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 La guerra in Ucraina potrebbe cambiare per sempre l’agricoltura italiana

AGI – La guerra in corso in Ucraina potrebbe provocare conseguenze a lungo termine per l’agricoltura italiana. A spiegarlo all’AGI è il presidente della Coldiretti, Ettore Prandini, intervenuto a LetExpo, la fiera del trasporto e della logistica sostenibile a Verona.

“Per anni – sottolinea Prandini – abbiamo avuto un sistema europeo spinto dalla logica della globalizzazione accelerata, che ci ha fatto puntare spesso sulla delocalizzazione di produzioni e aziende. Una logica sbagliata e fallimentare. In Europa abbiamo avuto dei sostegni contributivi erogati quando le imprese non producevano”.

Adesso, con la guerra scatenata dalla Russia, “capiamo l’importanza di essere aperti ma senza delocalizzare risorse e settori strategici”. Insomma, secondo Prandini, “l’Italia deve puntare ad aumentare la sua autosufficienza produttiva”.

La guerra tra Mosca e Kiev penalizza le filiere di grano e mais, ma non per quello che si pensa. “Da questi due Paesi – sottolinea il presidente della Coldiretti – importiamo il 5% di grano tenero e il 18-20% di mais. Sugli aumenti di pasta e pane il vero problema non è il grano, ma il boom del costo energetico, che impatta anche sul settore dei fertilizzanti, dove Russia e Ucraina sono tra i maggiori produttori al mondo”.

In questo campo “gli aumenti dei concimi chimici sono già superiori al 180%. E c’è un rischio approvvigionamento“. E poi “è vero che importiamo poco in termini percentuali sul grano tenero da Russia e Ucraina, ma sono il terzo produttore mondiale quindi la situazione va a incidere su altri mercati e, di riflesso, sul nostro”.

Dallo sblocco dei terreni agricoli ‘a riposo’, decisa dall’Ue, Coldiretti ha “stimato che si può recuperare un milione di ettari di superficie, su 12 milioni totali di terre coltivabili”. Poi creando “dei bacini di accumulo dell’acqua, nell’arco di 6-7 anni possiamo pensare di arrivare a una buona autosufficienza dall’estero”. Ora, conclude Prandini, “bisogna sfruttare il Pnrr” e “incentivare la capacità produttiva, investendo su temi come digitalizzazione, agricoltura di precisione, cisgenetica e Nbt”. 


 La guerra in Ucraina potrebbe cambiare per sempre l’agricoltura italiana

Che cosa è una ripresa a forma di V e perché potrebbe non essere un’illusione

A maggio il mercato del lavoro Usa ha subito una brusca e positiva impennata. E una ripresa a ‘V’ dell’economia, che fino a ieri sembrava una chimera, è tornata in auge.

L’economia degli Stati Uniti, che ad aprile aveva bruciato ben 20,5 milioni di posti, a maggio ne ha creati, a sorpresa, 2,5 milioni. Anche il tasso di disoccupazione, dal 14,7% di aprile è tornato a diminuire segnando un benaugurante 13,3%, contro un atteso crollo al 19,8%.

A Wall Street il Dow Jones ha brindato con un rialzo di oltre il 3% e Donald Trump ha esultato: “Dati incredibili, la pandemia è superata”, ha subito twittato. E chi pronosticava una ripresa a forma di V – un brusco calo dell’attività seguito da un rapido e drastico rialzo – ha ripreso fiato, dopo essere stato considerato fino ai dati sull’occupazione di ieri, decisamente poco credibile.

Le ipotesi di ripresa a ‘U’, a ‘W’ e a ‘Swoosh’ 

Il dibattito sulla forma della ripresa economica negli Usa da tempo ha contrapposto economisti ed esperti, dopo lo stop delle attività dovuto al lockdown e alla chiusura delle fabbriche, dei negozi e dei servizi. Fino a ieri negli Usa la curva a V era considerata la più improbabile.

Quella a U, che prevedeva alcuni mesi di crisi prima della ripresa, era la più gettonata e la più auspicata.

Quella a W, cioé una ripresa interrotta da una seconda ondata di pandemia, era una delle ipotesi più temute, peggio della quale c’era solo la possibilità di un scenario a L, in cui non si vede un’uscita dal tunnel e quello di una curva che non è descritta da una lettera dell’alfabeto, ma dallo ‘Swoosh’, il simbolo del marchio Nike, il cosiddetto ‘fruscio’, che prevede una caduta, seguita da una ripresa, ma con una crescita lenta e tanto tempo per tornare al livello pre-crisi.

Perché la ripresa a ‘V’ è tornata in auge 

I dati di ieri sul mercato del lavoro Usa, migliori del previsto, hanno ridato coraggio a quelli che tifavano per una ripresa a V. “Questi miglioramenti nel mercato del lavoro riflettono una ripresa limitata dell’attività economica che era stata ridotta a marzo e ad aprile a causa della pandemia di coronavirus e degli sforzi per contenerla”, si legge nel commento del dipartimento al Lavoro che ha diffuso il rapporto, ricordando che l’economia Usa ha perso 22,1 milioni di posti di lavoro tra marzo e aprile ma ha riguadagnato 2,5 milioni a maggio.

Secondo gli esperti, la spiegazione di questo rimbalzo è legata al fatto molte imprese nelle grandi città Usa sono state riaperte o avevano intenzione di riaprire a metà maggio e dunque hanno ricominciato ad assumere. Tuttavia, come ha notato il Wall Street Journal, dopo il 25 maggio, e cioé dopo la morte di George Floyd, a causa delle proteste e dei saccheggi avvenuti diverse aziende hanno richiuso e ciò potrebbe ritardare di giorni o settimane le loro riaperture, causando un altro ciclo di perdite di posti di lavoro.

La gente ricomincia a viaggiare

Tuttavia i dati sul lavoro non sono i soli che vanno presi in considerazione. I dati sulla mobilità di Apple hanno mostrato che le richieste di indicazioni stradali per guidare e camminare sono quasi tornate ai livelli pre-pandemici dal primo giugno. 

Inoltre c’è stato un aumento della domanda di viaggi, che si è estesa anche ai voli, con le principali compagnie aeree che hanno annunciato questa settimana che stanno ripristinando alcuni dei i voli che avevano sospeso a causa della pandemia.

Il prezzo del petrolio sta risalendo

Il prezzo del petrolio, sulla scia dei dati Usa, ha segnato una netta V, anche grazie alla notizia che i Paesi produttori hanno fissato per oggi l’incontro per decidere l’estensione dei tagli produttivi.

Un’astronave o un’illusione?

I mercati azionari hanno brindato ai dati sull’occupazione Usa, continuando a salire, ma questo non è detto che sia per forza un segnale che va verso una ripresa a V dell’economia. 

Come ha notato il noto commentatore televisivo, Jim Cramer, conduttore della trasmissione economica “Mad Money” sulla Cnbc, “la pandemia di coronavirus ha prodotto uno dei maggiori trasferimenti di ricchezza nella storia… questa è la prima recessione che il grande business sta attraversando praticamente incolume… Penso che stiamo osservando una ripresa a forma di V nel mercato azionario, che non ha quasi nulla a che fare con una ripresa a forma di V nell’economia”.

Alle tesi di Cramer ha subito replicato Donald Trump, che in conferenza stampa, ha dichiarato: “Abbiamo parlato di V, ma questa è meglio di una V. Questa è una nave spaziale”. 

Agi

La sanità vale il triplo degli smartphone e potrebbe essere il futuro di Apple

Il ceo Tim Cook lo ha detto: “Il più grande contributo che Apple può dare all’umanità riguarda la salute”. Non parlava solo di soldi, ma pare ormai chiaro che nuovi servizi sanitari farebbero bene non solo agli utenti ma anche alle casse della Mela.

Un’analisi di Morgan Stanley, diffusa da Bloomberg, ipotizza che Apple trarrà da servizi e prodotti legati alla salute un fatturato tra i 15 e i 313 miliardi di dollari entro il 2027. L’escursione è massiccia e racconta quanto il mercato sia giovane e quanto dipenda da Cupertino decidere di cogliere o meno le opportunità che propone. Un’altra analisi, firmata da Loop Ventures lo scorso marzo, parlava già di “roadmap” di Apple verso la sanità.

In un momento complicato per i dispositivi mobili, spiega Morgan Stanley, “l’assistenza sanitaria ha un mercato potenziale tre volte più grande rispetto a quello globale degli smartphone”. Un mercato che, in più, ha una serie di vantaggi rispetto a quello degli smartphone. Primo: non teme saturazione e, anzi, in una popolazione sempre più anziana, tenderà a crescere. Secondo: come altri servizi, non ha forti oscillazioni stagionali (la cura della salute non arriva solo a Natale). Terzo: Apple è in una posizione di vantaggio rispetto ad altre società tecnologiche, soprattutto grazie ai suoi dispositivi indossabili.

Il ruolo di Apple Watch e AirPods

Oggi il segmento wearable rappresenta il 5% del fatturato di Apple. Loop Ventures stima che arriverà all’8% entro cinque anni. Gli Apple Watch venduti dal loro esordio, nel 2015, sarebbero circa 67 milioni, per l’85% ancora in uso. Probabilmente l’orologio non arriverà mai alla diffusione dell’iPhone (900 milioni di unità attualmente attive), ma basterebbe un progresso più contenuto per avere un impatto notevole. Loop Ventures stima che le unità in circolazione potrebbero quadruplicarsi. E questo farebbe bene alle casse, con 35 miliardi di vendite annuali.

In gioco però non c’è solo la vendita diretta, ma molto di più. I dispositivi indossabili, muniti di sensori sempre più sofisticati, costituirebbero la piattaforma con cui distribuire i propri servizi sanitari. Oggi l’Apple Watch ha già un elettrocardiografo integrato. Morgan Stanley suggerisce infatti di sviluppare sistemi in grado di rilevare, anche con gli AirPods, pressione sanguigna, livello di glucosio, monitoraggio del sonno. Le due analisi concordano quindi sul ruolo centrale di Apple Watch e AirPods, leader nei mercati degli orologi tecnologici e degli auricolari senza fili. Sono le sentinelle dei servizi finanziari che verranno.

Primi mattoni di un nuovo ecosistema

Per Morgan Stanley, Cupertino ha già piazzato i “primi mattoni” di un “nuovo ecosistema”. E vista la sua posizione attuale, potrebbe fare con la sanità quello che ha fatto con iTunes nel settore musicale o con l’App Store nei servizi mobile. La domanda, a questo punto, è: come trasformare le potenzialità in fatturato? Una parte, che con il tempo dovrebbe diventare sempre più marginale, arriverà dalle vendite dei dispositivi. Il resto da una gamma di servizi, tra i quali un abbonamento pagato dagli utenti o, più probabilmente, da medici, cliniche e compagnie assicurative. Secondo Loop Venture, potrebbe cosare circa 10 dollari al mese, che Apple riceve per aggregare, monitorare e studiare i dati raccolti da Watch e AirPods.

Con i nuovi servizi, sottolinea Morgan Stanley, i dispositivi potrebbero non solo essere venduti direttamente, ma diventare un accessorio coperto dai professionisti della salute. Già oggi, ad esempio, alcune compagnie scontano le polizze e regalano uno smartwatch se i clienti accettano di indossarlo. Il loro ragionamento è questo: conosco i tuoi dati e capisco prima i fattori di rischio. Tu vivi più a lungo, io personalizzo la tua polizza e sborso meno.

Certo, ci sono problemi di privacy fondamentali. Ma avere un dispositivo che monitori gli utenti, consenta di dialogare a distanza con i medici e favorisca interventi tempestivi potrebbe ridurrebbe le spese sanitarie, visto che la cura costa più della prevenzione. Il settore è così ghiotto che Morgan Stanley prevede che Apple possa presto acquisire una società specializzate nel settore sanitario.

Agi

Perché l’Italia potrebbe tornare nel mirino dei mercati 

Non c'è solo la Turchia e la disputa commerciale tra Usa e Cina nel mirino degli investitori internazionali. Tra le preoccupazioni dei mercati ora c'è anche l'Italia. La terza più grande economia dell'Eurozona è tornata a lampeggiare sui radar degli investitori, come dimostra lo 'spread', il differenziale dei tassi di interesse tra i titoli di Stato italiani e quelli tedeschi, che rappresenta un barometro del rischio finanziario, tornato a 285 punti, il massimo da maggio, una cifra che significa semplicemente che per finanziarsi l'Italia in questo momento deve pagare il 2,85% di interessi sul debito in più rispetto alla Germania.

Anche il tasso del Btp ha ripreso a lievitare, rialzandosi dello 0,25% dall'inizio di agosto e tornando sopra al 3%, come a maggio, quando i mercati guardavano con preoccupazione alla vittoria elettorale dei cosiddetti populisti, cioè M5S e Lega. Ora il governo giallo-verde è saldamente in sella e si appresta a preparare la prossima manovra finanziaria.

E' proprio a quello, al bilancio del prossimo anno, che gli investitori guardano con un misto di diffidenza e di timore, sospettando che il governo espanderà il deficit pubblico più del consentito, mettendo il nostro Paese contro Bruxelles. Insomma, gli investitori temono che l'Italia non abbia una solida base finanziaria e soprattutto temono che possa essere rimosso il requisito costituzionale secondo cui Roma manterrà il bilancio in pareggio.

Le altre misure politiche che rischiano di mettere a dura prova, tanto i nervi dei mercati, quanto i conti del governo riguardano le possibili modifiche alle riforme pensionistiche e l'introduzione della flat tax. E' questo che nei prossimi giorni potrebbe far lievitare ancora il rendimento dei decennali e lo spread e che metterà ulteriormente sotto pressione le azioni e le obbligazioni delle banche locali, le quali sono le prime venire trascinate nel vortice del deterioramento della percezione dei mercati sull'azione del governo.

Un altro campanello d'allarme è quello acceso dalla Banca d'Italia, la quale ha rivelato che gli esborsi netti dall'estero del debito pubblico italiano sono saliti a 33 miliardi a giugno, a fronte dei 25 miliardi di maggio. A tenere sotto osservazione l’Italia e l’azione del governo nei prossimi giorni non saranno solo i mercati, ma anche le agenzie di rating. Il primo appuntamento è il 31 agosto con la revisione dei rating da parte di Fitch, che a metà marzo, dopo il voto, aveva confermato la valutazione 'BBB', con outlook stabile.

Poi, il 7 settembre, ci sarà l’esame più atteso, quello di Moody's, che è anche la revisione la più pericolosa, perchè a fine maggio l'agenzia ha deciso di mettere sotto osservazione per un possibile declassamento il rating 'Baa2', equivalente al 'BBB' e dunque soltanto due gradini sopra il livello 'junk', o 'spazzatura', che inizia con 'BB'. Un eventuale declassamento sarebbe molto grave, perchè l'Italia con il suo debito mostruoso, pari al 130% del Pil e con oltre 1.900 miliardi di euro di titolo di Stato da rimborsare, in caso tagli del rating sarebbe costretta a pagare interessi molto più alti per i prestiti internazionali e dunque dovrebbe sborsare molti più soldi per finanziarsi.

L'ultimo appuntamento, il 26 ottobre, è quello con la revisione di Standard & Poor's, che attualmente ci assegna un rating 'BBB' con outlook stabile. L’eventuale taglio del rating a livello junk, oltre a far impennare il costo dei prestiti al nostro Paese, renderebbe l'Italia non ammissibile per futuri acquisti di attività da parte della Banca centrale europea. Insomma, non ci aspetta una fine dell’estate tranquilla.

Agi News

Il digitale sta salvando i conti del New York Times, e potrebbe mantenere 1.300 giornalisti

Il New York Times digitale cresce e spinge i conti della società, che pure chiude il quarto trimestre del 2017 in perdita. I numeri del servizio di vendite di abbonamenti online (lanciato nel 2011), sono salite del 46% nel 2017 a 340 milioni di dollari, con 2,2 milioni di lettori, in aumento anche le vendite di annunci digitali del 14%. New York Times Company, l'editore, ha però registrato un rosso di 57,84 milioni di dollari contro gli utili per 37,63 milioni di dollari dello stesso periodo dell'anno precedente.

"Il 2017 è stato un anno segnato da crescita e innovazione sia sul fronte giornalistico sia su quello aziendale", ha dichiarato Mark Thompson, presidente e amministratore delegato della compagnia. "Abbiamo registrato la nostra migliore crescita dei ricavi, spinti dalle sottoscrizioni digitali, che sono aumentate di oltre 100 milioni di dollari anno dopo anno – ha aggiunto – un chiaro segnale del fatto che il nostro modello di business basato sull'abbonamento si sta dimostrando un modo efficace per sostenere le nostre grandi ambizioni giornalistiche".

Il Nyt, che ha compiuto 166 anni, nota il tech magazine Recode, sta crescendo come un colosso della Silicon Valley e cita i dati di crescita di Facebook (47%) e Google (30%). L'obiettivo per il quotidiano diretto da Dean Baquet è sviluppare un business digitale da 800 milioni di dollari entro il 2020. Obiettivo alla portata, se si considera che nel 2017 il fatturato online è aumentato del 30% e che la società ha registrato 607 milioni di vendite digitali totali per l'anno, circa 2,5 volte i numeri del 2011.

Ma un business interamente digitale da 800 milioni di dollari è in grado di sostenere una struttura che impegna 1.300 giornalisti, considerati i dati di vendita in calo dei giornali cartacei? Sì, se si elimina proprio il supporto cartaceo, secondo il media observer Felix Salmon, che, intervistato da Recode, mette in evidenza come i costi di un'operazione interamente digitale siano molto più bassi. 

Agi News