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La sconfitta di Tsipras spiegata dagli economisti

Finisce travolta dall’austerity l’era di Alexis Tsipras in Grecia. La parabola del rivoluzionario che si fa realista e che dalle grida contro l’Europa finisce al tavolo con la Troika. E’ lungo il percorso tra Atene e Bruxelles, sottolineano gli economisti interpellati dall’Agi, a prescindere dalle loro posizioni accademiche e politiche, che si scorgono responsabilità e errori.

Il tonfo, brutalmente, è il risultato di una scommessa mancata. La Grecia ha voluto voltare pagina: nel vecchio salvatore ha finito per vedere lo sforbiciatore della spesa sociale. Ma forse una storia diversa avrebbe potuto essere scritta. Tsipras, osservano gli analisti, è vittima innanzitutto di se stesso.

“Quando fu eletto nel 2015”, rileva Lorenzo Bini Smaghi che dal 2005 al 2011 ha fatto parte del direttivo della Bce, “la Grecia stava uscendo dall’austerità. Il Pil era tornato, sebbene di poco, positivo e il Paese aveva cominciato di nuovo a emettere sui mercati. In quella fase Tsipras scelse di andare allo scontro con l’Europa e, alla fine, dopo aver perso quasi un anno, ha dovuto fare più austerità di quanta sarebbe stata necessaria all’inizio”.

I costi pagati dalla Grecia sono stati altissimi. “La classe media è stata distrutta, non c’è più occupazione stabile, il lavoro nero ha avuto un incremento immenso”, rileva Giulio Sapelli. Per l’economista, “l’errore cruciale di Tsipras è stata la richiesta di ristrutturazione del debito. E’ passato dal grido ‘usciamo dall’euro’, dice, “all’accettazione totale dei diktat della Troika. Si sono comportati come un Paese sottosviluppato, da economia sudamericana”.

Sulle responsabilità di Tsipras si sofferma anche Veronica De Romanis. Il leader di Syriza, osserva la titolare della cattedra di European economics della Luiss, “ha imposto al suo Paese dosi di austerità massicce perché nel gennaio 2015 ha deciso di sospendere il programma in corso, nonostante il Pil fosse in ripresa e i mercati assorbissero il debito. E i sei mesi successivi, di messaggi discordanti, hanno fatto ripiombare la Grecia nella recessione e hanno spinto i mercati a chiudere i rubinetti”.

In sintesi, commenta Lorenzo Castellani, ricercatire della Luiss, “Tsipras ha perso non tanto, o quanto meno non solo, per la situazione economica, ma perché ha promesso un cambio di regime con l’Europa che non è riuscito a realizzare. Era andato al governo per combattere la troika e ha pagato lo scontro con l’imposizione di misure ancora piu’ pesanti”.

In quelle condizioni, sostiene Sapelli, bisognava “muoversi lungo un crinale di negoziazione aperta con l’Europa, essere creativi, cercare spazi di manovra. Bisognava, ad esempio, fare quello che ha fatto Tremonti in Italia con la Cdp, che non entra nel bilancio pubblico. Invece la scelta è stata fare una battaglia ideologica, tipica di chi non sa fare politica. Bisogna sempre guardarsi dal dominio dei professori”, esorta l’economista riferendosi all’ex ministro dell’Economia greco, Gianis Varoufakis, “che”, afferma, “ha condotto il governo in modo astratto”.

Per De Romanis, tuttavia, dalla disciplina di bilancio non si può derogare. “In Europa”, osserva, “ci sono diversi Paesi in surplus di bilancio, che hanno condotto il risanamento dei conti e messo le risorse dove servono. Al limite, è l’Italia che oggi coniuga zero crescita e politiche fiscali espansive. E a chi critica l’Europa”, aggiunge, “dico che invece l’Europa potrebbe fare tanto per un Paese come il nostro. Cito soltanto due dossier: il completamento dell’Unione bancaria, a partire dalla garanzia unica dei depositi, e la discussione sull’Eurobudget, che potremmo proporre finanziasse anche la disoccupazione in caso di choc”.

Se una lezione va imparata, riprende Bini Smaghi, “è che se c’è una crisi bisogna lavorare insieme alle istituzioni europee e non contro per costruire il mix di politiche fiscali e aggiustamento di bilancio più equilibrato possibile. Forse in Grecia si è insistito troppo sui conti e poco sulle politiche. Ma una cosa deve essere chiara”, rileva, “nessun governo sarebbe stato disponibile a tirar fuori un euro in più per Atene: nessun cittadino europeo avrebbe voluto pagare per la spesa pubblica greca, dove il deficit era esploso dal 4 al 15% in un anno”.

Eppure qualcosa deve cambiare per evitare che risanamento finisca inevitabilmente per far rima con sconfitta elettorale e disgregazione del tessuto sociale. “Un’Europa meno rigida sarebbe utile per evitare tensioni”, osserva Castellani. “Con questa crescita asfittica”, prosegue, “l’esacerbazione del conflitto è sempre dietro l’angolo. Servirebbe un grande piano infrastrutturale, lo scorporo degli investimenti pubblici dai bilanci o almeno una maggiore flessibilità legata a determinati tipi di investimenti o defiscalizzazioni. Ma purtroppo”, conclude, “manca qualsiasi accordo su politiche in grado di gettare acqua sul fuoco”. 

Agi