso delle tasse sul Pil italiano

Ritornando ai dati della ricerca, In Italia la pressione tributaria (vale a dire il peso solo di imposte, tasse e tributi sul Pil) si attesta al 29,6% nel 2016. Tra i nostri principali paesi competitori presenti in Ue nessun altro ha registrato una quota così elevata. La Francia, ad esempio, ha un carico del 29,1%, l'Austria del 27,4%, il Regno Unito del 27,2% i Paesi Bassi del 23,6%, la Germania del 23,4% e la Spagna del 22,1". Al netto della spesa pensionistica, il costo della spesa sociale sul Pil (disoccupazione, invalidità, casa, maternità, sanità, assistenza, etc.) si è attestata all'11,9 per cento.

Tra i principali paesi Ue presi in esame in questa analisi, solo la Spagna ha registrato una quota inferiore alla nostra (11,3% del Pil), anche se la pressione tributaria nel paese iberico è 7,5 punti inferiore alla nostra. Tutti gli altri, invece, presentano una spesa nettamente superiore alla nostra. In buona sostanza siamo i più tartassati d'Europa e con un welfare "striminzito" il disagio sociale e le difficoltà economiche sono aumentate a dismisura.

Agi News

Sacchetti biodegradabili per la spesa: 8 punti fermi 

Il primo gennaio del 2018 è entrato in vigore l’obbligo per gli italiani di usare esclusivamente sacchetti biodegradabili per pesare le merci sfuse nei supermercati, e questa mossa non è piaciuta molti. Alcuni accusano il governo di aver inventato una tassa nascosta a danno delle famiglie, altri di aver fatto un regalo ad aziende che producono buste di plastica e che sarebbero vicine al Pd. Per fare chiarezza, ecco alcune cose che è bene sapere:

1) Approvata ad agosto, la legge dispone il bando dei sacchetti di plastica leggeri e ultraleggeri utilizzati per imbustare frutta, verdura, carne, pesce e affettati, che sono così sostituiti da buste monouso biodegradabili e compostabili. Si tratta dei cosiddetti ‘sacchetti ortofrutta’ che usiamo per la pesatura delle merci nei supermercati.

2) Verdure sì, mozzarelle no. Come riporta il Sole 24 Ore, la norma si applica esclusivamente alle borse di plastica a parete sottilissima usate per fini di igiene. Questo esclude tutti gli altri tipi di sacchetto di plastica più spessa, come quelli in cui si mettono le mozzarelle o il pane, che possono essere omaggio e non devono essere biodegradabili.

3) Dal primo gennaio quindi “Le borse di plastica in materiale ultraleggero non possono essere distribuite a titolo gratuito e a tal fine il prezzo di vendita per singola unità deve risultare dallo scontrino o fattura d’acquisto delle merci o dei prodotti imballati”. L’obbligo nasce dall’esigenza di rendere il consumatore consapevole del costo e delle conseguenze nell’abuso degli imballaggi.

4) Secondo le prime rilevazioni compiute dall’Osservatorio di categoria, il prezzo dei sacchetti oscilla tra 1 e 3 centesimi di euro, e in Italia se ne consumano ogni anno tra i nove e i dieci miliardi. Se si considera che le famiglie italiane effettuano in media 139 spese l’anno (dall'analisi GFK-Eurisko presentati a Marca 2017), il costo complessivo per ciascuna famiglia sarà compreso tra i 4,17 euro e i 12,51 euro l’anno.

5) La legge, a differenza di quanto è stato detto, non è stata imposta dall’Europa. La direttiva comunitaria prescrive esclusivamente che le buste della spesa siano a pagamento. Più precisamente, la direttiva 2015/720 stabilisce che “Gli Stati membri possono scegliere di esonerare le borse di plastica con uno spessore inferiore a 15 micron (i sacchetti ortofrutta, ndr) fornite come imballaggio primario per prodotti alimentari sfusi”. Quindi l’Italia ha deciso autonomamente di imporre l’obbligo.

6) Portare le buste da casa è possibile, come ha spiegato Giuseppe Ruocco, segretario generale del Ministero della salute: “Non siamo contrari al fatto che il cittadino possa portare i sacchetti da casa, a patto che siano monouso e idonei per gli alimenti. Il riutilizzo dei sacchetti determinerebbe infatti il rischio di contaminazioni batteriche con situazioni problematiche”. Naturalmente spetta al titolare dell’esercizio commerciale “la facoltà di verificare l’idoneità dei sacchetti monouso introdotti”.

7) I negozianti non possono continuare a fornire sacchetti del vecchio tipo, utilizzando la scusa che “si devono finire le scorte”. Come ha spiegato a Eco delle Città Marco Versari, presidente di Assobioplastiche, “La questione delle scorte non esiste. Questa legge è stata notificata a Bruxelles a novembre dell’anno scorso. Ed è stata discussa in Parlamento nella primavera 2016. È un anno e mezzo che si conoscono perfettamente le tempistiche dell’entrata in vigore della legge”.

8) All’indomani dell’entrata in vigore della legge è diventata virale l’ipotesi secondo la quale la norma fosse stata creata per fare un regalino alla Novamont, azienda leader nella produzione del materiale utilizzato per la produzione dei sacchetti e ritenuta ‘in area’ Pd e vicina al segretario del partito Matteo Renzi. Al centro del fuoco di fila di alcuni quotidiani e di una ‘catena di Sant’Antonio’ girata sui social network, la figura dell’amministratore delegato di Novamont, Catia Bastioli, che sei anni fa è stata invitata a parlare alla Leopolda. In realtà la Novamont non produce sacchetti, ma solo la materia prima. L’intera filiera conta centocinquanta aziende, che sicuramente trarranno vantaggio dalla legge, ma non è una ragione sufficiente per parlare di ‘regalie’.

Un fact checking: “Ma alla fine, l'azienda Novamont produce sacchetti bio o no?”

Agi News

Statali: in 6 anni tagli alla spesa per 12,6 miliardi

In sei anni, dal 2009 al 2015, la spesa per i dipendenti statali si è ridotta di 12,6 miliardi di euro. Lo dice la Ragioneria generale dello Stato nel suo Annuario statistico. Negli ultimi 8 anni gli occupati sono diminuiti di 220.000 unità

Agi News