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Sono più di 400 mila gli italiani con una pensione oltre i tremila euro al mese

In Italia oltre 400 mila persone – 408.598, per la precisione – percepiscono una pensione di oltre 3.000 euro. È quanto si evince dall’ultimo dossier dell’Inps sul sistema previdenziale. Dalle tabelle, emerge che tra questi, oltre 2.000 persone possono disporre di un trattamento previdenziale di oltre 3.500 euro per invalidità e oltre 4.000 come superstiti. La quasi totalità, ossia 396.133, sono pensioni di vecchiaia.

Dal dossier dell’Inps, si evince che nel dettaglio 165.417 persone – ossia lo 0,9% delle 17.927.676 pensioni totali – può disporre di un trattamento tra i 3.000 e i 3.500 euro (158.990 per vecchiaia, 15.10 per invalidità e 4.917 come superstiti). Di questi, 26.872 sono donne e 138.545 uomini. Sono decisamente di più coloro che dispongono di una pensione di 3.500 euro e più: sono 243.181, circa l’1,4% del totale. Di questi, 22.264 sono donne (lo 0,2%) e 220.917 uomini, in pratica la quasi totalità.

In 237.143 percepiscono tale pensione per vecchiaia. Va considerato che nel Paese invece l’importo medio mensile di una pensione di vecchiaia è di 1.196,98 euro. Dalle tabelle emerge che la classe di pensionati più numerosa è quella tra i 500 e i 749 euro: il trattamento viene percepito da 6 milioni e 429.713 persone, di cui la maggior parte donne (4.724.025).

Agi

Sono le onde del mare la nuova frontiera delle energie rinnovabili

Eni, Cdp, Fincantieri e Terna insieme per lo sviluppo di impianti di produzione di energia da moto ondoso su scala industriale. L’amministratori delegato di Cassa depositi e prestiti Fabrizio Palermo, l’ad di Fincantieri Giuseppe Bono, quello di Terna Luigi Ferraris e l’amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi, hanno firmato, nella sede Eni all’Eur di Roma, un accordo non vincolante per lo sviluppo e la realizzazione su scala industriale di impianti di produzione di energia dalle onde del mare.

L’accordo ha lo scopo di unire le competenze di ciascuna società al fine di trasformare il progetto pilota Inertial Sea Wave Energy Converter (Iswec), l’innovativo sistema di produzione di energia dal moto ondoso installato da Eni nell’offshore di Ravenna e attualmente in produzione, in un progetto realizzabile su scala industriale e quindi di immediata applicazione e utilizzo.

Secondo i termini dell’accordo, Eni (che controlla Agi al 100%) metterà a disposizione del gruppo di lavoro congiunto i risultati dell’impianto pilota Iswec, sviluppato in sinergia con il Politecnico di Torino e lo spin-off Wave for Energy e fornirà il proprio know-how tecnologico, industriale e commerciale, oltre a rendere disponibili le opportunità logistiche e tecnologiche dei propri impianti offshore.

“L’accordo di oggi – ha commentato l’ad di Eni, Claudio Descalzi – rappresenta un importante passo in avanti verso la realizzazione su scala industriale di un nuovo sistema di produzione di energia rinnovabile dal moto ondoso. Questa intesa si inserisce nel nostro piano strategico di decarbonizzazione e nasce dal forte focus di Eni nella ricerca, sviluppo e applicazione di nuove tecnologie, finalizzate non solo a rendere più efficienti processi operativi convenzionali ma che ci spingono anche a creare nuovi segmenti di business nell’ambito energetico. La collaborazione con tre eccellenze italiane, quali Cdp, Terna e Fincantieri, consentirà di mettere a fattor comune le grandi competenze esistenti e di accelerare il processo di sviluppo e industrializzazione di questa tecnologia, con l’obiettivo di esplorare insieme possibili progetti su larga scala anche all’estero”. 

Cdp promuoverà il progetto con le pubbliche amministrazioni e le istituzioni coinvolte e, inoltre, metterà a disposizione le proprie competenze economico-finanziarie, anche al fine di valutare le più adeguate forme di supporto finanziario dell’iniziativa.  L’ad Fabrizio Palermo: “Il Piano Industriale di Cdp è fortemente orientato allo sviluppo sostenibile, in linea con i grandi trend globali e gli Obiettivi di Sviluppo sostenibile definiti dall’Agenda 2030 dell’Onu. Il progetto, quindi, è coerente con la nostra strategia e, insieme a partner come Eni, Fincantieri e Terna, potremo contribuire in modo concreto allo sviluppo di una tecnologia italiana innovativa e alla diffusione delle fonti di generazione rinnovabile, a beneficio del Paese e della collettività”. 

Fincantieri offrirà da parte sua le competenze industriali e tecniche tipiche delle realizzazioni navali per l’ottimizzazione delle fasi di progettazione esecutiva, costruzione e installazione delle unità di produzione. Ha spiegato l’ad Giuseppe Bono: “Siamo onorati di partecipare a un progetto di questa portata con partner come Eni, Terna e Cdp. Fincantieri è costantemente impegnata nel miglioramento dei sistemi navali che garantiscono il massimo rispetto dell’ambiente e questo accordo, che porterà all’industrializzazione di una soluzione per generare energia pulita dalla stessa forza del mare, ci appassiona e ci rende fiduciosi per la capacità tutta italiana di guardare al futuro”.      

Terna contribuirà invece a sviluppare gli studi relativi alle migliori modalità di connessione e integrazione del sistema di produzione di energia con la rete elettrica, ivi inclusa l’integrazione con i sistemi ibridi composti da generazione convenzionale, impianti di produzione fotovoltaici e sistemi di stoccaggio. “Con questo accordo quadro – spiega l’amministratore delegato di Terna, Luigi Ferraris – Terna investe nell’innovazione sostenibile al servizio della transizione energetica, nella forte convinzione che le competenze distintive del gruppo possano contribuire all’abilitazione di nuove fonti rinnovabili in grado di rendere il sistema elettrico sempre più efficiente e sostenibile”. 

In una prima fase, l’accordo prevede l’ingegnerizzazione della costruzione, installazione e manutenzione dell’Iswec. Questa fase porterà alla progettazione e alla realizzazione entro il 2020 di una prima installazione industriale collegata a un sito di produzione offshore Eni. Parallelamente, si valuterà l’estensione della tecnologia su ulteriori siti in Italia, in particolare in prossimità delle isole minori, con la realizzazione di impianti di taglia industriale per fornitura di energia elettrica completamente rinnovabile.

Le caratteristiche innovative del sistema Iswec possono consentire di superare i vincoli che hanno fin qui limitato un diffuso sfruttamento delle tecnologie di conversione dell’energia del moto ondoso.

Gli impianti di generazione di energia da moto ondoso potranno fornire un contributo rilevante non solo ai processi di decarbonizzazione in ambito offshore ma anche e più in generale a supporto della sostenibilità dei sistemi di produzione di energia elettrica e della diversificazione delle fonti rinnovabili.  L’intesa potrà essere oggetto di successivi accordi vincolanti che le parti definiranno nel rispetto della normativa applicabile ivi inclusa quella in materia di operazioni tra parti correlate. 

Agi

Chi sono e cosa fanno le 10 imprenditrici italiane più cercate online

Sono stiliste, cuoche, influencer, fisiche e regine del rap. Sono tutte italiane, hanno fatto una fortuna con la loro professione e sono ricercatissime sul web. Chiara Ferragni è la regina indiscussa ma è in buona compagnia con Miuccia Prada, Sonia Peronaci ed Emma Marcegaglia, solo per citarne alcune.

Nella giornata in cui si celebra la donna SEMrush, una piattaforma SaaS per la gestione della visibilità online, rivela chi sono le 10 imprenditrici italiane più cercate on line a livello nazionale.

Chiara Ferragni

La più conosciuta imprenditrice digitale italiana è una delle donne più potenti del web di oggi. Chiara Ferragni senza dubbio occupa il primo posto della classifica. E’ nota soprattutto per la sua attività di blogger e influencer nel mondo della moda. Nata a Cremona il 7 maggio del 1987, frequenta il Liceo Classico Daniele Manin di Cremona e studia giurisprudenza all’università Bocconi, senza però terminare gli studi. Nel 2009 crea il blog The Blonde Salad, è il primo passo verso la notorietà. Grazie all’uso che fa dei social si afferma sempre di più come fashion blogger,  un’attività che si rivelerà molto proficua: nel 2014 fattura 8 milioni di dollari e nel 2015 più di 10. Nello stesso anno diventa oggetto di un caso di studio della Harvard Business School. Nel 2017 viene nominata dalla rivista Forbes “l’influencer di moda più importante al mondo”. Intanto fonda il suo brand “Chiara Ferragni” con cui amplia il suo impero.

Sofia Viscardi

Scrittrice e blogger, è una delle youtuber più seguite in Italia. Nata a Milano l’11 maggio 1998, Sofia frequenta ancora il liceo quando nel 2014 quando diventa famosa su YouTube grazie al suo canale, dove fa vlog (fusione delle parole inglesi video-blog) che raccontano la sua vita, i suoi problemi, il suo modo di vestirsi ed altro ancora. Oggi ha ben 750 mila iscritti al suo canale. Nel 2016 pubblica il suo primo libro “Succede”, che vende oltre 100 mila copie. Dal romanzo è tratto l’omonimo film del 2018. Nello stesso anno pubblica il suo secondo romanzo: “Abbastanza”.

Elisa Maino

Tra i giovani imprenditori italiani è la più piccola (ha 16 anni), ma vanta già 2 milioni di follower. Classe 2003, è arrivata al successo grazie a Musical.ly, un’applicazione che consiste nel cantare in playback le canzoni del momento. I video durano da 15 ai 60 secondi, tanto le basta per farsi conoscere: in meno di 2 anni diventa youtuber di successo e una delle prime 5 web star italiane. Elisa frequenta il Liceo Classico e ama il greco, ma il suo sogno diventare una conduttrice televisiva o partecipare ai suoi programmi preferiti: X Factor e Amici. Oppure, diventare medico.

Sonia Peronaci

Cuoca, blogger e scrittrice italiana conosciuta come la fondatrice del sito più “gustoso” in Italia: “Giallo Zafferano” che oggi vanta 65,4 milioni di traffico mensile, ed è conosciuto in tutto il mondo. Nata a Milano nel 1967 da padre calabrese di Catanzaro e madre di origine altoatesina, Sonia Peronaci inizia a cucinare nel ristorante del padre a 6 anni. Dopo aver lavorato in pub, villaggi turistici e come commercialista, apre con il marito il sito di cucina Giallo Zafferano.  Nel 2011 pubblica per Mondadori il libro “Le mie migliori ricette”, e nel 2012 pubblica per lo stesso editore un secondo libro, dal titolo “Divertiti cucinando”. Nel 2015 interrompe la collaborazione con Giallo Zafferano e lancia il suo nuovo sito.

Miuccia Prada

Non ha bisogno di presentazioni Miuccia Prada, una delle donne più ricche dell’Italia degli ultimi anni e senza dubbio una delle più conosciute a livello mondiale. Nipote di Mario Prada, insieme al marito, Patrizio Bertelli, ha guidato e trasformato Prada in una delle più blasonate case di moda del mercato internazionale. Nel 2018 è stata inserita nell’elenco di Forbes dei miliardari nel mondo con un patrimonio stimato di 3.2 miliardi, rappresentando il made in Italy nel gotha della moda internazionale.

Emma Marcegaglia

Una delle donne più conosciute del business italiano in tutto il mondo. Nata a Mantova nel 1965, Emma Marcegaglia si laurea con lode in Economia Aziendale all’Università Bocconi e durante gli anni universitari trascorre un periodo di otto mesi negli Stati Uniti dove frequenta la New York University. Ex presidente di Confindustria dal 2008 al 2012 e presidente dell’Università LUISS Guido Carli dal 2010 al 2016, Marcegaglia è dall’8 maggio 2014 presidente di Eni.

Fabiola Gianotti

Nata a Roma nel 1960, Fabiola Gianotti è una fisica di fama internazionale. Suo l’annuncio del 2012 della prima osservazione di una particella compatibile con il bosone di Higgs. Nello stesso anno la rivista TIME la colloca in quinta posizione nella graduatoria di Persona dell’anno 2012, che vede al primo posto il presidente Obama. Nel 2013 è al settantottesimo posto nella lista delle 100 donne più potenti al mondo secondo la rivista Forbes (unica italiana insieme alla stilista Miuccia Prada). Gianotti  è oggi membro del comitato consultivo per la Fisica al Fermilab di New York e all’Accademia dei Lincei per la classe delle scienze fisiche. Dal 2013 è professore onorario presso l’Università di Edimburgo. Tra gli hobby c’è la musica: è diplomata in pianoforte al Conservatorio di Milano.

Paola Zukar

50 anni, Paola Zukar è “la signora del rap”. Principale manager nel mondo rap in Italia, collabora con i nomi più importanti dell’industria. Presente sulla scena dagli anni ’90, riporta il sito Rock it, inizia con progetti indipendenti, collabora con le più grandi case discografiche e fonda la Big Picture Management, agenzia che produce artisti come Fabri Fibra, Marracash e Clementino. All’inizio del 2017 pubblica “RAP – Una storia italiana”, il suo primo libro.

Marina Salamon

Nata nel 1958 a Tradate, in provincia di Varese, Salamon è fondatrice dell’azienda Altana, specializzata nella produzione di capi d’abbigliamento. Da presidente e azionista di maggioranza dell’azienda, fa crescere Altana rilevando altre società, fino a renderla nota a livello europeo. La società assume la gestione di vari marchi, tra cui MoschinoLiu Jo, Jeckerson e, per diversi anni, Moncler. Dal 1992 detiene il controllo di Doxa, una delle principali realtà italiane specializzate in sondaggi, di cui è presidente dal 2012.

Ornella Barra

É una donna d’affari monegasca di origine italiana. Farmacista qualificata, è co-chief operating officer di Walgreens Boots Alliance. Nata a Chiavari (Genova), Ornella Barra si laurea in Farmacia presso l’Università degli Studi di Genova e intraprende la carriera nel settore healthcare. Inizia come farmacista, dapprima gestendo una farmacia e comprandone poi una propria. Nel 1984 fonda la società di distribuzione farmaceutica Di Pharma, acquisita poi da Alleanza Salute Italia. Da allora, ha avuto molteplici ruoli e responsabilità come membro dei Consigli di Amministrazione di molte delle aziende (sia quotate che non) del Gruppo. Questi successivi cicli di trasformazione hanno portato, nel 2014, alla creazione della prima realtà globale al mondo per la salute e il benessere con radici nella farmacia.

 

 

Agi

Stress test: tutte promosse le banche europee, e non sono le italiane a stare peggio

Le principali 48 banche europee, che rappresentano il 70% delle attività del settore nella Ue, sono state promosse dagli stress test e tra queste, anche le quattro italiane interessate dall'esame ossia – in ordine di solidità – Intesa Sp, Unicredit, Ubi e Banco Bpm. Secondo i criteri dell'Autorità bancaria europea, l'Eba, le società hanno quindi superato la soglia di solvibilità richiesta dal mercato nelle prove di stress per valutare la loro resistenza a uno scenario economico avverso. Il coefficiente che è stato valutato è quello del rapporto tra capitale di qualità e attività di rischio (CET1, a pieno carico): per l'insieme delle banche si attesta al 10,1% nel quadro avverso al 2020, mentre nessuna entità singola è al di sotto del livello del 5,5%, considerato il minimo sano. Il ministro dell'Economia e delle Finanze, Giovanni Tria, ha preso atto in una nota con "soddisfazione dell'esito degli stress test condotti dall'Autorità bancaria europea (EBA) sullo stato di salute del sistema bancario italiano".

"Nel complesso le banche europee hanno mostrato una buona capacità di tenuta a fronte delle condizioni di stress ipotizzate nello scenario avverso. I risultati confermano il generale rafforzamento della solidità del sistema bancario europeo", afferma invece Bankitalia, "per le quattro banche italiane incluse nel campione la riduzione media ponderata del CET1 ratio nello scenario avverso è pari a 3,9 punti percentuali su base fully loaded, un risultato in linea con quello medio del complesso delle banche dell'SSM incluse nel campione e con la media totale EBA".

Sono tedesche e inglesi a soffrire di più

Ci sono ovviamente dei distinguo: ad esempio, dagli stress test si evince che le banche britanniche e tedesche soffrirebbero di più rispetto alle altre in caso di uno scenario economico avverso (con un lasso temporale del 2020) e tra queste, chi ha riportato il punteggio più basso ci sono tre importanti banche del Regno Unito, Lloyds Banking Group, Barclays e Royal Bank of Scotland (RBS), ma anche Deutsche Bank e altre banche regionali tedesche.

Leggi anche: la crisi senza fine di Deutsche Bank

Il gigante tedesco, infatti, in caso di scenario avverso vedrebbe i propri coefficienti patrimoniali cadere all'8,14%, con una discesa di oltre 600 punti base rispetto al 14,65% di Cet1 fatto segnare a fine 2017. Per Barclays il risultato, sempre nello scenario avverso, indica un Cet1 pari al 7,28% al 2020 rispetto al 13,32% della chiusura dell'ultimo bilancio. Non si tratta degli unici istituti di Germania e Gran Bretagna che mostrano delle sofferenze nell'esercizio dell'Eba: Nordeutsche Landesbank si troverebbe, con scenario avverso al 2020, al 7,07%, ovvero al valore più basso fra gli istituti che hanno preso parte a questa tornata di stress test. A Londra, invece, soffrirebbe un brusco calo anche Lloyds Banking, che vedrebbe il Cet1 scendere dal 14,03 all'8,55%. In Francia il risultato peggiore con scenario avverso sarebbe quello di Societe Generale, che passerebbe da un Cet1 dell'11,38% del 31 dicembre scorso al 7,61% del 2020. Rispondono invece generalmente bene gli istituti di credito spagnoli. 

Per la Bce c'è "maggiore capacità di tenuta agli shock

Gli stress dell'Eba mostrano "che le banche dell'area dell'euro hanno maggiore capacità di tenuta agli shock finanziari", commenta la Bce, "tutte le 33 banche vigilate dalla BCE presentano attualmente maggiore capacità di tenuta agli shock finanziari: le riserve di capitale delle banche sono in media più elevate, malgrado la maggiore riduzione di capitale in uno scenario avverso più grave di quello ipotizzato nella prova di stress del 2016".
L'Istituto guidato da Mario Draghi sottolinea che le banche della zona euro "mostrano una solida dotazione di riserve di capitale, nonché sforzi effettuati nella gestione degli attivi preesistenti".

 

Agi News

Il motivo che ha portato Musk a privatizzare Tesla sono i soldi dei sauditi

Ce lo chiede l'Arabia. Dopo sei giorni di silenzio, Elon Musk spiega i suoi perché. Perché ha deciso di annunciare la possibile privatizzazione di Tesla su Twitter (scompigliando il mercato). E perché ha definito “garantiti” i fondi per l'operazione. Dietro c'è il pieno supporto (anzi, la richiesta) del Public Investment Fund, il fondo sovrano saudita.

Cosa e successo fino a ora

Musk ha scritto nel blog ufficiale della società di aver espresso al board la volontà di privatizzare Tesla il 2 agosto, cinque giorni prima del tweet. Dopo una riunione con i consiglieri a ranghi ridotti (cioè senza la partecipazione di Elon e del fratello Kimbal), c'è stato un secondo incontro, durante il quale Musk ha spiegato perché sarebbe nell'interesse di Tesla abbandonare Wall Street. Visto l'appoggio del consiglio di amministrazione, ecco il passo successivo: contattare i maggiori azionisti della compagnia per sondare le loro intenzioni. “Sono molto importanti per me”, ha affermato Musk, perché “hanno creduto in Tesla quando nessun lo faceva e sono coloro che più credono nel nostro futuro”.

Al di là delle ragioni affettive, c'è ne uno finanziaria: più saranno gli azionisti che resteranno in Tesla anche fuori dalla borsa e meno risorse dovrà raccogliere Musk per raggiungere il suo obiettivo. Fin qui nulla di strano. Poi, però, il 7 agosto Musk decide di far saltare il banco, con una mossa inusuale per una società quotata: annunciare la più grande privatizzazione della storia di Wall Street in meno di140 caratteri.

Perché comunicarlo via Twitter?

Musk ha sin da subito dialogato con gli azionisti più pesanti, per ottenere il loro supporto. “Tuttavia – scrive il fondatore del gruppo – non sarebbe stato giusto condividere informazioni solo i nostri maggiori investitori senza coinvolgere tutti gli altri”. Per questo, ha pensato che “la cosa giusta da fare” fosse “annunciare pubblicamente” le sue intenzioni. La manovra, però, non è piaciuta né ad alcuni investitori né alla Sec, la Consob americana.Secondo Bloomberg, la Commissione starebbe “intensificando” le inchieste (andando oltre una generica richiesta di informazioni) per capire se l'incursione di Musk sia stata fatta per manipolare il prezzo delle azioni.

Musk se la dovrà vedere anche con due denunce per aggiotaggio (il reato che punisce la diffusione di notizie false o esagerate con l'obiettivo di speculare su un titolo). Il trader Kalman Isaacs sostiene che i tweet siano stati fuorvianti, fatti apposta per gonfiare le azioni di Tesla (schizzate del 13% nella seduta seguita all'annuncio). L'altro ricorrente, William Chamberlain, ha chiesto l'avvio di una class action, cui dovrebbe aderire chi ha scambiato titoli Tesla tra il 7 e il 10 agosto.

Perché ha detto che i soldi sono 'secured'

Il titolo è decollato anche per una parola: “Secured”, “Garantito”. I soldi per l'operazione, aveva scritto Musk, ci sono. Per due motivi: le stime hanno indicato stime eccessive e ci sarebbe già un investitore forte pronto a pagarle. Anzi, non sarebbe solo un finanziatore ma il vero promotore della privatizzazione. I primi contatti con il fondo sovrano saudita risalgono a “quasi due anni fa”. E più volte il Public Investment Fund avrebbe sondato la possibilità di ritirare Tesla da Wall Street. Al primo incontro (all'inizio del 2017) ne sono seguiti “diversi”.

“Ovviamente – scrive Musk – il fondo sovrano ha capitale più che sufficiente per questa transazione”. Il rapporto è diventato più stretto quando i sauditi sono entrati nell'azionariato con una quota vicina al 5%, rilevato sul mercato azionario. Il 31 luglio, un nuovo incontro. In quell'occasione, il managing director del fondo avrebbe espresso “rammarico” per non aver potuto eseguire l'operazione privatamente. E si sarebbe detto “ansioso” di sostenere un eventuale ritiro dalla borsa. Musk afferma quindi di aver lasciato la riunione convinto di poter contare sul pieno supporto saudita. Ecco perché ha definito “garantito” il capitale necessario. Dopo l'annuncio via Twitter, il fondo avrebbe confermato il suo “supporto” e chiesto maggiori dettagli.

Stime sopravvalutate

Mentre continuano le discussioni con il fondo saudita e con altri grandi azionisti, Musk sostiene sia ancora “prematuro” fornire pubblicamente dettagli. Tuttavia, il ceo ha chiarito che Tesla non userà lo strumento del debito ma quello dell'equity. Non si tratterebbe quindi di un classico “leveraged buyout” (che sfrutta la capacità di indebitamento per sostenere l'acquisizione). I capitali arriverebbero dagli azionisti, attuali e futuri. “Non credo sia saggio – scrive Musk – gravare Tesla con un debito così significativo”.

Ma quante risorse servono? Secondo alcune analisi seguite all'annuncio via Twitter, sarebbero stati necessari 70 miliardi di dollari. Una cifra che sarebbe “drasticamente sopravvalutata”. I 420 dollari per azione sarebbero necessari solo per pagare gli azionisti che non decidessero di rimanere da “privati”. Musk è ottimista ed è convinto che molti diranno sì. Valuta infatti che i possessori di “due terzi delle azioni” sosterranno la transizione. Servirebbero quindi circa 20 miliardi di dollari.

I prossimi passi

Nei prossimi giorni, Musk proseguirà gli incontri con gli azionisti. È convinto che l'annuncio su Twitter sia stata “la cosa giusta”. E non è escluso che gli aggiornamenti arrivino da lì, nonostante gli occhi della Sec. Intanto Musk ha nominato gli advisor dell'operazione. Silver Lake e Goldman Sachs per curare la componente finanziaria; Wachtell, Lipton, Rosen & Katz e Munger, Tolles & Olson per quella legale. Il loro coinvolgimento serve a “valutare una serie di potenziali strutture e opzioni” e per “capire esattamente quanti degli attuali azionisti rimarranno anche se la società dovesse diventare privata”.

Una volta definiti i dettagli, il percorso passerebbe da un “comitato speciale”, espressione del consiglio di amministrazione. Per poi affrontare, in caso di via libera, il voto degli azionisti.

Agi News

Altro che salvataggio. Gli aiuti alla Grecia sono finiti quasi tutti alle banche

La 'troika' abbandona la Grecia dopo otto anni di commissariamento che lasciano un Paese stremato da tagli durissimi al welfare e una popolazione impoverita dagli effetti recessivi della dottrina dell'austerità. Certo, due anni fa l'economia ha ripreso a crescere e quest'anno dovrebbe raggiungere un'espansione superiore al 2%. I conti sono tornati in ordine, con un deficit sceso lo scorso anno sotto l'1% del Pil. Il costo sociale delle riforme imposte da Ue, Bce e Fmi è stato però elevatissimo. Secondo l'ultimo rapporto Eurostat sulle povertà estreme, un cittadino greco su cinque non riesce a pagare le utenze di luce e gas o acquistare carne regolarmente. Ci sono studi secondo i quali dal 2010 al 2015 la percentuale di greci che ha dovuto rinunciare a spese mediche per mancanza di denaro, potendo contare sempre meno sul sistema sanitario pubblico, è più che raddoppiata, dal 10% al 22%. Il tasso di suicidi, in precedenza bassissimo, e il numero di persone colpite da depressione, nel frattempo, sono aumentati. 

Una vulgata da confutare

Ovviamente Atene ha le sue responsabilità, nelle spese allegre per le Olimpiadi che spinsero i governi di allora a truccare i conti per nascondere la voragine nei bilanci. Ciò non rende però meno inaccettabile la vulgata sugli operosi nordeuropei costretti a mettere mano al portafoglio per "salvare" gli scialacquatori levantini. E non solo perché, a conti fatti, il governo di Berlino ha guadagnato 1,3 miliardi dai prestiti concessi durante la crisi ellenica. I tre piani di prestiti alla Grecia, un totale di 241 miliardi dal 2010 al 2018, sono stati prima di tutto uno strumento per consentire alle banche francesi e tedesche (minima era l'esposizione di quelle italiane) di salvaguardare i propri investimenti nel Paese egeo, investimenti che una 'Grexit' avrebbe ridotto in poltiglia con i prevedibili effetti domino sulle rispettive economie nazionali. A confermarlo fu uno studio dell'European School of Management and Technology di Berlino risalente al maggio 2016, che analizzò la destinazione dei 216 miliardi di prestiti erogati fino ad allora.

I contribuenti europei hanno salvato i privati

Dallo studio risulta che il 95% della somma era stata assorbita dalle banche dell'Eurozona e solo il 5% era concretamente finito nelle casse statali di Atene. "L'Europa e il Fondo Monetario Internazionale negli anni scorsi hanno salvato soprattutto le banche europee e altri creditori privati", spiegò ad Handelsblatt Jorg Rocholl, direttore dell'istituto. Gli economisti che hanno partecipato allo studio hanno esaminato singolarmente ogni prestito per stabilire dove sia finito il denaro e hanno concluso che solo 9,7 miliardi di euro sono stati messi a bilancio dal governo greco a beneficio dei cittadini laddove 86,9 miliardi di euro sono stati utilizzati per rimborsare vecchi debiti, 52,3 miliardi per il pagamento degli interessi e 37,3 miliardi per la ricapitalizzazione delle banche elleniche. "È un qualcosa che tutti sospettavano ma che pochi sapevano davvero. Ora uno studio lo conferma: per sei anni l'Europa ha tentato invano di porre fine alla crisi in Grecia attraverso i prestiti e chiedendo riforme e misure sempre più dure", sottolineò il quotidiano tedesco, "del fallimento, come ovvio, è maggiormente responsabile la pianificazione dei programmi di salvataggio che il governo greco". In sostanza, chiosò Rocholl, "i contribuenti europei hanno salvato gli investitori privati".

L'Italia ha pagato il conto per gli altri

Buona parte dell'esposizione – attraverso i fondi salva-Stati europei Efsf ed Esm – è passata quindi dalle banche agli Stati. Il problema è che la cifra concretamente versata dagli Stati come quota dei prestiti non ha corrisposto certo all'esposizione del proprio sistema bancario, bensì alla propria partecipazione nei suddetti fondi. Pertanto la Francia, che nel 2011 risultava la più esposta con 60 miliardi di crediti a rischio, se l'è cavata sborsando 46 miliardi di euro, (considerando prestiti bilaterali e quote in Bce, Efsf ed Esm) laddove l'Italia, sempre al 2015, aveva versato ben 40 miliardi a fronte di un'esposizione pari ad appena 10 miliardi. Ancora peggio è andata alla Spagna, che è passata da un'esposizione quasi nulla a 25 miliardi. La Germania – secondo i dati della Banca internazionale dei regolamenti – risultava esposta per 40 miliardi e ne avrebbe versati in totale 60. Ci ha perso pure Berlino, quindi? Non è così semplice, e non solo perché questi dati, non tengono conto dei successivi, complessi spostamenti delle esposizioni e delle plusvalenze sui prestiti realizzate nei tre anni successivi.

"A guardare più da vicino, la ripartizione del credito per tipologia mostra che in realtà sono le banche tedesche le più esposte perché hanno 22,7 miliardi di debito governativo ellenico contro i 15 miliardi della Francia", spiegava allora Formiche, "ed è proprio il debito governativo quello su cui focalizzarsi, come specifica Boris Groendahl in un articolo di Bloomberg". Non solo. Se a settembre 2014, “in valore assoluto solo Belgio e Germania avevano incrementato la loro esposizione al settore pubblico greco", sottolineò Bruegel, "l’unico Paese dove l’esposizione pubblica è aumentata in maniera massiccia come percentuale sul totale è l’Italia”. Tutto questo oggi non potrebbe più accadere. Con la direttiva sul bail-in, a sopportare il prezzo di una crisi bancaria sarebbero i creditori degli istituti, non i contribuenti europei.

@CiccioRusso_Agi

Agi News

Cina e Usa dialogano sui dazi (a Pechino). Ma le posizioni sono distanti

Sono impaziente di incontrare il presidente Xi”, ha twittato il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, segnalando l’arrivo a Pechino di una delegazione di alti funzionari americani, guidati dal segretario al Tesoro, Steve Mnuchin, e dallo Us Trade Representative, Robert Lighthizer.

Sono giunti alla capitale per discutere gli attriti commerciali tra Cina e Stati Uniti; dovrebbero incontrare lo stesso Xi Jinping e il vicepresidente Wang Qishan. Gli analisti ritengono che questo tweet possa contenere una indicazione sul luogo in cui si terrà l’attesissimo summit fra Trump e il leader nord-coreano, Kim Jong-un, di cui si attende di conoscere anche la data (dovrebbe svolgersi entro giugno).

Non è escluso che il presidente americano abbia in mente di incontrare il leader di Pyongyang proprio in Cina, come potrebbero suggerire le sue parole. "Sono impaziente di incontrare il presidente Xi in un futuro non lontano. Avremo sempre una buona (grande) relazione".

Proprio nelle stesse ore, Kim ha confermato l'impegno di Pyongyang per la denuclearizzazione nel corso dell'incontro con il ministro degli Esteri di Pechino, Wang Yi, che ha riaffermato la centralità della Cina nella penisola, dopo lo storico summit inter-coreano che ha spianato la strada per un trattato di pace tra le due Coree.

“Il nostro grande team finanziario è in Cina per cercare di negoziare un piano egualitario sul commercio!", ha poi scritto il presidente Usa.

Sono passati tre mesi da quando Liu He, il consigliere economico del presidente Xi Jinping, durante la sua visita a Washington, aveva chiesto all’amministrazione Trump di indicargli i funzionari con cui avrebbe potuto confrontarsi per evitare una guerra di dazi con il maggior partner commerciale della Cina. La risposta è arrivata oggi, giovedì 3 maggio, quando Liu, a capo della delegazione cinese, si è seduto per i colloqui di due giorni con sette funzionari istruiti da Donald Trump.

"Sono eccitato dall'essere qui", ha dichiarato Mnuchin alla stampa presente all'aeroporto di Pechino, poco dopo l'atterraggio nella capitale cinese, senza aggiungere commenti sulla visita.  Oltre a Mnuchin e a Lighthizer, la delegazione speciale comprende anche il segretario al Commercio Usa, Wilbur Ross, gli adviser della Casa Bianca Peter Navarro e Larry Kudlow, l’ambasciatore americano a Pechino Terry Branstand.


L'entusiasmo per i colloqui è stato, però, molto ridimensionato negli ultimi giorni, sia da parte cinese che statunitense.

“Se la delegazione statunitense verrà in buona fede, i colloqui potranno essere costruttivi", ha dichiarato la portavoce del ministero degli Esteri di Pechino, Hua Chunying, aggiungendo che sarebbe però irrealistico aspettarsi una risoluzione dei problemi dopo un solo round di colloqui. Molto più duro il giudizio di un funzionario del governo di Pechino, che ha sottolineato al South China Morning Post che la Cina non intende soccombere nella disputa sul Commercio con gli Stati Uniti e che è pronta a combattere "fino alla fine" una guerra commerciale.

Punti di partenza diversi

In particolare, secondo fonti che hanno parlato al New York Times nei giorni scorsi, la Cina non intende cedere su due precondizioni poste da Trump per il successo delle trattative:

  1. la riduzione del deficit commerciale bilaterale a vantaggio di Pechino di cento miliardi di dollari;
  2. e il ridimensionamento del piano di sviluppo del manifatturiero avanzato, il Made in China 2025.

L'arrivo della delegazione speciale statunitense viene accolto con fermezza dalla stampa cinese. "La Cina vuole che i colloqui producano soluzioni praticabili per mettere fine alla faida in corso e alle pratiche commerciali ingiuste degli Stati Uniti, e non è la sola a volerlo", scrive il China Daily, citando anche il caso dell'Unione Europea. La Cina, prosegue l'editoriale, "rimarrà ferma contro il bullismo degli Stati Uniti se necessario, e come campione della globalizzazione, del libero scambio e lode multilateralismo, avrà un forte sostegno da parte della comunità internazionale".

Sentimenti contrastanti emergono anche da parte della delegazione Usa, composta sia da "falchi" in economia, come Navarro, che da funzionari su posizioni meno oltranziste, come lo stesso Mnuchin, che ha però cambiato atteggiamento negli ultimi mesi, sostenendo le posizioni dure sul commercio di Trump.

In un'intervista a Fox News, lunedì scorso, il segretario al Tesoro Usa si era detto cautamente ottimista sulla possibilità di avere "discussioni schiette" con la controparte cinese durante la visita a Pechino: nelle scorse ore, però, il segretario al Commercio Usa, Wilbur Ross, ha avvertito che il viaggio di due giorni potrebbe essere ulteriormente accorciato "se non soddisfacente", come dichiarato ai microfoni di Cnbc. 
  

Per lo Us Trade Representative, il rapporto tra Cina e Stati Uniti nel commercio è una "grossa sfida" e le due economie potrebbero "passare il prossimo anno a sviluppare come trattare gli uni con gli altri in un periodo di tempo", ha dichiarato Lighthizer nei giorni scorsi durante un evento della Camera di Commercio Usa a Washington.

La posta in gioco

Si parla di dazi e controdazi su merci di importazione dal valore complessivo di 150 miliardi da ambo le parti. Balzelli che in realtà, secondo gli osservatori, nessuno dei due intende perseguire (Trump è esasperato dal surplus commerciale con la Cina e dalla necessità di proteggere le tecnologie americane dai presunti furti cinesi). Secondo i produttori di soia americani interpellati dall’agenzia Bloomberg, la Cina avrebbe già smesso di comprare dagli Stati Uniti il cereale al centro della querelle.

Una breve cronologia (ripresa dal Financial Times)

Aprile 2017

Gli Usa lanciano una indagine sugli effetti delle importazioni di acciaio e alluminio sulla sicurezza economica, militare e nazionale.

Agosto 2017

Donald Trump chiede allo Us Trade Representative di esaminare il sistema di tutela della proprietà intellettuale cinese e in particolare la presunta pratica cinese di forzare le compagnie straniere a trasferire le tecnologie ai partner locali.

8 marzo 2018

Gli Usa annunciano dazi sulle importazioni di acciaio e alluminio (rispettivamente al 25% e al 10%) a partire dal 23 marzo.

23 marzo 2018

Gli Usa impongo i dazi su acciaio e alluminio. Gli alleati americani, a cominciare dall'Unione Europea, vengono esonerati fino al 1 maggio. Non la Cina.

23 marzo 2018

La Cina, in risposta ai dazi Usa su acciaio e alluminio, annuncia dazi del 15-20% sulle importazioni di 128 prodotti americani, tra cui la carne di maiale, a partire dal 2 aprile.

2 aprile 2018

Entrano in vigore i dazi del 15-20% sull' importazione di 128 prodotti statunitensi.

3 aprile 2018

Gli Usa pubblicano una lista di 1333 prodotti tecnologici di importazione cinese dal valore di 50 miliardi di dollari che potrebbero essere soggetti a nuovi dazi del 25%. Nel mirino la presunta violazione della proprietà intellettuale.

4 aprile 2018

La Cina presenta un ricorso al Wto per i dazi su alluminio e acciaio e fa appello per la lista di 1333 prodotti dal valore di 50 miliardi, e minaccia di imporre balzelli del 25% sui prodotti di importazione Usa dal valore di 50 miliardi, tra cui i semi di soia.

6 aprile 2018

In risposta alla rappresaglia cinese, Trump ordina allo  US trade representative di considerare tariffe aggiuntivi su merci cinesi pari a 100 miliardi.

1 maggio 2018

Gli Usa estendono fino al 1 giugno l’esonero dalle tariffe su acciaio e alluminio a Europa, Canada, Messico, Argentina, Australia e Brasile.

Agi News

Gli spagnoli sono diventati più ricchi degli italiani

Gli spagnoli sono diventati più ricchi degli italiani. Lo indacano i dati dell'Fmi rielaborati dal Financial Times che lo definisce un segnale "preoccupante" per Roma alle prese con uno "stallo politico". Il sorpasso di Madrid è avvenuto nel 2017, secondo le cifre sul Pil pro capite "a parità di potere d'acquisto", contenute nel World Economic Outlook. Dal 2015 la Spagna ha segnato tassi di incremento superiori al 3%, più del doppio rispetto all'Italia fino al sorpasso lo scorso anno. E per il Financial Times nei prossimi anni Madrid staccherà ancora di piu' l'Italia: nel 2022 sara' il 7% più ricca. Solo un decennio fa, l'Italia era il 10% più prospera della Spagna.

La debolezza del Pil pro capite viene attribuita più allo stallo italiano che alle positive performance dell'economia spagnola, chiamando in causa un ritmo di ripresa più basso degli standard Ue (l'economia è cresciuta di appena il 2% dal 2008 ad oggi) e un'instabilità politica che sta minando la fiducia degli investitori internazionali. Secondo le ultime stime dell'Fmi, il Pil spagnolo quest'anno salirà al 2,8% contro circa la metà dell'Italia. Gli ispettori di Washington hanno richiamato Spagna e Italia per l'entità del debito anche se il direttore generale dell'Fmi, Christine Lagarde, durante un dibattito con il ministro dell'Economia Pier Carlo Padoan, ha tenuto a sottolineare che "sembra essersi stabilizzato e inizia a scendere".

Agi News

Gli italiani a rischio povertà ora sono 18 milioni: pesano tasse e tagli alla spesa sociale

Con tasse record una spesa sociale tra le più basse d'Europa, in Italia il rischio povertà o di esclusione sociale ha raggiunto livelli di guardia molto preoccupanti. È quanto emerge dall'analisi realizzata dall'Ufficio studi della Cgia, secondo la quale il rischio di povertà o di esclusione sociale tra il 2006 e il 2016 è aumentato in Italia di quasi 4 punti percentuali, raggiungendo il 30% della popolazione (Il Manifesto).

In buona sostanza le persone in difficoltà e deprivazione sono passate da 15 a 18,1 milioni. Il livello medio europeo è invece salito solo di un punto, attestandosi al 23,1%: 6,9 punti in meno rispetto alla nostra media. In Francia e in Germania, invece, in questi 10 anni il rischio povertà è addirittura diminuito e attualmente presentano un livello di oltre 10 punti in meno al dato medio Italia (Huffington Post).

La povertà nel Sud Italia: grave la situazione in Sicilia, Campania e Calabria

A livello regionale per quanto riguarda la povertà la situazione al Sud è pesantissima. Gli ultimi dati disponibili riferiti al 2016 ci segnalano che il rischio povertà o di esclusione sociale sul totale della popolazione ha raggiunto il 55,6% in Sicilia, il 49,9% in Campania e il 46,7% in Calabria.

Il dato medio nazionale, come dicevamo più sopra, ha raggiunto il 30% (4,1 punti percentuali in più tra il 2006 e il 2016). In questi ultimi anni di crisi, nota la Cgia, alla gran parte dei Paesi mediterranei sono state "imposte" una serie di misure economiche di austerità e di rigore volte a mettere in sicurezza i conti pubblici. In via generale questa operazione è stata perseguita attraverso uno "smisurato aumento delle tasse, una fortissima contrazione degli investimenti pubblici e un corrispondente taglio del welfare state" (Tgcom24).

"Risultato drammatico"

"Da un punto di vista sociale – commenta il coordinatore dell'Ufficio studi della CGIA Paolo Zabeo – il risultato ottenuto è stato drammatico: in Italia, ad esempio, la disoccupazione continua a rimanere sopra l'11 per cento, mentre prima delle crisi era al 6 per cento. Gli investimenti, inoltre, sono scesi di oltre 20 punti percentuali e il rischio povertà ed esclusione sociale ha toccato livelli allarmanti. In Sicilia, Campania e Calabria praticamente un cittadino su 2 si trova in una condizione di grave deprivazione. E nonostante i sacrifici richiesti alle famiglie e alle imprese, il nostro rapporto debito/Pil è aumentato di oltre 30 punti, attestandosi l'anno scorso al 131,6 per cento".

In questi ultimi anni la crisi ha colpito indistintamente tutti i ceti sociali, anche se le famiglie del cosiddetto popolo delle partite Iva ha registrato, statisticamente, i risultati più preoccupanti. Il ceto medio produttivo, insomma, ha pagato più degli altri gli effetti negativi della crisi e ancora oggi fatica ad agganciare la ripresa.

La mancanza di ammortizzatori sociali per le partite Iva

"A differenza dei lavoratori dipendenti – nota il Segretario della Cgia Renato Mason – quando un autonomo chiude l'attività non beneficia di alcun ammortizzatore sociale. Perso il lavoro ci si rimette in gioco e si va alla ricerca di una nuova occupazione. In questi ultimi anni, purtroppo, non è stato facile trovarne un altro: spesso l'età non più giovanissima e le difficoltà del momento hanno costituito una barriera invalicabile al reinserimento, spingendo queste persone verso impieghi completamente in nero".

Il peso delle tasse sul Pil italiano

Ritornando ai dati della ricerca, In Italia la pressione tributaria (vale a dire il peso solo di imposte, tasse e tributi sul Pil) si attesta al 29,6% nel 2016. Tra i nostri principali paesi competitori presenti in Ue nessun altro ha registrato una quota così elevata. La Francia, ad esempio, ha un carico del 29,1%, l'Austria del 27,4%, il Regno Unito del 27,2% i Paesi Bassi del 23,6%, la Germania del 23,4% e la Spagna del 22,1". Al netto della spesa pensionistica, il costo della spesa sociale sul Pil (disoccupazione, invalidità, casa, maternità, sanità, assistenza, etc.) si è attestata all'11,9 per cento.

Tra i principali paesi Ue presi in esame in questa analisi, solo la Spagna ha registrato una quota inferiore alla nostra (11,3% del Pil), anche se la pressione tributaria nel paese iberico è 7,5 punti inferiore alla nostra. Tutti gli altri, invece, presentano una spesa nettamente superiore alla nostra. In buona sostanza siamo i più tartassati d'Europa e con un welfare "striminzito" il disagio sociale e le difficoltà economiche sono aumentate a dismisura.

Agi News

Di quanto sono più bassi gli stipendi delle donne rispetto a quelli degli uomini

Nel mondo le donne guadagnano in media il 23% in meno degli uomini. Lo affermano le Nazioni Unite, secondo cui si è difronte al "più grande furto della storia". Per ogni dollaro guadagnato da un uomo, una donna guadagna in media 77 centesimi e – sottolinea la consigliera delle Nazioni Unite Anuradha Seth – non vi è "un solo Paese né un solo settore in cui le donne abbiano gli stessi stipendi degli uomini".

Notevoli comunque, le differenze tra paesi: tra i membri dell'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), vi sono paesi con una differenza del 5% come Italia e Lussemburgo e altri con un gap del 36% come la Corea del Sud. Secondo l'Eurostat (che calcola il divario retributivo di genere sulla base della differenza del salario medio lordo), nell'Unione europea le donne in media guadagnano circa il 16% in meno degli uomini. Il "gender pay gap" era nel 2015 del 16,3% nella Ue a 28 stati e del 5,5% in Italia, in riduzione dal 7% del 2013 e dal 6,1% del 2014.

Leggi anche: "La parità salariale fra uomini e donne imposta per legge funziona". In Islanda

Nel nostro Paese si rileva la percentuale più bassa d'Europa insieme a quella del Lussemburgo. Ma gli aspetti da considerare nel divario salariale sono molti: dalla mancata remunerazione del lavoro domestico, alla minore partecipazione al mercato del lavoro, al livello delle qualifiche. Le lavoratrici hanno meno ore retribuite, operano in settori a basso reddito, sono meno rappresentate nei livelli apicali delle aziende. E ricevono in media salari più bassi rispetto ai colleghi maschi per fare esattamente lo stesso lavoro. La differenza salariale si amplia generalmente in relazione all'età e alla presenza di figli: con ogni nascita le donne perdono in media il 4% del loro stipendio rispetto a un uomo; per il padre il reddito aumenta invece di circa il 6%. Ciò dimostra, secondo Seth, che buona parte del problema è il lavoro familiare non retribuito che le donne continuano a svolgere in modo sproporzionato.

Secondo i dati dell'Organizzazione internazionale del lavoro riferiti al 2015, il 76,1% degli uomini in età lavorativa fa parte della popolazione attiva, contro il 49,6% delle donne. Al ritmo attuale, avverte l'Onu, ci vorranno più di 70 anni per porre fine al divario salariale tra uomini e donne.

 

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