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Elon Musk potrà scrivere tweet su Tesla solo se autorizzato dall’avvocato

Il patron della Tesla, Elon Musk, ha raggiunto un accordo con la Sec (Securities and Exchange Commission), la Consob americana, per porre fine al contenzioso sull’utilizzo di Twitter. L’intesa, in base ai documenti depositati in tribunale, prevede che Musk dovrà in futuro ottenere il ‘via libera’ del legale della Tesla prima di fare dichiarazioni pubbliche, tweet compresi, sulle finanze dell’azienda o su informazioni relative ai suoi piani e progetti.

Se il giudice accoglierà l’accordo patteggiato, Musk non correrà più il rischio di essere ritenuto responsabile di aver violato una precedente intesa con la Sec. L’accordo segna una tregua nella lunga battaglia tra Musk e la Sec, battaglia innescata dall’uso disinvolto di Twitter da parte del miliardario. La querelle era cominciata nell’agosto 2018, quando Musk aveva annunciato su Twitter che stava pensando di togliere Tesla dalla Borsa e aveva già trovato un finanziamento per acquistare le azioni a 420 dollari ciascuna, una cifra molto superiore al prezzo di mercato.

Dopo qualche giorno, Musk aveva riconosciuto che non era vero e che non aveva il finanziamento per l’operazione; ma a quel punto vari investitori e la Sec lo avevano denunciato sostenendo che con i suoi ‘cinguettii’ aveva gonfiato artificialmente le azioni dell’azienda, di cui lui beneficia direttamente, considerato che è il massimo investitore in Tesla. Lo scorso ottobre, la Commissione lo ha punito con 20 milioni di dollari di multa (più altri 20 per Tesla) e Musk ha anche dovuto lasciare la poltrona di presidente (ma non quella di Ceo).

La cifra è stata sborsata e il consiglio di amministrazione ridisegnato, ma le esternazioni social sono continuate. Il 20 febbraio con un ‘tweet’ Musk ha affermato che la società avrebbe prodotto “500.000 vetture nel 2019”, ma poi si è corretto chiarendo che si trattava del “ritmo annualizzato”. Tradotto: a fine 2019, Tesla produrrà 10.000 vetture a settimana; cioè circa 500.000 l’anno se riuscisse a mantenere lo stesso ritmo per 12 mesi. 

Agi

Come funzionava la truffa sui diamanti in cui è incappato anche Vasco Rossi (e non solo lui)

Due milioni e mezzo di euro in diamanti. A Vasco Rossi era stato prospettato come un affare: investire un discreto gruzzoletto nella più preziosa delle pietre per metterla al sicuro da speculazioni e oscillazioni di altri mercati più volubili. Peccato che qualcuno era riuscito a ‘gonfiare’ quei diamanti. Come? Aumentandone il valore e certificandolo grazie alla complicità delle banche.

Non una truffa da ladri di polli come quella messa in piedi dal Madoff dei Parioli che trasformò i risparmi dei vip della Capitale, ma un raggiro che, secondo la Guardia di Finanza, sarebbe stato orchestrato da cinque banche ai danni di investitori e risparmiatori tra cui nomi come la conduttrice radiofonica Federica Panicucci la showgirl Simona Tagli e l’industriale farmaceutica Diana Bracco.

Nell’ambito dell’inchiesta, il Nucleo di Polizia economico finanziaria della Guardia di Finanza ha sequestrato oltre 700 milioni di euro a Banco Bpm, Unicredit, Intesa Sanpaolo, Mps e Banca Aletti

Come funzionava la truffa

Secondo il procuratore aggiunto Riccardo Targetti e il pm Grazia Colacicco, due società – la Intermarket Diamond Business spa (IDB) e la Diamond Private Investement (DPI) – avrebbero ingannato i risparmiatori gonfiando il valore dei diamanti, col supporto delle banche. L’inchiesta penale segue gli accertamenti dell’Antitrust che, a conclusione di due istruttorie, aveva multato le società venditrici e le banche per un totale di oltre 15 milioni di euro.

Nell’ottobre del 2016, il programma televisivo ‘Report’ aveva confrontato i prezzi di listino dei diamanti venduti dalla IDB e dalla DPI, a parità di carato, brillantezza e purezza, con le quotazioni di Rapaport, il listino internazionale dei diamanti riconosciuto in tutto il mondo.

Era emerso che quelli venduti dalle due società nel mirino della Procura di Milano avevano un prezzo doppio rispetto a quello indicato da Rapaport. L’Antitrust aveva verificato che chi li aveva acquistati e voleva rivenderli sul mercato rischiava di perderci e, per questo, era indotto a ricollocarli attraverso la stessa società che glieli aveva venduti pagando però commissioni salate per il disinvestimento.

Sempre stando all’Autorità, ed è anche l’ipotesi sulla quale sta lavorando la Procura, gli istituti di credito erano il principale canale per la vendita dei diamanti per entrambe le società di cui utilizzavano il materiale informativo per ‘piazzare’ i preziosi ai clienti, svolgendo un cruciale ruolo di intermediazione. I fatti al centro dell’inchiesta sono compresi tra il 2012 e il 2016 e tra gli indagati c’è il direttore generale di Banco Bpm, Maurizio Faroni, accusato di autoriciclaggio.

Il sequestro  così ripartito, per l’ipotesi di reato di truffa: 149 milioni nei confronti di IDB, 165milioni di DPI, 83,8 di Banco Bpm e di Banca Aletti, 32 milioni di Unicredit, 11 milioni di Intesa Sanpaolo, 35,5 di Mps. Per l’ipotesi di autoriciclaggio, il sequestro è di 179 milioni per IDB e di 88 milioni per DPI.

Agi

Storia dell’azienda che assume solo ultra 50enni rimasti senza lavoro

Un'azienda al "contrario". Tra le numerose aziende che chiudono, ce n’è una che apre. Al contrario di chi offre lavoro precario, c'è chi mette in campo contratti a tempo indeterminato. A fronte di chi cerca di "giovani con esperienza", spunta chi assume soltanto cinquantenni reduci da disoccupazione, precariato e fallimenti.

La notizia arriva dal quotidiano La Nazione, che racconta come la MrKelp, azienda fiorentina nel settore dei multiservizi, si sia trasformata da semplice iniziativa imprenditoriale a caso più unico che raro.

Leggi ancheQual è il lavoro dei sogni degli italiani (secondo Linkedin)

Finora sono una ventina le persone assunte dalla MrKelp, guidata da tre coraggiosi imprenditori, Alessandro Marzocca, Simone Orselli e Serena Profeti. "Fin da subito abbiamo optato per assunzioni che privilegiassero l’inserimento di donne e uomini che avessero perso il proprio lavoro o dovuto cessare la propria attività a causa della crisi – spiega Alessandro Marzocca –. Vogliamo dare opportunità a persone sui cinquanta che si trovano in grande difficoltà, aiutandole ad inserirsi nuovamente nel mondo del lavoro".

Le storie 

Storie che raccontano di lavoro che sparisce, imprese che falliscono, stipendi e contributi non pagati. Di una vita dove rischia di venir meno la dignità di guardare in faccia la famiglia. Tra i neoassunti c'è Massimo che ha 56 anni e prima della crisi aveva un'azienda sua "Ho pensato che per me non ci sarebbe stato più spazio" – racconta – "Ci siamo rimessi tutti in discussione e, oggi, possiamo dire che la scommessa è vinta". E' così anche per Ercole, 57 anni senza speranza di poter tornare ad avere una busta paga "Erano cinque anni che non l’avevo più, sono riuscito a risollevarmi, a tornare vivere tranquillo". Carlo, invece, si è trovato a piedi dopo anni di contratti a tempo determinato. "Graduatorie improvvisamente chiuse e porta sbattuta in faccia a me e a molte altre persone. Posso garantire che stare senza lavoro, oggi, è qualcosa che non può esistere".

Cos'è MrKelp

"L’idea è nata da un gruppo di amministratori di condomini e immobili, a Firenze, che ha sentito l’esigenza di creare un servizio efficace e di qualità per le pulizie e le piccole riparazioni dei propri stabili" si presenta così sul sito ufficiale l'azienda toscana di multiservizi, nella sezione dedicata al Chi siamo. "Il compito principale di Mr. Kelp è quello di trovare soluzioni semplici e immediate per i problemi più diversi che, ogni giorno, possono venire alla luce nella gestione degli immobili".

I dati Istat

Secondo gli ultimi dati Istat, relativi al mese di agosto, si stima un aumento degli inattivi tra i 15 e i 64 anni (+0,3%, pari a +46 mila unità). L’aumento coinvolge principalmente gli uomini e si distribuisce in tutte le classi di età ad eccezione dei 35-49enni. Il tasso di inattività sale al 34,5% (+0,1 punti percentuali). Nell’anno, tuttavia sono aumentati gli occupati ultracinquantenni (+393 mila), mentre calano nelle altre classi d’età. Per i giovani tra i 15 e i 24 anni la percentuale dei disoccupati è del 31%. 

Agi News

La mobilità sostenibile non è solo elettrica. L’avanzata dei veicoli a gas

Non solo auto elettrica. La mobilità sostenibile infatti comprende anche i veicoli a gas che nell’ultimo periodo hanno avuto una diffusione altrettanto importante contribuendo a rendere l’aria più respirabile e con risparmi notevoli per le tasche degli automobilisti. Il gas (da non confondere con il gpl che è miscela di combustibili, principalmente propano e butano, sottoprodotti del processo di raffinazione del petrolio greggio) inoltre, a differenza dell’elettrico, può essere utilizzato come carburante anche per il trasporto pesante (camion e tir) oltre che navale, mezzi di trasporto che, almeno finora, non possono camminare con le batterie.

Secondo i dati Aci nel 2017 i veicoli a metano circolanti in Italia hanno superato il milione, circa il 2% del parco totale. A maggio 2018 la quota di mercato delle auto a metano in Italia è salita al 3% a fronte dell’1,7% di fine 2017. La rete di distribuzione negli ultimi 15 anni è triplicata con un trend di crescita pari al 5% annuo. Oggi per il metano ci sono 1.263 stazioni di rifornimento su tutto il territorio nazionale, di cui 46 in autostrada, la rete più capillare d’Europa. I Tir a gnl (gas naturale liquefatto) negli ultimi tre anni sono aumentati del 900%, passando dai circa 100 del 2015 ai mille del 2018. Le stazioni di rifornimento a gnl sono salite a 20 e potenzialmente possono arrivare fino a 15.000 unità nei prossimi anni.

Un’auto a gas emette il 30% in meno di CO2

Secondo Federmetano un’auto a gas naturale è in grado di abbattere fino al 96% le polveri sottili (la sostanza che rende l’aria delle nostre città irrespirabile) e al 70% l’ossido di azoto rispetto a un tradizionale motore Euro 6 diesel e di emettere il 30% in meno di anidride carbonica (CO2) di un’auto a benzina.

La direttiva europea e la posizione del governo italiano

Con il recepimento della direttiva europea Dafi (Directive on the deployment alternative for fuel initiative) sarà più facile eliminare gli ostacoli che finora, in Italia, hanno rallentato la diffusione di questo tipo di veicoli e che riguardano essenzialmente l'erogazione e la rete di distribuzione. Le nuove norme permetteranno all'automobilista di rifornirsi di metano in modalità self-service e con semplicità mantenendo elevati standard di sicurezza: per esempio, non ci sarà più bisogno di una tessera di abilitazione, ma per il riconoscimento basterà la carta di credito e si avrà a disposizione un tutor on line che impartirà le procedure da seguire per un corretto rifornimento, spiega l’Aci.

Per quanto riguarda l’Italia, il passato governo aveva espresso “una neutralità tecnologica” tra le fonti di alimentazione green, metano, appunto, ed elettrico. “Non ci deve essere una tecnologia prevalente rispetto a un'altra", aveva detto l’ex ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda. Bisognerà vedere come si muoverà l’attuale. Per ora Luigi Di Maio ha parlato di auto elettrica e del progetto per l'auto senza guidatore di Google.

Le iniziative infrastrutturali per la mobilità a metano

In ogni caso, molte sono le iniziative delle aziende per diffondere questo tipo di mobilità. Pochi giorni fa Eni e Snam, attraverso la controllata Snam4Mobility, hanno firmato un accordo per realizzare 20 nuove stazioni di rifornimento di CNG (gas naturale compresso) per autotrazione sul territorio nazionale. L’intesa prevede la progettazione, realizzazione e manutenzione da parte di Snam di 20 nuovi impianti di CNG all’interno della rete nazionale di distributori Eni.

Sempre Snam, a maggio, ha firmato con Baker Hughes un accordo per lo sviluppo di infrastrutture di micro-liquefazione indirizzato al trasporto pesante su strada e per promuoverne l’avvio nei trasporti via mare in Italia. Le due società valuteranno entro la fine dell’anno la possibile realizzazione di quattro impianti di micro-liquefazione distribuiti sul territorio nazionale. Gli impianti di micro-gnl sarebbero i primi in Italia e tra i primi in Europa di questa tipologia. Il bio-gnl è l’unica tecnologia esistente per lo sviluppo di carburanti totalmente rinnovabili e a zero emissioni di CO2 per i veicoli pesanti.

Agi News

Zuckerberg ha venduto azioni di Facebook per 500 milioni in un solo mese 

Mark Zuckerberg, 34enne fondatore e amministratore delegato di Facebook, ha venduto circa 500 milioni di dollari di azioni della sua società a febbraio. Lo ha rivelato Reuters. I soldi serviranno al numero uno di Facebook per finanziare il suo veicolo di investimento filantropico, la Czi (Chan Zuckerberg Initiative). Una mossa che non deve sorprendere. Zuckerberg da tempo sta accelerando la vendita delle sue azioni per finanziare la fondazione creata con sua moglie Priscilla Chan nel 2015.

Alcuni documenti che Reuters ha avuto modo di visualizzare giovedì dimostrano che Zuckerberg ha venduto 685.000 azioni per un controvalore di 125,4 milioni negli ultimi tre giorni di febbraio, vendite che hanno portato quelle dell'intero mese a circa 2,7 milioni di azioni per un valore di 482,2 milioni. "Queste vendite sono l'ultimo tassello di un processo che Mark ha cominciato lo scorso settembre per finanziare il lavoro della Chan Zuckerberg Initiative nel campo della scienza, dell'istruzione e delle questioni relative alla giustizia e alle pari opportunità", ha detto a Reuters un portavoce della fondazione.

Zuckerberg aveva già annunciato che avrebbe venduto nei prossimi anni il 99% delle sue azioni di Facebook in favore della Czi. Finora ha venduto 1,6 miliardi di azioni tra il 2016 e il 2017, secondo un calcolo fatto dal sito di informazione tecnologica Recode. La sua fondazione è assai simile a quella di altri miliardari americani, primi tra tutti Bill Gates con sua moglie Melinda e Warren Buffet con la sua Buffet Foundation.

Agi News

Se pensate che i Big Data siano solo soldi facili per i giganti del web, sbagliate  

 I big data rappresentano la nuova frontiera del business, ma anche della tecnologia e dell'innovazione. big data è un termine ricorrente ma che rischia di essere fuorviante. La traduzione letterale, 'grandi dati', fa pensare a un'enorme mole di dati utilizzabile per il business online. Questo è vero solo in parte, perché questa enorme quantità di dati non è sempre liberamente condivisa e disponibile per tutti.

I dati generati dai telefoni, dalle carte di credito, dai pagamenti online, dalle tv contiene effettivamente un'impressionante quantità di informazioni: nomi, indirizzi e codici email, conti bancari, numeri telefonici, ma anche preferenze di acquisto, gusti, interessi personali, dati sulla salute. Si tratta di una massa di informazioni che non è facile da quantificare, perché ha superato l'ordine degli Zettabyte (10 alla 21esima byte), un numero teorico, per archiviare il quale occorrono strumenti e metodologie che non tutti hanno a disposizione.

La rivoluzione dei big data e, in generale, il termine big data si riferisce proprio a cosa si può fare con tutta questa quantità di informazioni e quindi, in termini tecnologici, agli algoritmi capaci di trattare così tante variabili in poco tempo e con risorse computazionali adeguate.

 

No, i big data non interessano solo il settore dell'Information Technology

Il paragone è presto e fatto: fino a poco tempo fa, uno scienziato per analizzare una montagna di dati che oggi definiremmo Small o Medium Data avebbe impiegato molto tempo e si sarebbe servito di computer mainframe da oltre 2 milioni di dollari. Oggi, con un semplice algoritmo, quelle stesse informazioni possono essere elaborate nel giro di poche ore, magari sfruttando un semplice laptop per accedere alla piattaforma di analisi, oppure incrociando e analizzando i dati con i cloud. Il bello è che i big data non interessano solo il settore dell'Information Technology, per il quale vengono impiegati strumenti come il cloud computing, gli algoritmi di ricerca e via discorrendo, ma sono necessari e utili nei business più disparati:

  • automobili che si guidano da sole,
  • medicina
  • commercio
  • astronomia
  • biologia
  • chimica
  • farmaceutica
  • turismo
  • finanza
  • gaming.

Nessun settore in cui esiste un marketing e dei dati da analizzare può dirsi indenne dalla rivoluzione big data.

I principali collettori di big data

Google, Facebook e Amazon, numeri uno rispettivamente dei motori di ricerca, dei social network e dei servizi online, sono i prioincipali collettori di big data del mondo e li ottengono gratis, o quasi. Per muoverci su questi siti noi non paghiamo ma in compenso offriamo loro una mole di dati personali impressionante, che questi colossi possono facilmente collegare e incrociare tra loro, disponendo così di un bene inestimabile: i nostri big data personali.

In base all'attuale legislazione le autorità antitrust sanno bene che le compagnie che abbattono i prezzi per le clientela possono essere grandi e potenti quanto vogliono, cioè non sono soggette ai limiti antitrust, non abusano della loro posizione dominante. Google, Facebook e Amazon offrono i loro servizi praticamente gratuitamente e concorrono ad abbassare i prezzi. Tuttavia un bene, o un servizio non è gratuito se invece di pagarlo in dollari e in euro lo paghiamo in dati, che poi vengono monetizzati per altre vie. Tanto piu' che i nostri dati personali sono difficilmente prezzabili.

Altro problema è quello che pongono le tecnologie delle aziende high tech, le quali custodiscono questi dati, al riparo da occhi indiscreti (inclusi quelli dei governi e delle autorità di pubblica sicurezza), cioè li monopolizzano, o li mettono in vendita (Facebook in testa), dopo aver ottenuto a prezzi stracciati e in modo non sempre chiaro a tutti il diritto di farlo. Tra il 2011 e il 2014 è diventato evidente, indiscutibile, che i big data, rappresentano una ricchezza inestimabile, che sono l'oro, il petrolio del futuro: il 'tesorò del mondo digitalizzato.

Gli specialisti della trasformazione dei big data in pubblicità mirate

Il problema è che i big data non sono beni, servizi, o materie prime qualunque, viaggiano dentro delle macchine e non si vedono, non si toccano. Vengono raccolgono, in quantità gigantesche,  dai colossi del web, in particolare Google, Amazon, Apple, Facebook, i quali fin dal 2015, fiutato l'affare, hanno iniziato ad assumere esperti che hanno lavorato per dotarli di tecnologie in grado di archiviarli, analizzarli, incrociarli, sfruttarli economicamente.

Amazon e Netflix sono diventate specialiste nel trasformare i big data in proposte di acquisto, pubblicità ad hoc, coupon, sconti e quant'altro il marketing online suggerirà in futuro. Sulla base dei big data le assicurazioni e le società di carte di credito sono in grado di valutare il rischio di credito dei clienti. Nella sfera della sicurezza pubblica, della sanità e della previdenza ci sono enormi potenzialità per i big data, tanto che Apple e il dipartimento Usa alla Giustizia hanno già ingaggiato un duello all'ultimo sangue per il diritto di accesso ai dati personali di criminali, che l'azienda di Cupertino si è rifiutata di dare in nome della difesa della privacy.

Google, analizzando i gruppi dei termini di ricerca digitati dagli utenti sul proprio motore, era riuscito a prevedere nel 2008 l'avanzamento dei focolai di infliuenza negli Usa piu' velocemente di come lo stesso ministero della salute non fosse riuscito a fare utilizzando i record di ammissione ospedaliera delle strutture sanitare pubbliche e private. Lo stesso dicasi per i dati utilizzabili in termini di manipolazione politica. Insomma, i big data, sono diventati una miniera d'oro per chi li raccoglie ed è in grado di sfruttarli.

Il vero confine tra cervello umano e macchine: l'analisi dei dati

Un cervello umano non può digerire e processare la montagna di informazioni dei big data, è troppo lento per trasformare in intuizioni, decisioni e ipotesi di lavoro una simile mole di dati. Macchine e algoritmi invece sono perfette a questo scopo, digeriscono montagne di dati e li intrecciano, li mettono in relazione tra loro, ricavando così modelli ricorrenti, osservazioni, soluzioni. Gli ingegneri in grado di costruire queste macchine e l'architettura software in grado di farle fuzionare, dapprima sono stati ingaggiati dai colossi di Internet, poi si sono messi in proprio, creando startup specializzate, presto diventate 'unicorni', cioè società del valore di piu' di un miliardo di dollari.

La nuova frontiera dei big data è comunque quella dell'intelligenza artificiale e del 'machine learning', cioè dei dispositivi a intelligenza artificiale forte, dotati di schede di istruzione più complesse, basate su algoritmi di apprendimento, cioè su programmi particolari, che consentono alla macchina di apprendere funzioni e comportamenti molto potenti, grazie all'interazione con l'ambiente esterno.

Una delle applicazioni commerciali più innovative del machine learning è l'assistente digitale degli smartphone , uno strumento pensato per pianificare la giornata, gli appuntamenti, l'organizzazione della vita, non solo quella domestica ma anche quella sociale e lavorativa, dell'utente. Il dispositivo, in teoria, potrebbe essere programmato anche per giocare a scacchi, in ogni modo ragiona, pianifica, decide, apprende, comprende, comunica, manipola oggetti, tende a sostituire il cervello umano anche nelle sue funzioni piu' complesse, affronta il problem solving, ha funzioni che hanno un fondamento ontologico (si rappresentano ciò che esiste), cioè una capacità di apprendimento automatico.

Il fondamento conoscitivo dell'intelligenza artificiale: l'apprendimento delle macchine

Insomma, il machine learning, non è un programma di istruzioni, per quanto complesso,  ma è un fondamento conoscitivo che permette almeno tre tipi di apprendimento.

Il primo è quello non supervisionato, che è tipico dei motori di ricerca.

Il secondo è un apprendimento supervisionato, tipico di alcune macchine biomediche, che tengono conto dei dati biometrici passati, o dell'identificazione vocale, che migliora sulla base degli ascolti audio passati, o quello che consente l'identificazione visiva, che ha grandi capacità di sviluppo potenziali e può procedere a riconoscimenti inaspettati, molto utili nelle indagini poliziesche.

Il terzo tipo di apprendimento è quello cosiddetto per rinforzo, come il Q-learning, che permette di adattarsi all'ambiente, usa le reti neurali artificiali e la logica fuzzy. Questo apprendimento può trovare applicazioni in campo finanziario, per programmare gli investimenti, oppure in campo medico, ingegneristico, nelle auto che si guidano da sole, nelle case intelligenti, ed è programmato per scambiare informazioni con i 'cloud', archivi dati super-potenti, che dispongono di una memoria infinitamente superiore a quella della mente umana.

Il problema vero è che alla sua massima potenza, l'intelligenza diventa incomprensibile

Queste macchine intelligenti sono molto potenti, hanno capacità che la mente umana non possiede, come d'altra parte hanno anche i computer di calcolo, ma sono ancora molto lontani dal funzionare come un cervello umano, restano macchine artificiali. Dunque, il problema vero dell'Intelligenza Artificiale è che quando l'AI si esprime al massimo della sua potenza diventa spesso incomprensibile. Di qui il problema, ancora non del tutto risolto, di rendere pienamente applicabili nel mondo reale le macchine intelligenti più forti, più complesse. La soluzione fin qui adottata tende a indirizzare la ricerca sull'intelligenza artificiale a servirsi di sistemi applicativi misti, dotati di più algoritmi e in grado di riconoscere quando le risposte o le raccomandazioni finiscono fuori controllo.

Agi News

Ecco perché una sede Amazon fa gola a molte città (non solo italiane)

E’ stato inaugurato ufficialmente il 18 settembre il terzo centro di distribuzione italiano di Amazon. Jeff Bezos ha scelto Larizzate in provincia di Vercelli come luogo di smistamento dei migliaia di articoli che finiranno nei prossimi mesi dentro le case degli italiani. Per il momento l’hub è operativo e i circa 200 dipendenti hanno iniziato a stoccare il materiale sugli scaffali, ancora non si conosce però il periodo in cui prenderà il via l’attività di smistamento.

In Italia Amazon già distribuisce da Caste San Giovanni in provincia di Piacenza e da Passo Corese in provincia di Rieti. 

Tutto quello che c’è da sapere sul polo di Vercelli

Il polo logistico da 107.000 metri quadrati – si legge su La Stampa – è sorto in pochi mesi alle porte di Vercelli. Il logo scelto per il capannone è un airone cinerino, uccello tipico delle campagne vercellesi. Migrando dall’Asia e dall’Africa, il volatile dal becco e dalle zampe di forma curiosa ha trovato nelle risaie il suo habitat: “Anche Amazon viene da lontano, dall’America – sottolineano dal colosso mondiale dell’e-commerce – ma proprio come l’airone, vogliamo diventare parte integrante del territorio”. Ed è anche per questo motivo che tutte le sale riunioni del centro di distribuzione sono state intitolate alle diverse tipologie di riso, elemento d’identità della zona. Quindi c’è la sala Carnaroli, la Arborio, la Sant’Andrea e così via.  

Inoltre quello di Vercelli sarà un centro di distribuzione di categoria 'Non Sort' ('Non Sortable'), a differenza ad esempio di quello di Piacenza, che è invece 'Sort'. Questi si occupano della gestione di tutti i prodotti che, per dimensioni e peso, sono al di sotto dei 13 chili di peso e non devono essere alti più di 25 centimetri e lunghi più di 45. In questi magazzini gli articoli vengono stoccati in scaffalature di media grandezza, e non servono mezzi per movimentare la merce, bastano dei semplici carrelli. Tutti gli altri articoli che superano queste dimensioni sono definiti «Non Sortable», e saranno quelli custoditi nel polo di Larizzate. La procedura, in questo caso, è differente: in base al peso dell’articolo, vengono utilizzati carrelli più grandi rispetto a quelli tradizionali, ma anche dei mezzi che permettono di stoccare i prodotti in scaffalature che si sviluppano in altezza.

Le prossime aperture italiane

Il prossimo 3 ottobre – scrive Diariodelweb –  un magazzino di 8mila metri quadrati sorgerà a Crespellano, alle porte di Bologna. Lo stesso vale per Casirate d’Adda (Bergamo), dove dovrebbe sorgere un capannone ultra-tecnologico di 40mila metri quadrati, per il quale sarebbero previste ben 400 assunzioni. Piano piano anche in Italia sta nascendo una serie di magazzini pronti a distribuire merce on-demand in qualsiasi momento, il più in fretta possibile. Le logiche del colosso di Jeff Bezos sono sempre state chiare: rapidità e una customer experience soddisfacente.

Negli Stati Uniti è scattata la gara per aggiudicarsi la sede Amazon

E’ bastato un annuncio per scatenare la fantasia e la frenesia di molte città americane che vogliono aggiudicarsi la seconda sede americana – in ordine di grandezza – di Amazon.

D’altra parte non possono essere biasimate, visto che la seconda casa di Amazon porterebbe 50.000 posti di lavoro e un investimento di 5 miliardi di dollari, oltre che una popolarità senza precedenti, considerando che si tratta dalla sede dell’Internet company più grande al mondo. Ogni città ha cercato di farsi notare in vari modi – scrive Mashable -, ad esempio Tucson in Arizona ha deciso di tagliare un cactus di 21 metri e di inviarlo come dono a Jeff Bezos.

Anche il sindaco di Pittsburgh, Bill Peduto, ha corteggiato su Twitter il gigante dell’e-commerce e quello di Kansas City, Sly James, ha elencato tutti gli aspetti positivi della città scrivendo un editoriale sul Kansas City Star.

Con un post su Facebook si è fatta notare Huntsville, in Alabama. La città ospita già la sede Nasa e altre grandi aziende di ingegneria.L’interesse è arrivato anche da parte di grandi città come Houston, New York e Boston.

 

 

 

Agi News

“Sulle startup in Italia solo proclami, la Francia abbraccia il futuro”

Loro Macron, noi micron. Sarebbe il titolo perfetto per raccontare la distanza tra noi e la Francia in tema di startup. Ieri su Agi.it Riccardo Luna ha scrittoquesto post "Startup, sveglia Italia! Siamo fermi al palo". La nostra è una vera "Emergenza Innovazione", che stiamo provando ad indagare, coinvolgendo i massimi esperti sull'argomento. Ma ci piacerebbe coinvolgere tutti, anche quelli che massimi esperti non sono. Se volete contribuire scriveteci qui:dir@agi.it A presto. 

"Le startup italiane hanno il potenziale per creare almeno 100mila posti di lavoro, se si fanno crescere. Ma così non è". Gianmarco Carnovale è un imprenditore romano (è amministratore delegato di Scuter) e presidente di Roma Startup, associazione che lo vede impegnato per contribuire alla crescita di un ecosistema favorevole all'innovazione nella Capitale. E' tra le voci più schiette della startup scene italiana, ne ha seguito l'evoluzione, ne conosce i freni, il potenziale. E, per ora, le promesse spesso disattese come testimoniano i dati degli investimenti in startup dei primi sei mesi del 2017. 

 

75 milioni nel primo semestre, prima decrescita dopo 3 anni. Che succede? 
"Succede che non succede niente: di fatto la nostra 'filiera delle startup' non è stata né propriamente stimolata né messa nelle condizioni di crescere di scala nell'offerta di capitale di rischio. Anzi, se vogliamo dirla tutta, al di là dei proclami ci sono stati veri disincentivi: negli ultimi 4 anni la tassazione sul capital gain (cioè quanto sono tassati i guadagni dalle vedite delle azioni, anche in startup, ndr) è cresciuta dal 12.50% al 26%. Inoltre i requisiti per aggregare investimenti sono stati irrigiditi da Banca d'Italia".

In che modo?
"Oggi per gestire 500 mila euro raccolti da dieci conoscenti per fare un invetimento in startup ha gli stessi oneri di vigilanza e governance di un fondo da mezzo miliardo. La stessa Banca d'Italia ci mette anche 18 mesi per autorizzare quei malaugurati che volessero avviare una nuova società di gestione del risparmio. E il nostro omologo dei "fondi di fondi" – ruolo svolto qui da FII – invece di essere un grande "serbatorio" per una quota della dotazione degli operatori di venture capital opera come piccolissimo serbatoio e con l'altra mano fa concorrenza ai propri beneficiari. Non solo disincentivi ma anche confusione di ruoli per anni, quindi crescita piatta, fino ad arrivare 2017 dove i pochi fondi italiani hanno quasi tutti terminato l'investment period e non avranno soldi da investire fino al 2018".

Quindi non è un calo che deve sorprendere. 
"È anche poco il calo che si è visto, se si togliessero dal calcolo i fondi esteri intervenuti in alcuni dei round maggiori vedremmo un calo ben più forte".

Si parla molto di startup come volano per la crescita economica, ma serve a poco. Quali sono le cause secondo te? 
"Le startup sono un volano per la crescita economica, per la redistribuzione di ricchezza, per l'efficientamento dei mercati. Quando le si sviluppa davvero. Il problema è che la classe politica di questo paese è legata ai vecchi poteri, a categorie economico-produttive che vogliono incamerare il fenomeno è possibilmente archiviarlo senza subire la disruption che l'innovazione porta. Se vuoi sintetizzo in 'protezionismo': non sia mai che venga fuori quel qualcuno che metta in crisi il modello di business di aziende del secolo scorso, bisogna impedirlo a nuovi imprenditori italiani e impedire l'accesso agli stranieri".

C'è una vulgata che comincia a diffondersi: le startup italiane non valgono molto, sono scarse. Quanto c'è di vero? 
"Questa sembra essere la soluzione narrativa in via di adozione da parte di tutti i signori che vogliono tentare di archiviare il finto tentativo di apertura al movimento startup – operato secondo modelli fantasiosi e inventati di sana pianta rispetto alle practice internazionali – come inadeguato all'Italia per una presunta minore qualità dei nostri founder. Fa ridere solo a sentirla".  

In Francia di Macron ha ingranato la sesta, e non è un Paese poi così diverso dall'Italia. 
"La Francia si è lanciata verso un abbraccio del domani forte e convinto, per cavalcare la tecnologia, mentre l'Italia naviga verso una totale e cieca protezione del passato, guidata da una classe politica convinta di potersi disinteressare del vero interesse collettivo e perfino fare nefandezze perchè quel che conta è controllare i titoli dei giornali e telegiornali per guidare l'opinione pubblica. Il brutto è che hanno in parte ragione perché questo è un paese di anziani che si informano così, ma diventa meno vero con ogni anziano che si digitalizza ogni giorno che passa". 

Secco: cosa dovremmo fare per invertire la tendenza?
"Di fare sul serio, seguendo le practice internazionali, copiando anzichè inventando di sana pianta modelli e schemi. E togliere fiato e visibilità ai benaltristi che confondono, intorbidiscono, e sguazzano nella confusione. La filiera delle startup e del venture business sono strettamente connesse e ben codificate, basta conoscerle per applicarne normativamente le logiche, ed inserire incentivi laddove si debba temporaneamente stimolare alcune categorie a fare delle cose in un certo modo. Servono interventi forti lungo tutta la filiera delle startup, sia a favore delle startup stesse che delle varie tipologie di soggetti che ne costituiscono il terreno di crescita, il concime e l'acqua. Abbiamo un vero Statista da qualche parte? Qualcuno che non solo come facciata pensi allo sviluppo del Paese, anziché alla spartizione delle sue spoglie? L'Italia ha tranquilllamente il potenziale per impiegare oltre 100mila persone in nuove startup tecnologiche in un ciclo virtuoso che crea e distribuisce ricchezza".  

Agi News

L’Italia tornerà ai livelli pre-crisi solo nel 2024

Roma – Il 2017 sarà per l'Italia un anno in chiaroscuro caratterizzato da meno tasse e più lavoro ma il nostro Paese tornerà ai livelli pre-crisi solo nel 2024. E' la previsione dell'ufficio studi della Cgia, secondo cui, al netto di eventuali manovre correttive, la pressione fiscale è destinata a scendere di 0,3 punti percentuali (attestandosi così al 42,3 per cento), il Pil dovrebbe aumentare di circa un punto, il numero degli occupati crescere di quasi 112.000 unità e l'esercito di disoccupati scendere di 84.000 persone. A fronte di questi dati positivi, preoccupa, invece, la mole di tempo che sarà necessaria per ritornare ai livelli pre-crisi (ovvero il 2007).

Nel 2016 l'economia italiana è tornata ai livelli del 2000

In base ai dati di contabilità nazionale pubblicati dall'Istat il 23 settembre 2016 e relativi al Pil reale (concatenato al 2010) e alle previsioni di Prometeia sugli scenari delle economie locali di ottobre 2016, segnala la Cgia, dovremmo recuperare gli 8,7 punti percentuali di Pil persi tra il 2007 e il 2013 solo nel 2024, vale a dire fra 7 anni.

Nel 2016 l'economia italiana è "precipitata" ai livelli del 2000, ovvero di 16 anni fa. I consumi delle famiglie, invece, che a causa della crisi sono crollati di 7,6 punti percentuali, li dovremmo "riconquistare" entro il 2021 e i 28 punti percentuali circa di investimenti bruciati in questi anni non prima del 2032.

Preoccupante anche la situazione relativa al mercato del lavoro. Se tra il 2007 e il 2013 il tasso di disoccupazione è quasi raddoppiato, passando dal 6,1 al 12,1 per cento, le previsioni delle dinamiche occupazionali dell'Istat e di Prometeia stimano che il livello dei senza lavoro (attualmente all'11,5 per cento circa) dovrebbe ritornare al 6 per cento solo nel 2032 (tra ben 15 anni), mentre l'occupazione pre-crisi nel giro di un paio d'anni (2018-2019).

Cgia, ripresa ancora molto debole e sotto la media Ue

"Sebbene le tasse siano destinate a scendere grazie, in particolar modo, alla riduzione dell'Ires che interesserà solo le società di capitali e l'occupazione è destinata ad aumentare in virtù della fiducia ritrovata tra i piccoli imprenditori – dichiara il coordinatore dell'ufficio studi della Cgia, Paolo Zabeo – la ripresa economica del nostro Paese rimane ancora molto debole e ben al di sotto della media Ue. Se nel 2017, come riportano le ultime previsioni economiche elaborate dalla Commissione europea, il nostro Pil dovrebbe attestarsi attorno all'1 per cento, in Ue, invece, è destinato a toccare l'1,6 per cento. Tra tutti i 28 paesi dell'Unione, solo la Finlandia registrerà quest'anno una crescita più contenuta della nostra".

"A differenza di quanto è successo per buona parte del 2016 – sottolinea il segretario della Cgia, Renato Mason – speriamo che il governo Gentiloni torni a discutere e a decidere sui grandi temi: come creare lavoro, quali politiche industriali sviluppare, come affrontare le sfide che l'economia internazionale ci pone. Abbiamo bisogno di intervenire su questi argomenti – conclude – altrimenti rischiamo di veder aumentare le disuguaglianze sociali che stanno minando la coesione sociale del nostro Paese".

Per approfondire:

 

Agi News

Non solo Fed, chi decide davvero il costo del denaro

Roma – Come previsto, la Federal Reserve ha aumentato i tassi di interesse di un quarto di punto, portandoli allo 0,75%. La presidente della banca centrale Usa, Janet Yellen, ha poi annunciato in conferenza stampa che nel 2017 dovrebbero essere effettuate altre tre strette, che porterebbero il costo del denaro all'1,5% alla fine del prossimo anno. Si tratta di un attestato di fiducia nei confronti dell'economia americana, che continua a espandersi a ritmi che molti Paesi europei possono solo sognarsi e gode di un mercato del lavoro in salute robusta.

Il discorso di Janet Yellen

Si tratta del secondo rialzo dopo quello del dicembre 2015, che aveva posto fine alla lunga epoca di tassi prossimi allo zero avviata dal predecessore di Yellen, Ben Bernanke, per risollevare la maggiore economia mondiale dalle secche di una devastante crisi finanziaria. Le banche centrali non hanno però la bacchetta magica e, soprattutto in un contesto come quello americano, con regolamentazioni molto meno rigide rispetto a quelle europee, le banche e le forze del mercato hanno un ruolo tutt'altro che secondario nello stabilire il costo del denaro effettivo.

Il Fomc, cuore direzionale della Fed

Ad assumere in concreto le decisioni sulla politica monetaria Usa è il Federal Open Market Committee (Fomc), che si riunisce otto volte all'anno a intervalli di circa sei settimane da un direttivo all'altro. Il Fomc è composto da dodici membri: i sette componenti del board della Federal Reserve e cinque tra i dodici presidenti delle banche che sovraintendono ai rispettivi distretti federali. A parte il presidente della Federal Reserve di New York, che ha sempre diritto di voto, gli altri quattro hanno un mandato di un anno, a rotazione. I sette restanti presidenti distrettuali partecipano comunque alle riunioni del Fomc, pur senza poterne votare le decisioni, che vengono prese a maggioranza.

Il tasso nominale non è quello effettivo

Il principale strumento di politica monetaria della Federal Reserve è il 'Fed Fund Rate', ovvero il tasso di interesse medio al quale le banche e gli altri operatori finanziari statunitensi si prestano denaro a vicenda nelle operazioni 'overnight'. Ciò significa che non è la banca centrale ma il mercato a stabilire il tasso di interesse effettivo: la Fed ne fissa uno di riferimento e poi interviene sul mercato, drenando o iniettando liquidità, per assicurarsi che il tasso effettivo corrisponda il più possibile a quello nominale. Proprio per questo i 'Fed Funds Rate' non corrispondono a un numero secco ma a una 'forchetta'. Tecnicamente, nelle scorse ore la Fed non ha portato il costo del denaro dallo 0,5% allo 0,75% ma da una forchetta tra lo 0,25% e lo 0,5% a una tra lo 0,5% e lo 0,75%.

Le 'Repo' e le 'Reverse Repo'

Come detto, per assicurare che il tasso di interesse sul mercato corrisponda il più possibile a quello nominale deciso dal Fomc, la Federal Reserve interviene sul mercato con operazioni che hanno lo scopo di aumentare ('Repo') o ridurre ('Reverse Repo') la liquidità in circolazione nel sistema. Nelle operazioni di 'Repo', attuate quando si abbassa il 'Fed Funds Rate', gli istituti di credito concorrono in un'asta per aggiudicarsi prestiti dalla banca centrale. Nel caso di un rialzo dei tassi si effettua, invece, una 'Reverse Repo', ovvero è la banca centrale che chiede soldi in prestito agli istituti, che concorrono sul tasso al quale offrirli alla banca centrale ricevendo un collaterale, di solito un titolo di Stato. E' quindi evidente quanto il mercato abbia un ruolo fondamentale nel corretto funzionamento della politica monetaria americana. Lo scorso dicembre la Fed aveva fissato allo 0,25% il tasso di riferimento per le operazioni di 'Reverse Repo' e aveva messo a disposizione come collaterali titoli del Tesoro per circa 2 mila miliardi di dollari.

Lo 'Ioer' e le riserve in eccesso

Un altro importante strumento che la Federal Reserve usa per regolare la quantità di liquidi in circolazione nel sistema (che influenza il costo del denaro in virtù del gioco della domanda e dell'offerta) è lo 'Ioer', ovvero 'Interest Rate on Excess Reserve', il tasso di interesse sulle riserve in eccesso, che fu portato allo 0,5% lo scorso dicembre. Si tratta del rendimento che le banche pagano per "parcheggiare" le riserve in eccesso (ovvero superiori al minimo stabilito dalle norme) presso la Federal Reserve Bank del loro distretto. Sulla carta ciò dovrebbe garantire che le banche prestino denaro a un tasso almeno superiore allo 'Ioer'. Un aumento dello 'Ioer' ha pertanto lo scopo di incoraggiare le banche a prestare denaro piuttosto che a tenerlo nelle casse della banca centrale.

Una pancia piena di titoli tossici

L'azione della Fed non si limita al solo orientamento del costo del denaro. Nel periodo immediatamente successivo all'esplosione della crisi dei mutui, innescata dal fallimento di Lehman Brothers nel settembre 2008, la banca centrale incamerò un'enorme quantità di quei titoli derivati, spesso 'spazzatura' (non importa quanto bene fossero valutati dalle agenzie di rating), che avevano causato il terremoto sui mercati, rastrellandoli dai bilanci delle banche. Vale quindi la pena di sottolineare la frasetta che da anni conclude i comunicati della Fed: "Verrà mantenuta la politica attuale di reinvestire i pagamenti delle obbligazioni e dei titoli garantiti da mutui in attività analoghe". Tradotto in soldoni: l'enorme quantità di bond societari, cartolarizzazioni e titoli tossici finiti in pancia alla Fed ai tempi dei salvataggi bancari è destinata a restare dov'è ancora per parecchio tempo.

 

Per approfondire:

Agi News