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Dal 17 si può richiedere il bonus idrico sul sito del Mite

AGI – A partire dalle ore 12.00 del 17 febbraio 2022 sarà possibile richiedere sull’apposita piattaforma on line, (www.bonusidricomite.it), il bonus idrico di cui al DM n. 395 del 27/9/2021 (https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2021/10/23/21A06314/sg). Si ricorda che il bonus è riconosciuto nel limite massimo di 1.000 euro per ciascun beneficiario e puo’ essere richiesto per una sola volta, per un solo immobile, per le spese effettivamente sostenute per gli interventi di efficientamento idrico.

Le istanze di rimborso, correttamente compilate e corredate dalla necessaria documentazione, saranno ammesse fino ad esaurimento delle risorse finanziarie disponibili.

Chi può beneficiarne

Possono beneficiare del bonus i maggiorenni residenti in Italia, titolari del diritto di proprietà o di altro diritto reale, nonchè di diritti personali di godimento già registrati alla data di presentazione dell’istanza, su edifici esistenti, parti di edifici esistenti o singole unità immobiliari, che abbiano effettuato nel corso dell’anno 2021 interventi di sostituzione di vasi sanitari in ceramica con nuovi apparecchi a scarico ridotto e di apparecchi di rubinetteria, soffioni doccia e colonne doccia esistenti con nuovi apparecchi a limitazione di flusso d’acqua.

I limiti del bonus

Si ricorda, inoltre, agli utenti che il bonus idrico è alternativo e non cumulabile, in relazione a medesime voci di spesa, con altre agevolazioni di natura fiscale relative alla fornitura, posa in opera e installazione dei medesimi beni.

L’identità dei beneficiari, in relazione ai dati del nome, del cognome e del codice fiscale, verrà accertata attraverso Spid, ovvero tramite Carta d’Identità Elettronica. A questo link (https://www.mite.gov.it/pagina/faq-bonus-idrico-2021) le faq con le risposte ai principali quesiti.

Il numero verde

Il ministero della Transizione Ecologica ha anche messo a disposizione un call center che risponde al numero 800090545 per tutte le richieste di informazioni. Giovedì, dunque, al via la piattaforma dalle ore 12 in poi: l’inserimento di dati ed allegati deve essere completato entro 30 minuti.

Nelle tre ore successive all’invio positivo della domanda sarà possibile eventualmente rettificare i dati ed i documenti già inseriti. Si ricorda che il rimborso verrà escluso ove la richiesta risulti incompleta di informazioni e/o degli allegati richiesti. 


Dal 17 si può richiedere il bonus idrico sul sito del Mite

Chi può chiedere il contributo ‘Sostegni’, c’è tempo fino al 13 dicembre

AGI – Da oggi fino al prossimo 13 dicembre è possibile inviare le domande per fruire del contributo ‘Sostegni’ e/o del contributo ‘Sostegni-bis alternativo’, a favore dei soggetti che svolgono attività di impresa, di lavoro autonomo e di reddito agrario titolari di partita Iva che hanno conseguito, nel 2019, ricavi o compensi compresi fra 10 milioni e 15 milioni di euro. Con un provvedimento del direttore dell’Agenzia delle Entrate, Ernesto Maria Ruffini, è approvato il modello di domanda, con le relative istruzioni, per richiedere i contributi.

A chi spettano le agevolazioni

Le nuove agevolazioni spettano ai soggetti esercenti attività d’impresa, arte e professione o che producono reddito agrario, titolari di partita Iva e residenti o stabiliti in Italia, che nel 2019 abbiano conseguito un ammontare di ricavi o di compensi fra dieci e quindici milioni di euro.

Ulteriore requisito per la richiesta del contributo ‘Sostegni’ e’ l’aver registrato un calo di almeno il 30 per cento tra l’ammontare medio mensile del fatturato e dei corrispettivi dell’anno 2020 e quello dell’anno 2019, mentre ulteriore requisito per la richiesta del contributo ‘Sostegni-bis alternativo’ è l’aver registrato un calo di almeno il 30 per cento tra l’ammontare medio mensile del fatturato e dei corrispettivi del periodo 1 aprile 2020 – 31 marzo 2021 e quello del periodo 1 aprile 2019 – 31 marzo 2020.

Non possono accedere ai contributi i soggetti la cui attività e partita Iva non risulti attiva alla data di entrata in vigore dei rispettivi decreti-legge, gli enti pubblici, gli intermediari finanziari e le società di partecipazione.

Il calcolo dei contributi

Una volta verificato il possesso dei requisiti, per calcolare i contributi spettanti, la differenza tra le medie mensili viene moltiplicata per una percentuale specifica, a seconda dell’oggetto della domanda. Se viene richiesto esclusivamente il contributo ‘Sostegni’, l’importo è ottenuto applicando la percentuale del 20 per cento alla differenza tra l’ammontare medio mensile del fatturato e dei corrispettivi dell’anno 2020 e quello del 2019, con un minimo di mille euro per le persone fisiche e duemila euro per i soggetti diversi dalle persone fisiche.

In questo caso viene riconosciuto anche il contributo ‘Sostegni-bis automatico’. Se si richiede esclusivamente il contributo ‘Sostegni-bis alternativo’ il contributo è pari al 30 per cento della differenza tra l’ammontare medio mensile del fatturato dei corrispettivi del periodo 1 aprile 2020 – 31 marzo 2021 e quello del periodo 1 aprile 2019 – 31 marzo 2020.

Se vengono richiesti entrambi, per il contributo ‘Sostegni-bis alternativo’ si applica la percentuale del 20 per cento alla differenza tra l’ammontare medio mensile del fatturato e dei corrispettivi del periodo dal 1 aprile 2020 al 31 marzo 2021 e quello del periodo dal 1 aprile 2019 al 31 marzo 2020.

Per tutti i soggetti l’importo di ciascun contributo non può essere superiore a centocinquantamila euro. I contribuenti possono richiedere i contributi a fondo perduto con apposita istanza, da presentare esclusivamente utilizzando i servizi telematici dell’Agenzia delle entrate, a partire da oggi e fino al 13 dicembre 2021.

Nell’istanza devono essere indicati i codici fiscali del richiedente, dell’eventuale rappresentante o intermediario, le informazioni sulla sussistenza dei requisiti e l’Iban del conto corrente su cui ricevere l’accredito. I contributi vengono erogati mediante bonifico o, su specifica scelta irrevocabile del richiedente, possono essere riconosciuti come crediti di imposta da utilizzare esclusivamente in compensazione.


Chi può chiedere il contributo ‘Sostegni’, c’è tempo fino al 13 dicembre

Perché in Italia non può funzionare tutto come con il Ponte di Genova? 

Una sfida vinta, un modello che può essere replicato non solo per uscire dalla crisi innescata dall’epidemia, ma anche per lanciare quel piano di ricostruzione dell’Italia indispensabile per rafforzare il Paese. Questo è, secondo l’ambasciatore Giampiero Massolo, presidente di Fincantieri, l’esperienza del Ponte di Genova, di cui oggi è stato tirato su l’ultimo impalcato.

“All’uscita dall’emergenza va applicato il modello del fare” dice Massolo all’Agi, “il modello dell’impegno e della esemplificazione. Va data fiducia all’industria e all’impresa e da questa fiducia può nascere un modello di collaborazione tra privato e pubblico”.

Ambasciatore, a differenza dello scenario del Ponte Morandi, innescato dal crollo di una struttura, quello della pandemia è forse più complesso, perché sotto gli occhi non ci si presenta la dirompente visione di una distruzione fisica 

“C’è il rischio che ci sia la distruzione di un intero sistema” dice Massolo, “siamo entrati in questa crisi deboli e con molti limiti. Speriamo di uscire da queste difficoltà forti con più di un insegnamento. E la realizzazione in tempi record della struttura sul Polcevera – nonostante difficoltà di ogni genere creati dal maltempo, dal fatto che alcune strutture arrivavano via mare da Castellammare di Stabia e infine dall’epidemia – sembra essere la prova che, quando vuole, l’Italia sa superare i limiti del suo sistema”.  

Perché le cose non funzionano sempre così? Perché non è sempre possibile agire spediti come con il nuovo ponte sul Polcevera?

“C’è stata una componente di eccezionalità non irrilevante. Dirimente dal punto di vista tecnico è stata la possibilità di usare il codice degli appalti europeo derogando a quello italiano e questo ha dato tempi più agili. Ma soprattutto è la dimostrazione che in Italia ci sono sia le competenze che le possibilità di metterle a sistema. Quello che andrebbe radicalmente ripensato sono due cose: da un lato la oggettiva complessità e macchinosità delle norme che necessita di una semplificazione, ma dall’altra abbiamo dimostrato che pubblico e privato possono lavorare bene insieme nelle pieghe della normativa, anche nel contesto delle norme esistenti. È una questione di buona volontà: dobbiamo abbandonare la cultura dei distinguo per far rinascere la cultura del fare”.

Che modello può essere questo per l’Italia?

“Deve essere un insegnamento da inserire in un grande piano di ricostruzione nazionale che va dall’industria alla burocrazia, dall’impresa alla giustizia civile, e dia una spinta decisa per rimettere finalmente nelle mani degli italiani il destino del Paese”.

La ricostruzione del ponte sul Polcevera è stato un susseguirsi di sfide, quale è stata la più grande?

“Essere all’altezza della tragedia e quindi della memoria di chi ha perso la vita. Ma anche all’altezza delle aspettative della città e del Paese. Queste immagini del ponte nuovo circoleranno nel mondo insieme al ricordo di quello che è stato e dei morti che ci sono stati.  C’è stata la sfida di tenere insieme aziende diverse, competenze diverse; la sfida di far lavorare un gruppo di aziende con le autorità pubbliche, locali e governative, e la sfida di rispettare i tempi. E la sfida di realizzare nel giro di un anno un’opera che in condizioni normali avrebbe richiesto molto più tempo. E questo credo appartenga ai primati nel mondo delle costruzioni. Ovviamente, come sempre accade abbiamo dovuto contare sulla abnegazione delle maestranze, cui dobbiamo un ringraziamento per aver lavorato incessantemente in tutte le circostanze”.

Agi

“Il reddito di cittadinanza può finire come la social card di Tremonti”

Il reddito di cittadinanza “è una straordinaria occasione per ripensare le politiche attive del lavoro. È però ad altissimo rischio lo scivolamento verso una social card di tremontiana memoria: l’abbiamo già vista e l’abbiamo già vista fallire più volte”. Giorgio De Rita, segretario generale del Censis, riconosce alla misura bandiera del Movimento 5 Stelle il merito di rappresentare un’opportunità. Come anche un rischio.

Può “modernizzare la macchina amministrativa” che supporta chi è in cerca di occupazione, ma l’averla presentata “come una misura ibrida, un po’ lavoro e un po’ contrasto alla povertà ha creato grande confusione”.

Pochi benefici per l’economia

Intervistato dall’Agi, De Rita sottolinea: “L’aver presentato lo strumento come una tesserina di plastica è oggettivamente un errore“, come il “non aver immaginato investimenti sulle piattaforme digitali, che sono il cardine di tutta la misura ma dovranno essere realizzate senza oneri aggiuntivi di finanza pubblica e quindi sempre secondo lo stesso schema di una digitalizzazione ormai collassata”.

Mette in guardia De Rita: “Questo espone di nuovo a un alto rischio di scivolamento verso una misura solo di assistenzialismo. Se è così, non è cambiato nulla e i problemi che c’erano prima restano inalterati”.

“Bene per chi riceve questi soldi – osserva – ma l’economia italiana ne trae pochissimo o nulla. E soprattutto non abbiamo costruito niente per il futuro e lasciamo le strutture per il supporto alla ricerca del lavoro nello stesso punto in cui le abbiamo trovate”.

La complessità, per il segretario generale del Censis, sta nel trasformare l’impegno politico in fatti amministrativi: “Se le risorse che metti in campo non servono a radicare un modo diverso di funzionamento dell’amministrazione non hai fatto niente”.

“Il tema non è ‘tanti o pochi soldi’, ma il fatto che tutte queste risorse sono pura elargizione caritatevole e non orientate a una modernizzazione della macchina amministrativa che dovrebbe funzionare da supporto”.

Questo, secondo De Rita, è il vero spreco: “Non nell’avere pagato tanto o poco, ma nell’aver perso l’ennesima occasione di modernizzazione della macchina amministrativa e dei relativi sistemi informativi”.

Presto per giudicare, ma al momento sono in pochi

A un mese dal via alle domande per accedere al reddito, per De Rita è comunque “prematuro” dare una valutazione completa e precisa, perché è “un percorso complesso e un sistema particolarmente articolato” proprio per la sua doppia valenza (“da una parte è una politica attiva del lavoro, dall’altra è una misura di inclusione sociale”).

Ma considerando i numeri, afferma De Rita, 850.000 domande presentate nel primo mese “sono oggettivamente poche”, perché “la relazione tecnica parlava di un milione e 250.000 famiglie potenzialmente beneficiarie e quindi ci si aspettava che almeno per la domanda se ne presentassero ben di più”.

Tenendo conto poi, prosegue nel ragionamento, che secondo i dati Istat ci sono oltre 5 milioni di persone che vivono in regime di povertà assoluta di cui un milione 850.000 nuclei familiari, “era ragionevole aspettarsi un’adesione alla domanda più alta”.

A questi numeri De Rita aggiunge “i 2,7 milioni di persone che cercano lavoro, quindi un’altra platea”.

Due i fenomeni che secondo De Rita si annidano dietro all’esiguo numero di richiedenti: il primo è insito alla complessità della misura, “che prevede tutta una serie di requisiti ed è molto articolata: presentare la domanda appare facile ma in realtà non lo è – spiega – quindi i potenziali beneficiari si sono messi alla finestra e hanno pensato ‘Fammi aspettare per vedere quali sono le implicazioni'”.

“Doveva essere una misura per i giovani”

Il secondo fenomeno viene etichettato dall’esperto come “una buona dose di cinismo”. E osserva: “C’è chi la ritiene la stessa misura già stata messa in campo con la social card e il reddito d’inclusione e quindi pensa: ‘È una misura di bassa portata che dà qualche euro, si può sempre aderire. Aspettiamo e vediamo”.

Emblematica  “la polemica sui navigator” e “il fatto che se si va ai centri per l’impiego nessuno è in grado di risponderti”.

Il vero problema, torna a ribadire, è che “le famose piattaforme digitali che dovevano essere alla base di tutto non sono ancora partite e i sistemi informativi che dovevano consentire una gestione di tutto l’iter (e quindi del ‘patto per il lavoro’ e del ‘patto per l’inclusione sociale’) sono ancora al primissimo stadio”.

Quindi, tira le fila, una parte di chi ha diritto e non si è fatto avanti pensa: “Tutto sommato quella che appariva una misura di riforma strutturale dell’accesso al lavoro diventa semplicemente una sorta di elargizione caritatevole, come tale sono cinico e aspetto di capire”.

Il dato che colpisce De Rita è quell’8% di giovani che – secondo le cifre del ministero – ha presentato domanda: “È una misura che dovrebbe orientare al lavoro – precisa – il 46% delle persone che cerca lavoro in Italia ha meno di 34 anni, quindi ragionevolmente ci saremmo aspettati grosso modo 3 su 10, o 4 su 10 e non 1 su 10. Era una misura naturalmente orientata verso i giovani come politica del lavoro e la riforma dei centri impiego avrebbe dovuto vedere una loro amplissima partecipazione. E questo dai primi numeri non si vede”.

 

Agi

Cos’è il Target 2, la bomba ad orologeria che può far saltare l’euro

Immaginate di voler ordinare un'auto dalla Germania e di chiedere un prestito – poniamo di 20 mila euro – per acquistarla alla vostra banca. Una somma che verserete sul conto del vostro fornitore, su una banca tedesca. Per voi è un semplice bonifico ma il meccanismo è ben più complesso. Entra qua in gioco un sistema misconosciuto che è però tra le architravi del funzionamento della moneta unica. Stiamo parlano della piattaforma di compensazione Target2, introdotta nel 2007, che consente il regolamento dei pagamenti interbancari tra le varie banche dell'unione monetaria, ovvero i flussi di denaro da un Paese dell'Eurozona all'altro.

  • Come funziona?

Per sintetizzare al massimo, dal momento che le banche nazionali fungono da "prestatori" per le banche commerciali, la vostra banca – che prestandovi quei soldi ha "creato" moneta – si ritroverà così con un saldo negativo di 20 mila euro nei confronti della Banca d'Italia. Viceversa, una volta incassato il bonifico, la banca tedesca del vostro fornitore avrà un saldo attivo di 20 mila euro nei confronti della Bundesbank. A sua volta, la Banca d'Italia avrà un saldo negativo di 20 mila euro nei confronti del sistema Target 2 (ovvero della Banca Centrale Europea) e la Bundesbank uno attivo dello stesso importo. Di fatto, questi trasferimenti fanno sì che, a operazione conclusa, il vostro debito privato nei confronti della vostra banca si trasformi in un debito della Banca d'Italia nei confronti della Bundesbank, nonché un passivo nella bilancia dei pagamenti italiana compensato da un attivo in quella tedesca.

  • Come si estingue un simile passivo?

Solo attraverso un'altra operazione bancaria privata, ovvero, ad esempio, un cittadino tedesco che acquista beni per 20 mila euro da una ditta italiana spostando quella somma da un conto presso una banca tedesca a uno presso una banca italiana. 

  • E che succede se non restituisco i soldi alla mia banca?

Bankitalia avrà, di fatto, un passivo permanente verso la Bundesbank. Sapendo di poter "scaricare" il debito sulle banche centrali, le banche commerciali sono spinte (o almeno erano, prima dell'introduzione del bail-in) a offrire crediti con più disinvoltura, anche a operatori che difficilmente potrebbero ripagarli.

  • Perché ci sono degli squilibri?

Non tanto per i flussi commerciali (l'Italia è un esportatore netto) ma per le fughe di capitale. Il sistema Target 2 fu infatti introdotto alla vigilia della crisi finanziaria. Negli anni successivi, molti operatori spostarono beni dalle banche dei Paesi considerati più fragili (come l'Italia o la Spagna) a quelle dei Paesi finanziariamente più solidi, come la Germania o l'Olanda. Tale fenomeno ha avuto un'accelerazione dal gennaio 2015 con l'avvio del 'quantitative easing', ovvero il piano di allentamento monetario con il quale la Bce ha prestato liquidità alle banche nazionali per acquistare titoli di Stato dei rispettivi governi.

  • Cosa c'entra ora il quantitative easing?

"Quando la Banca d'Italia compra i succitati Btp da una banca tedesca le risorse sono state trasferite direttamente in Germania senza passare per l'Italia; quando la Banca d'Italia compra i Btpda banche, imprese e privati italiani, la liquidità immessa è reinvestita dal settore privato non finanziario in fondi ed azioni estere", spiegò Andrea Del Monaco sull'Huffington Post, "prima, con le operazioni Ltro (Long Term, la Bce presta i soldi alle banche italiane affinché acquistino Btp dalle banche tedesche. Poi, tramite il quantitative easing, la Bce presta i soldi alla Banca d'Italia affinché compri dalle banche italiane gli stessi Btp prima rastrellati dalla banche tedesche. Qual è l'esito? La negazione della condivisione del rischio, ovvero la sua nazionalizzazione: i titoli di debito sovrano, prima acquistati dalle banche private, ora sono depositati negli attivi delle Banche centrali nazionali".

E, nel frattempo, la forbice tra i Paesi che vantano debiti nei confronti di Target 2 e quelli che vantano crediti, in virtù di questo meccanismo che agevola il trasferimento di attivi verso i sistemi bancari considerati più sicuri, si è allargata: lo scorso aprile la Bundesbank aveva un attivo verso il Target 2 di 923 miliardi di euro, il più alto di tutti. Il saldo negativo maggiore spettava invece all'Italia: 442 miliardi di euro. 

La Germania si pone il problema dell'uscita dall'euro

Cosa succederebbe se un Paese decidesse di uscire dall'euro? Bisognerebbe chiudere i saldi nei confronti di Target 2, avvertì il presidente della Bce, Mario Draghi, nel gennaio 2017. Per questo ha ragione il ministro agli Affari Europei, Paolo Savona, quando afferma che sarebbe irresponsabile se un Paese non avesse un 'piano B' in caso di smantellamento dell'Eurozona. Una tesi condivisa da alcuni dei più illustri economisti tedeschi, a partire da Clemens Fuest, il l presidente del prestigioso istituto di ricerca tedesco Ifo, che – lo scorso 19 marzo – in un'intervista al Corriere della Sera, spiegava che una clausola di uscita deve essere stabilita, alludendo alla possibilità che, con il nuovo governo sovranista, l'Italia possa minacciare l'unione monetaria.

In realtà i tedeschi non temono tanto che Roma decida di far saltare in banco, ma intendono preparasi piuttosto a un'eventuale uscita della Germania da una moneta unica ritenuta non più sostenibile, anche in virtù degli squilibri creati dal sistema Target 2 (squilibri che, ha argomentato lo stesso Draghi, dovrebbero però ridursi con la fine del 'Qe'). Lo scorso marzo economisti vicini alla cancelliera Angela Merkel – quali Cristoph Schmidt, Hans Werner Sinn e Karl Konrad – hanno pubblicato uno studio nel quale si menzionava esplicitamente la necessità di avere un piano per l'uscita dall'euro. Che garantisca alla Germania di recuperare tutti quei soldi, si capisce. Con buona pace dell'ex consigliere esecutivo della Bce Jurgen Stark, anch'egli tedesco, il quale affermò che i saldi del Target 2 sono meri valori statistici e sostenere il contrario è indegno di un economista serio. 

Le risposte di David Blake

Abbiamo approfondito la questione con il professor David Blake della City University of London, autore di un recente studio secondo il quale il Target 2 è un vero e proprio "sistema di salvataggio occulto" che ha finora tenuto insieme la moneta unica ma, ora che è entrato nel dibattito politico tedesco, sta finendo per minacciarne l'esistenza, a meno che non si vada verso una reale integrazione economica, ovvero quello che Berlino non ha mai voluto.

Professor Blake, la Germania ha sempre rifiutato l'emissione di titoli di Stato comuni europei (Eurobond). Il suo studio spiega come il Target 2 funzioni di fatto come uno strumento di mutualizzazione del debito. È quindi un modo per tenere l'euro a galla minimizzando i costi politici, dato che quasi nessun cittadino sa cosa di tratti?

"Il Target 2 assolve tre funzioni chiave, oltre a quella originale di essere un semplice sistema di pagamenti transfrontalieri per la regolazione delle transazioni in euro che coinvolgono le banche centrali. In primo luogo, tiene l'euro a galla in quanto spalma squilibri commerciali che altrimenti richiederebbero la vendita di beni nazionali dei Paesi in deficit ai Paesi in surplus, considerato che questi squilibri non possono più essere rimossi da aggiustamenti dei tassi di cambio che riducano i prezzi internazionali delle esportazioni dai Paesi in deficit e li aumentino in quelli in surplus. Nel caso della Grecia, la situazione si deteriorò a un punto tale che a società pubblica di telecomunicazioni e quattordici aeroporti regionali furono venduti alla Germania". 

"In secondo luogo, aiuta a mantenere stabile il sistema bancario europeo facilitando le fughe di capitale dal Sud al Nord Europa, evitando le corse a ritirare i fondi che avverrebbero se la fiducia nelle banche degli Stati meridionali crollasse all'improvviso, come è avvenuto con la crisi finanziaria globale del 2007-2008 e, in seguito, nel 2011. In terzo luogo, mantiene l'illusione che i membri dell'Eurozona siano Stati sovrani che abbiano volontariamente concordato di "condividere" un po' di sovranità".

"In altre parole, il Target 2 è diventato il fattore di pressione che impedisce all'Eurozona di implodere. Ma ciò non può andare avanti all'infinito, per via delle sue contraddizioni interne. Sono piuttosto sicuro che i leader tedeschi non acconsentiranno mai alla "unione dei trasferimenti" formale che sorgerebbe dalla cancellazione dei debiti del Target 2. Quindi, presto o tardi, accadrà una di queste due cose. O i contribuenti tedeschi si renderanno conto che i loro crediti Target 2 sono senza valore a meno che non vengano usati per acquistare beni immobili in Paesi in deficit, ovvero l'unico modo realistico in cui i debiti Target 2, vista la loro mole, possono essere onorati da Italia e Spagna. Oppure i cittadini italiani e spagnoli obietteranno alla vendita delle loro infrastrutture nazionali alla Germania. Il tempo dirà cosa accadrà prima, ma la mia idea è che la signora Merkel al momento sia così impopolare in Germania che possa tutto iniziare lì". 

Il Target 2 sposta anche un carico fiscale dal settore privato ai contribuenti (ove la banca centrale non abbia azionisti privati come in Italia, nda). Ciò è incoerente, ad esempio, con il sistema di bail-in per la risoluzione delle banche. Come si spiega questa incoerenza? La Ue sta cercando di evitare soluzioni che risultino troppo esplicite agli occhi dei contribuenti nordeuropei?

"Il vero problema di fondo è che l'intero "progetto europeo" è diventato troppo complesso perché chiunque capisca cosa sta succedendo. Si aggiunga che il progetto è architettato da burocrati di Bruxelles che vedono il loro ruolo come l'aggiustamento di parti differenti del sistema quando le cose vanno male. Sono assorbiti dal dettaglio e nessuno guarda al quadro generale. Il risultato è un sistema pieno di incoerenze. Ma ciò dà agli eurocrati un'altra possibilità di sognare nuovi meccanismi o sistemi di affrontarli, che vengono anche usati come nuove opportunità per concentrare più potere a Bruxelles. Non dovremmo mai scordare che è questo il vero significato di una "unione più stretta".  

"A voler essere onesti con gli architetti dell'Eurozona, il Target 2 fu studiato nel 1999 per essere un semplice sistema di pagamenti transfrontalieri, prevedendo che i flussi netti tra Stati membri si equilibrassero ogni pochi mesi. E ciò è quello che è successo all'inizio. Poi, con la crisi finanziaria, le cose iniziarono ad andare male in maniere che non potevano essere previsti dagli iniziali ideatori del Target 2, i quali anche ora ritengono non vi sia nulla di sbagliato, dicono che sta funzionando come previsto Ma ciò è vero solo finché i debiti del Target 2 sono utilizzati a scopo contabile come debiti sovrani a rischio zero che non dovranno mai essere rimborsati".

"In seguito alla crisi del debito sovrano iniziata nel 2011, anche gli eurocrati si sono resi conto che il target 2 stava venendo sfruttato da banche, aziende e individui ricchi. Nel tentativo di affrontare l'azzardo morale di banche che offrono prestiti facili a compagnie ad alto rischio insolvenza scaricando poi il rischio tramite il Target 2, hanno introdotto il sistema di bail-in per la risoluzione delle banche. Ciò non è incoerente solo con il Target 2, i governi possono facilmente aggirare il bail-in, come accaduto con Veneto Banca e Banca Popolare di Vicenza nel giugno 2017. Non vi fu ricorso alla direttiva sul bail-in, che avrebbe coinvolto le obbligazioni senior e i depositi non garantiti e comportato lo smantellamento delle banche in procedure di insolvenza a livello nazionale. La decisione di non ricorrere al bail-in fu presa sulla base del fatto che non sarebbe stata nel pubblico interesse. La direttiva fu disapplicata dal Comitato di Risoluzione Unico argomentando che "nessuna delle banche assolve a funzioni critiche e il loro fallimento non si prevede abbia un significativo impatto avverso sulla stabilità finanziaria". E, di conseguenza, è stata applicata la legge nazionale italiana, che non prevedeva l'applicazione del bail-in ad almeno l'8% del passivo".

"Quindi non è tanto la Ue che sta cercando di evitare soluzioni troppo esplicite agli occhi dei contribuenti nordeuropei. È più che gli eurocrati amano tutta questa complessità aggiuntiva, giacché consente loro di guadagnare più potere. Sono sicuro che siano sinceramente convinti che ciò che stanno facendo sia nell'interesse di lungo termine di tutti i cittadini Ue ma sistemi troppo complessi alla fine collassano inevitabilmente e ciò non è nell'interesse di alcun cittadino europeo". 

Un'altra incoerenza è il disincentivo che il Target 2 rappresenta per le riforme strutturali nei Paesi più inefficienti, ovvero ciò di cui l'ex ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schauble, e il governatore della Bundesbank, Jens Weidmann, hanno sempre accusato la politica monetaria di Draghi. Sembra che il Target 2 faccia tutto quello di cui l'Eurozona ha bisogno per sopravvivere ma che le autorità tedesche non possono far sapere agli elettori. C'è stata quindi una logica politica riguardo la "congiura del silenzio" sul Target 2, diventato solo ora argomento di discussione in Germania?

"Questa è probabilmente la maggiore singola debolezza del progetto dell'Euro: la convinzione che gli inefficienti Stati meridionali sarebbero diventati alla fine efficienti quanto la Germania. Non essendo più in grado di svalutare per rendere le loro esportazioni più competitive, essi sarebbero stati costretti ad aumentare la loro produttività investendo in capitale fisico e umano. Ma ciò non è avvenuto". 

"Gli Stati del Sud, come il Portogallo, hanno aumentato i salari del 30% nel confronto con la Germania e non c'è stato un aumento proporzionale della produttività. Inizialmente tutti in Portogallo pensavano che l'Eurozona fosse un 'albero magico dei soldi'. Ma il risultato inevitabile è stato un enorme aumento della disoccupazione in Portogallo, soprattutto tra i giovani, molti dei quali si sono trasferiti in altre parti dell'Ue, o addirittura in Brasile per cercare lavoro. E ora che l'economia brasiliana è in difficoltà, gli emigrati portoghesi devono tornare a casa, con poche possibilità di trovare un lavoro. Ma resta il fatto che i ministri delle Finanze tedeschi continuano ad aspettarsi che il resto dell'Eurozona raggiunga i livelli di produttività della Germania. E questa è un'altra incoerenza con la realtà dei fatti".

Colpisce davvero come l'Eurozona non fosse attrezzata per affrontare la crisi del debito. Ciò rafforza la sua idea che la crisi sia stata provocata per accelerare l'integrazione? Sembra che la profezia di Milton Friedman, secondo il quale un euro senza gli adeguati meccanismi di compensazione avrebbe causato la fine della Ue, sia rimasta inascoltata.

"Il Target 2 non fa che nascondere il fatto che l'Eurozona non è e non potrà mai essere un'Area Valutaria Ottimale e Milton Friedman lo sapeva sin dall'inizio. Disse che l'euro avrebbe funzionato, ma solo fino alla prima crisi. Ed è venuto fuori che aveva ragione".

"Ciò però non preoccupa quelli di Bruxelles. Loro credono che ci possa volere un secolo o più perché l'Eurozona diventi una vera Area Valutaria Ottimale, così come ci volle un secolo perché il dollaro fosse accettato da tutti gli Stati degli Usa. E non importa quante crisi ci vogliano perché ciò accada. Jean Monnet, uno dei padri fondatori della Ue, riteneva davvero che le crisi avrebbero aiutato ad accelerare il processo: 'Ho sempre ritenuto che l'Europa sarebbe stata costruita attraverso le crisi e che sarebbe stata la somma delle loro soluzioni. Ma le soluzioni devono essere proposte e applicate'. Monnet riteneva che le crisi economiche avrebbero dovuto essere benvenute come opportunità per portare gli Stati Europei ad avvicinarsi, cedere sovranità e muoversi per gradi verso un'Europa federale. Scrisse a un amico nel 1952: 'Le nazioni europee dovrebbero essere guidate verso il Superstato senza che i loro popoli capiscano cosa stia accadendo. Ciò può essere ottenuto con tappe successive, ognuna camuffata come necessaria a un obiettivo economico, che portino però – alla fine e in modo irreversibile – a una federazione'. Con approcci simili, chi mai ascolterà Milton Friedman?".

Perché la Bce ha apparentemente ignorato per tanto tempo la vera natura del Target 2? Sembra che non fosse mai stato discusso perché sarebbe stato tabù affrontare le sue reali implicazioni.

"Il modo più generoso di vederla è ritenere che le persone nominate alla guida della Bce semplicemente non accettassero che ci fosse qualcosa di sbagliato nell'Eurozona o nel Target 2. Tutto sta funzionando come previsto. I debiti del Target 2 sono a rischio zero finché ogni Stato rimane nell'Eurozona, quindi dov'è il problema? L'Eurozona e la Ue stessa hanno assunto lo stato di una fede religiosa, e quindi sono entrambi senza difetti e immuni alla critica". 

La crescita dei partiti nazionalisti rende una "unione ancora più stretta" improbabile nel breve termine. Crede che sia razionale discutere una maniera per consentire agli Stati di uscire dall'euro o gli squilibri del Target 2 rendono un simile scenario ancora più improbabile?

"La crescita dei partiti nazionalisti e populisti sta evidentemente preoccupando Bruxelles. Ma, come ha scoperto la Grecia, gli architetti dell'Eurozona hanno assicurato in modo efficace che un membro in deficit non possa lasciare l'Eurozona senza pagare appieno i suoi debiti Target 2, non può semplicemente andarsene. Se ci provasse, gli sarebbe negato il credito dell'Emergency Liquidity Assistance della Bce e il suo sistema bancario si bloccherebbe subito".

"Inoltre i debiti dell'Eurozona sono denominati in euro, che diventerebbe una valuta straniera se un membro lasciasse. Ogni nuova valuta che il Paese introducesse all'inizio si svaluterebbe in modo significativo, aumentando ulteriormente il valore interno dei debiti nei confronti degli altri membri dell'Eurozona. Anche con l'elezione di un partito di sinistra radicale come Syriza, la Grecia non ha lasciato l'Eurozona. Quando Alexis Tsipras si ritrovò faccia a faccia con Jean-Claude Juncker, cedette per primo, nonostante il suo Paese abbia perso un quarto del suo Pil a causa della sua disastrosa partecipazione all'Eurozona. Yanis Varoufakis, l'ex ministro delle Finanze del governo di Syrizia, aveva avvertito per mesi che le autorità della Ue – e per esteso dell'Eurozona – la ritengono come l'Hotel California, dove puoi fare il check out ma non puoi andartene mai".

"L'unica discussione razionale dovrebbe quindi arrivare da un Paese con un grosso surplus, come la Germania, che dovrebbe riconoscere che l'Eurozona, con i suoi tassi di cambio fissi, non sta funzionando e che occorre introdurre un sistema più flessibile. Joseph Stiglitz, un altro Nobel per l'economia, è abbastanza ottimista da ritenere che un'euro flessibile, come uno del Nord e uno del Sud, possa salvare il progetto della moneta unica. Ma non riesco a immaginare che questa discussione avvenga per due motivi: in primo luogo il 'progetto europeo' è il cuore esistenziale della Germania postbellica; in secondo luogo i burocrati di Bruxelles sono molto pazienti e non consentiranno a una 'piccola difficoltà locale', come Syriza o il Movimento 5 Stelle, di interrompere i loro piani di lungo periodo. C'è solo una direzione verso la quale andare una volta entrati nell'euro, ed è quella di un'unione sempre più stretta".

Nell'ipotesi di un Paese che vada in default sui debiti Target 2 dopo essere uscito dall'euro, il debito non pagato alla fine sarebbe accollato alla Bce o alle banche nazionali dei Paesi creditori?

"Ora, a dispetto di quanto ho detto in replica a una domanda precedente, è ovviamente possibile, per quanto molto improbabile, che uno Stato membro decida di fare come l'Argentina e semplicemente non pagare i debiti. Il debito non pagato ricadrebbe quindi sulle banche nazionali dei Paesi creditori in proporzione alla loro quota di capitale nella Bce".

Lei ritiene che ci siano solo due possibili sbocchi per l'Eurozona: un'unione politica o uno smantellamento. Per quanto tempo il Target 2 consentirà all'Europa di guadagnare tempo, ora che il 'Qe' sta terminando?

"Credo che il primo sbocco sia più probabile del secondo. In primo luogo, per l'esperienza della Brexit. Ogni volta che i ministri britannici si recano in una capitale per discutere le future relazioni commerciali con la Ue, vengono rediretti a Bruxelles; i leader nazionali hanno seguito le istruzioni di Michel Barnier e si sono rifiutati del tutto di trattare. Varoufakis ha raccontato che è esattamente ciò che è accaduto a lui quando ha cercato di spuntare un accordo migliore per la Grecia. Ciò indica non solo che gli Stati membri dell'Eurozona non hanno per conto loro il coraggio di lasciare l'Eurozona ma, cosa più importante, hanno consentito a Bruxelles di assumere il vero controllo della Ue. In secondo luogo, anche se un membro dell'Eurozona lasciasse l'unione monetaria, non gli sarebbe consentito di restare nella Ue. Quindi non riesco a vedere nessun Paese seguire il Regno Unito fuori dalla Ue".

"Ciò che credo avverrà e ciò che è accaduto alla Grecia. I debiti Target 2 dell'Italia e della Spagna nei confronti della Germania verranno ridotti una volta che la Germania rileverà loro beni nazionali per 900 miliardi. La gente potrà lamentarsi ma non ci sarà alternativa. E, mentre ciò accadrà, la politica fiscale sarà trasferita a Bruxelles e quella creditizia a Francoforte. Jean-Claude Juncker lo ha detto chiaro nel suo discorso sullo Stato dell'Unione: vuole una singola presidenza europea, una politica estera unitaria e un unico esercito entro il 2025. La mia idea è che avremo degli 'Stati Uniti d'Europa' tra il 2030 e il 2040. Al più tardi nel 2051, il centesimo anniversario della prima istituzione europea la Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio. Questa traiettoria è ora irreversibile.

"Il risultato è però tutt'altro che stabile Degli Stati Uniti d'Europa stabili richiederanno trasferimenti fiscali dalle regioni in surplus a quelle in deficit come avviene in uno stato unitario, come il Regno Unito. Eppure la Germania continua a rifiutare di far parte di un'unione dei trasferimenti. Gli squilibri del Target 2 non andranno via. Cosa accadrà se non ci saranno più beni nazionali da comprare per le regioni in surplus? Senza trasferimenti fiscali, l'economia delle regioni in deficit sarà in uno stato di recessione permanente: per quanto i loro cittadini lo tollereranno? Cosa accadrà se nessuno dei nuovi 'meccanismi' e 'sistemi' progettati dagli eurocrati per provvedere a ciò funzionerà? Come ho detto prima, quasi tutti i sistemi troppo complessi alla fine collassano. Speriamo che questa volta vada diversamente". 

@CiccioRusso_Agi

 

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Quali compiti svolge il Governatore della Banca d’Italia e chi può diventarlo

Il primo novembre scadrà il mandato di Governatore della Banca d'Italia di Ignazio Visco. Sul nome del prossimo numero uno di Bankitalia è già in atto una nutrita querelle politica. Scrive il Corriere della Sera: “Il Pd all’attacco del governatore Bankitalia. Ora la battaglia — non è una novità l’avversione di Matteo Renzi nei confronti del «numero uno» di via Nazionale il cui mandato scade a fine mese — si sposta in Aula alla Camera. L'Aula di Montecitorio ha approvato la mozione del Pd sulle iniziative di competenza del governo in merito alla nomina del Governatore della Banca d'Italia, come riformulato su richiesta del governo. I voti a favore del documento di indirizzo sono stati 213, 97 i contrari, 99 le astensioni. Ad astenersi sono stati i deputati di Fi e Mdp; contro si sono invece espressi quelli di Si, M5S e Fdi. Tutte respinte le altre mozioni, a partire da quella di M5S, che miravano direttamente a impegnare il governo a non confermare il governatore uscente Ignazio Visco alla guida di Bankitalia". Ma cosa fa un Governatore della Banca d'Italia? E che poteri ha?

Cosa fa il Governatore, chi può diventarlo

Il Governatore della Banca d'Italia presiede l'assemblea dei partecipanti e ha il compito di garantire il rispetto di leggi, regolamenti e statuto, far eseguire le deliberazioni del Consiglio superiore cui può avanzare ogni proposta che giudichi utile alla Banca e sovrintendere l'amministrazione centrale e gli stabilimenti periferici. Dispone, sentito il direttorio, le nomine, le promozioni, le assegnazioni, i trasferimenti e gli incarichi del personale di grado superiore. Deve essere cittadino italiano, non può appartenere ad altri istituti di credito né essere parlamentare né ricoprire altra carica politica. 

Prima era un incarico 'a vita', ora è stato ridimensionato

Fino al 2005 la carica di governatore era a vita, proprio per sottolinearne la totale autonomia nei confronti del Governo, poi il suo ruolo è stato ridimensionato. La riforma fu decisa dopo lo scandalo di "Bancopoli" che portoò alle dimissioni di Antonio Fazio. Ora l'incarico dura sei anni ed è rinnovabile una sola volta. La nomina è disposta con decreto del presidente della Repubblica, su proposta del presidente del Consiglio, previa deliberazione del consiglio dei Ministri, sentito il parere del Consiglio superiore della Banca d'Italia. Lo stesso procedimento si applica anche per la revoca. 

Chi ha governato la Banca d'Italia finora

Sebbene la Banca d'Italia sia stata fondata nel 1893, la carica di governatore è stata istituita soltanto nel 1928. In precedenza le sue funzioni erano assegnate al direttore generale. Da allora sono i dieci i governatori a essersi succeduti alla guida di Palazzo Koch:

  • Bonaldo Stringher (1928-1930),
  • Vincenzo Azzollini (1931-1944),
  • Luigi Einaudi (1945-1948),
  • Donato Menichella (1948-1960),
  • Guido Carli (1960-1975),
  • Paolo Baffi (1975-1979),
  • Carlo Azeglio Ciampi (1979-1993),
  • Antonio Fazio (1993-2005),
  • Mario Draghi (2005-2011),
  • Ignazio Visco (2011-).

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“La politica non può più pensare alle startup come ammortizzatori sociali”

Loro Macron, noi micron. Sarebbe il titolo perfetto per raccontare la distanza tra noi e la Francia in tema di startup. Su Agi.it Riccardo Luna ha scritto questo post "Startup, sveglia Italia! Siamo fermi al palo". La nostra è una vera "Emergenza Innovazione", che da oggi proviamo a indagare, coinvolgendo i massimi esperti sull'argomento. Ma ci piacerebbe coinvolgere tutti, anche quelli che massimi esperti non sono. Se volete contribuire scriveteci qui: dir@agi.it A presto.

"Il venture? Un passatempo. La politica smetta di guardare alle startup come ammortizzatore sociale, non può essere così". Renato Gianlombardo è un'avvocato milanese. Di recente ha costituito un gruppo di lavoro specializzato nel venture capital (GOP4 Venture), e si occupa di raccolta di capitali, assistenza agli imprenditori, ai centri di ricerca. Ha commentato ad Agi i risultati sugli investimenti italiani nel primo semestre. 

 

Sono stati 75 milioni nel primo semestre gli investimenti in startup primo calo del 13% dopo 3 anni. Che succede? 
“Succede che il settore del venture capital non è ancora stato preso sul serio. Schiacciato da una cultura bancaria che finanzia l’impresa con un solido track record o con solide garanzie e dal fatto che gli operatori finanziari non sono interessati alle micro-operazioni. E nel settore l’operazione di maggior valore del 2016 è stata di 7 milioni di euro. Insignificante per il mondo della finanza. Inoltre, l’interesse degli operatori con grandi disponibilità finanziarie è assente e spesso è un passatempo per coloro che operano da business angels. 

Un passatempo? 
“E’ un po’ come giocare al casino. Il settore finanziariamente è del tutto irrilevante. Quanto all’intervento pubblico, dopo alcune iniziative, invero molto limitate nell’ammontare messo a disposizione del settore, il flusso di investimenti in fondi si è fermato e le risorse dei venture capital si stanno prosciugando”.

Si parla molto di startup come volano per la crescita economica, ma serve a poco. Quali sono le cause secondo lei? 
“Una seria politica sulle startup e sull’innovazione richiede misure ed incentivi che insistano per un lungo periodo di tempo sia sui sistemi principali che a livello di sottosistema. Gli operatori e gli investitori li devono conoscere, ne devono apprezzare i benefici e si devono fidare che non vengano rimessi in discussione l’anno successivo. Nel Regno Unito ci sono voluti vent’anni. Le startup immettono nella nostra società una nuova cultura d’impresa che è indiscutibilmente parte integrante del terzo millennio. Piuttosto bisogna capire cosa si sa fare senza inseguire illusioni o immaginare di avere un ruolo dove invece ci sono già giganti planetari”. 

Ci fa un esempio di "illusione"?
“E il caso dell’ICT dove largamente importiamo idee che spesso non sono innovative ma comunque utili ad un aggiornamento del livello dei servizi del nostro Paese. Credo invece che si possa giocare un ruolo nel settore degli spin off di ricerca. Purché si avvii in tempi rapidi un processo di riforma normativa, disinnescando il conflitto di interesse che condiziona lo spin off accademico”. 

Quale conflitto di interesse? 
“Mi spiego. Vanno rese autonome le unità di valorizzazione della ricerca in modo che i migliori brevetti siano disponibili per il mercato degli investitori in tempi compatibili con le loro aspettative. Oggi invece il processo di valorizzazione è lento è troppo spesso sottoposto a logiche accademiche allineate più alla ricerca di base che alla creazione di un’impresa. Insomma nella nostra università si coltivano ancora principalmente due o tre cose: il sogno di concorrere per il Nobel, il posto fisso del ricercatore e, in qualche caso,  anche l’esigenza di finanziare le proprie cattedre. Comprende che con questi presupposti il mercato degli spin off è assolutamente incapace di esprimere le potenzialità pur rilevanti che possiede. Sono stato recentemente in Silicon Beach nel sud della California dove stanno implementando un modello di startup che valorizza le vocazioni culturali e imprenditoriali, sociali di quel territorio: gaming, entertainment, social media company. Ecco questo può essere un modello. Evitare di inseguire i fasti della Silicon Valley e concentrarsi sulle proprie competenze e sulle vocazioni del proprio territorio”.

Come mai è così difficile trovare investitori per sviluppare un'infrastruttura di venture capital adeguata al mercato italiano?
“I capitali viaggiano insieme alla credibilità di chi li usa. Se non abbiamo un ecosistema che dimostra di avere le idee chiare non avremo investitori che affideranno le proprie risorse al sistema Italia. La comunità del venture capital si è fino ad oggi sviluppata essenzialmente tramite attività pro-bono, di soggetti visionari che hanno immaginato di poter supportare gli startupper agendo come menthor, tutor, incubatori, angels, legali, advisor finanziari. Quanto all’intervento pubblico abbiamo forse la legge sulle startup più avanzata in Europa, crowdfunding incluso. Ciononostante non riusciamo ad essere attrattivi. Questa è la prova il pubblico può essere una condizione necessaria ma non sufficiente. Anzi questa tipologia di intrvento può essere controproducente se comincia a giocare la partita in concorrenza con i venture capital o con gli altri operatori finanziari. Comunque a mio parere le difficoltà sono analoghe a quelle che vedono l’Italia in difficoltà nell’attrazione degli investimenti. Con un’aggravante. Il nostro Paese negli ultimi vent’anni non è mai stato percepito come una start up nation neanche in Italia”.

Molti lamentano l'assenza di investitori istituzionali, è vero? 
“Ci sono. Ma dobbiamo intenderci altrimenti generiamo confusione. Questi, sono investitori che impiegano le loro risorse in funzione degli scopi istituzionali dell’ente. E’ di tutta evidenza come ci sia una differenza tra gli investimenti di una banca e gli investimenti di una cassa di previdenza o di un fondo pensione. Se non si comprende che la prima tende a generare profitto per i propri azionisti e i secondi mirano a mantenere il capitale per pagare le pensioni non abbiamo chiaro il quadro di riferimento”. 

C'è un'idea che comincia a diffondersi: le startup italiane non valgono molto, sono scarse. Quanto c'è di vero? 
"Una startup può valere poco, molto o anche nulla. Dipende da vari fattori e dagli obiettivi che ci si propone. Se si immagina di investire ogni volta in una potenziale Google, allora le startup italiane valgono quasi tutte nulla, ma se si immagina di farle fare un dignitoso percorso imprenditoriale con politiche di marketing corrette e una visione imprenditoriale adatta al nostro mercato con una proiezione internazionale, ove possibile, allora può valere il giusto o anche molto rispetto al capitale iniziale. Il dato culturale più complicato da superare nel nostro Paese è l’insuccesso”. 

Ovvero?
“Chi ha insuccesso è bannato, messo fuori gioco, isolato. Mentre, il fallimento è un elemento naturale delle startup. Tutte le classifiche o i report non parlano mai di quante start up sono fallite e di cosa hanno fatto i founders nell’esperienza successiva. Questo sarebbe il dato più significativo anche per esorcizzare la paura del fallimento e credo sia anche utile per poter investire proprio su coloro che hanno imparato di più dagli errori. Una frase celebre recita: non perdo mai, o vinco o imparo”.

Piccola sintesi: cosa manca secondo lei all’Italia? 
“Abbiamo detto che la legislazione e all’avanguardia e la politica fiscale può essere una leva ma non sarà il motivo principale per il quale investire. Parlare di barriere culturali in questo Paese è come parlare di frigoriferi al polo nord. Il resto non ha un valore rilevante. Io penso invece che ci siano alcune cose da fare o evitare. La politica deve evitare di immaginare che le startup siano un ammortizzatore sociale ed evitare di creare ecosistemi in modo randomico. Ci sono due poli che si stanno cominciando lentamente ad affermare Roma e Milano".

Milano ok, ma anche Roma? 
“Certo. Roma comincia ad essere attraente per startup e investitori e mentre Milano esercita la sua vocazione finanziaria. Si pensi che a fronte della quasi totale presenza di venture capital sulla piazza di Milano, nel 2016 nel Lazio si sono realizzati 16 investimenti in start up mentre in Lombardia solo 30. Quindi si tratta di puntare e qualificare e far conoscere l’offerta di start up. Per invertire la tendenza bisogna offrire un prodotto di elevata qualità sia sul piano tecnologico o innovativo sia sul piano delle risorse e del capitale umano disponibile. Inoltre penso che si debba decisamente puntare sugli spin off accademici o di ricerca. Nel 2016 si sono registrati 92 deals per un ammontare complessivo di 200 milioni, l’85% dei quali sono private enterprises, il 5% corporate venture e il 10% university spin off. Abbiamo settori di grande valore nei quali dovremmo cominciare a specializzarci e farci conoscere a livello internazionale e nei quali l’università e i centri di ricerca possono dare un contributo essenziale. Cito i settori a maggior crescita nel 2016 (ICT escluso): filiera della salute, alimentazione, robotica e meccatronica, turismo”.   

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Perché sugli affitti ai turisti il modello Genova può fare scuola

Airbnb e la città di Genova hanno siglato un accordo per l’applicazione, la riscossione e il versamento dell'imposta di soggiorno per conto dei 1100 proprietari di case presenti sulla piattaforma di home sharing nel capoluogo ligure. L’intesa, stipulata venerdì, fa di Genova la prima città in Italia e una delle oltre 300 nel mondo in cui Airbnb gestisce in maniera semplificata la riscossione e il versamento delle imposte. Accordi simili, infatti, sono già in vigore da anni, infatti, a Parigi, Lisbona, Amsterdam e in altre 275 amministrazioni, un sistema che ha permesso di raccogliere oltre 240 milioni di dollari. A partire dal prossimo primo agosto, Airbnb procederà automaticamente a riscuotere l’imposta di soggiorno per conto degli host al momento della prenotazione. 

“Genova è nota per essere una città con uno sguardo sempre volto al futuro e siamo orgogliosi di continuare il nostro impegno atto a venire incontro ai cittadini, semplificando processi complessi, e ad aiutare le autorità competenti a ricevere quest’importante risorsa finanziaria", ha commentato Chris Lehane, Head of Global Policy and Public Affairs di Airbnb . L'intesa "è il capitolo più recente del nostro rapporto con l’intera Regione Liguria, dove abbiamo supportato 64.000 ospiti in viaggio a Genova, generando un impatto economico nella città di oltre 32,7 milioni di Euro", ha continuato. 

 “Questo accordo – gli ha fatto eco l'assessore al turismo della città ligure, Carla Sibilla – è il risultato di un lungo lavoro portato avanti dall’Amministrazione civica e permetterà di regolamentare un settore rilevante della ricettività cittadina; basti pensare che la piattaforma Airbnb conta nella sola città di Genova circa 4 mila posti letto. Le risorse che arriveranno saranno utilizzate per la promozione della nostra città, che sempre più afferma la sua forte potenzialità turistica. Genova costituisce oggi un modello positivo per aver individuato, assieme ad Airbnb, un sistema semplificato ed efficace di gestione dell’Imposta di Soggiorno attraverso la piattaforma; questo percorso può rappresentare un indirizzo per la legislazione nazionale e una buona pratica per tante città italiane ed europee, favorendo un sistema di sviluppo turistico sostenibile dal punto di vista sociale ed economico.

Cosa prevede l'accordo nel dettaglio

Ogni ospite che effettuerà una prenotazione dopo il primo agosto troverà una nuova di costo per l'imposta di soggiorno che, nel caso di Genova, equivale a 1 euro al giorno per i primi 8 giorni di pernottamento. Tale importo comprende la tassa di soggiorno imposta dalla città e l’imposta del distretto amministrativo, se applicata. L’imposta si aggiungerà all’importo totale del soggiorno pagato dagli ospiti e sarà trasferita al Comune di Genova direttamente da Airbnb. L’host non dovrà più calcolare quanto dovuto per ogni prenotazione individuale o trasferirla al Comune, relativamente alle prenotazioni effettuate sulla piattaforma.

L'insegnamento di Genova

“L’accordo a Genova è un esempio di come Airbnb e le autorità dovrebbero collaborare. Con più di 300 amministrazioni partner fiscali nel mondo, abbiamo imparato come possiamo collaborare al meglio con le istituzioni per mettere in azione un approccio che raggiunga gli obiettivi del paese. Ci impegniamo a lavorare in modo affidabile con i governi e siamo felici di continuare il dialogo con le amministrazioni di Firenze e Milano”, ha aggiunto Lehane. 
 
Leggi qui l'analisi dell'Università di Siena sulla sharing economy nel settore abitativo.

La tassa di soggiorno, l'alternativa di Airbnb alla "Manovrina"

Quella della tassa di soggiorno è una delle proposte che Airbnb Italia ha lanciato al governo italiano per trovare un punto di incontro sul campo di battaglia della cosiddetta Manovrina, la quale contiene l'emendamento in vigore dallo scorso 1 giugno che prevede il pagamento di una cedolare secca al 21% per tutti gli affitti brevi. Ma soprattutto chiede a piattaforme come quella di Airbnb di comportarsi come sostituti di imposta, con l'obbligo nel caso del colosso dell'home sharing, di avere la residenza fiscale in Italia, anziché in Irlanda, come ora. "Chiederci di comportarci come sostituti di imposta rappresenterebbe un'anomalia a livello mondiale", aveva detto giorni fa all'Agi Matteo Stifanelli, Country manager per l'Italia di Airbnb. "Vogliamo pagare le tasse e semplificare le operazioni al Fisco, ma non possiamo operare come sostituti d'imposta", aveva spiegato Stifanelli. Tra le controproposte c'era quella della tassa di soggiorno: "In diverse città, prime fra tutti Parigi, versiamo una tassa di soggiorno al comune. In pratica anziché farla versare all'host, lo facciamo noi. E sulla scia di questo esempio, avevamo proposto di dare mandato all’Agenzia delle Entrate per stipulare accordi direttamente con gli operativi (quindi con noi) per trovare una soluzione in cui non figuriamo però come sostituti di imposta". Ma l'intesa non c'è stata. "Se la legge rimane questa siamo pronti a fare ricorso e ad aprire un contenzioso con lo Stato per tutelare i diritti dei nostri host", aveva annunciato Stifanelli. 
 
Leggi qui la 'minaccia' di Airbnb sul ricorso contro lo Stato.
Leggi qui il commento del direttore dell'Agi Riccardo Luna sul tema della web tax per i colossi del Web.

I numeri di Airbnb a Genova

Il mese scorso, Airbnb ha pubblicato il valore economico del giro d’affari generato dalla sua attività in Italia nel 2016, che ammonta a circa 4,1 miliardi di euro.

 I dati regionali sulla comunità genovese raccontano invece che nel 2016: 950 host hanno avuto ospiti in casa. Oggi sono 1.100.

  • Ci sono stati 57.000 ospiti in arrivo – un 70% in più rispetto al 2015. Il dato cresce prendendo in esame gli ultimi 12 mesi (da giugno 2016 a giugno 2017), con 64.000 arrivi;
  • L’host tipo ha messo a disposizione il proprio spazio per 39 notti – meno di un giorno a settimana – guadagnando 2.700 Euro;
  • La grande maggioranza (84%) degli ospiti veniva dall’Europa, e uno su 10 dal Nord America;
  • In media, il soggiorno degli ospiti è stato di 3 notti. 

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