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Mario Draghi ha spiegato agli studenti di Pisa perché è orgoglioso di essere italiano

L'orgoglio di essere italiano e una difesa dell'euro che, pur con i suoi limiti, è stato fonte di stabilità. Italia e Europa si sono sovrapposte, intrecciate e andate fianco a fianco nella lectio magistralis del presidente della Bce, Mario Draghi. Come potevano lasciare presagire l'inno di Mameli e l'inno alla Gioia intonati all'inizio della cerimonia con la quale la Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa gli ha conferito la laurea honoris causa in Economia.

Non sono passate inosservate le grida di allarme del rettore dell'Ateneo, Pierdomenico Perata, che ha denunciato i tagli subiti dall'istruzione universitaria italiana nell'ultimo decennio, e del rappresentante degli studenti, Tommaso Sacconi, che, nonostante le difficoltà del sistema universitario, non ha fatto mancare il "coraggio" di "voler contribuire al futuro delle nostre comunità", in "Italia ma anche oltre ai confini del nostro paese".

Orgoglioso di essere italiano

"Parole molto belle" che "mi fanno sentire ancora più orgoglioso di essere italiano", ha detto Draghi invitando gli studenti a buttare il cuore oltre l'ostacolo, perché "senza coraggio non si va da nessuna parte". Coraggio che puo' essere attinto dall'euro, che a gennaio compirà 20 anni: "l'appartenenza alla moneta unica gioca un ruolo fondamentale" per i paesi europei, in virtù del suo ruolo di "stabilizzatore" delle economie, "soprattutto nelle fasi recessive".

"L'Unione monetaria ha avuto successo sotto molteplici aspetti", ha ricordato Draghi, anche se è vero che "non ha prodotto i risultati attesi in tutti i paesi", ma ciò è in parte "il risultato di scelte di politica interna" oltre che "il risultato di un'Unione monetaria incompleta", per cui sarebbe auspicabile portarla a compimento, a partire dall'unione bancaria. Detto questo "la moneta unica ha permesso a diversi paesi di recuperare sovranità monetaria rispetto allo Sme", ovvero quando "le decisioni di politica monetaria erano prese dalla Germania", mentre "oggi sono condivise da tutti i paesi".

Il monito

Ed è qui che arriva il monito del banchiere: "non è ovvio che un paese tragga vantaggi in termini di sovranità monetaria dal non essere parte dell'euro". Certo, ha premesso Draghi, "ogni Paese ha la propria agenda, ma solo con le riforme si creano le condizioni per far crescere salari e occupazione", oltre a garantire "lo stato sociale". E queste "sono azioni che non possono non essere compiute che a livello nazionale", seppure "con il sostegno a livello europeo".

Il riferimento all'Italia sembra diventare ancora più diretto con il monito a non adottare misure in deficit per il bilancio pubblico, come del resto "ha dimostrato la storia dell'Italia", dove "il finanziamento monetario del debito pubblico non ha portato a reali benefici a lungo termine. Nei periodi in cui la monetizzazione del debito era più comune in Italia, come negli anni '70, il mantenimento di un tasso di crescita simile ai suoi omologhi europei richiedeva ripetute svalutazioni.

L'inflazione aveva raggiunto livelli insostenibili e aveva colpito i ceti più vulnerabili della società". L'euro, come parte integrante e fondamentale dell'Unione europea, potrebbe poi essere anche un argine ai populisti e ai movimenti estremisti: "Altrove nel mondo – ha concluso Draghi – si sta diffondendo il fascino delle ricette e dei regimi illiberali; stiamo vedendo piccoli passi indietro nella storia. Ed è per questo che il nostro progetto europeo è ancora più importante oggi. E' solo continuando a progredire, liberando le energie individuali ma anche promuovendo l'equità sociale, che la salveremo attraverso le nostre democrazie, con unità di intenti". 

Agi News

Perché adesso la Banca d’Italia lancia l’allarme sullo spread

"Il rialzo dei tassi di interesse sul debito pubblico registrato da maggio rischia di vanificare l’impulso espansivo atteso dalla politica di bilancio". L'allarme è contenuto nella Rapporto sulla stabilità finanziaria della Banca d'Italia, secondo cui il governo, nel valutare una maggiore crescita tendenziale dello 0,6% nel 2019 grazie all'effetto positivo della legge di bilancio "presuppone" moltiplicatori "piuttosto elevati". In ogni caso, scrivono i tecnici di via Nazionale, "l’effettivo impatto sulla crescita e quindi sul peso del debito dipenderà dalle misure specifiche e dal mantenimento della fiducia degli investitori".

Più interessi, più spread, più debito

Bankitalia calcola che l’incremento dei tassi all’emissione dei titoli di Stato ha determinato negli ultimi sei mesi un’espansione della spesa per interessi di quasi 1,5 miliardi rispetto a quella che si sarebbe avuta con i tassi che i mercati si aspettavano in aprile; costerebbe oltre 5 miliardi nel 2019 e circa 9 nel 2020 se i tassi dovessero restare coerenti con le attuali aspettative dei mercati. Inoltre, sottolinea il rapporto, "un rialzo pronunciato e persistente dei rendimenti, a parità di tassi di crescita nominale dell’economia, aumenta il rischio che la dinamica del debito si collochi su una traiettoria crescente".

"L’incertezza sull’orientamento delle politiche economiche e di bilancio ha determinato forti rialzi dei rendimenti dei titoli pubblici; vi hanno contribuito timori degli investitori riguardo a un’ipotetica ridenominazione del debito in una valuta diversa dall’euro", prosegue il Rapporto, secondo cui "le condizioni di liquidità del mercato secondario dei titoli di Stato sono più tese rispetto ai primi mesi dell’anno ed è aumentata la volatilità infragiornaliera delle quotazioni".

Cosa vorrà dire uno spread più alto

Gli effetti negativi dell'aumento dello spread sono ben elencati nel rapporto. "Incrementi elevati e persistenti dei premi per il rischio sui titoli di Stato", scrivono i tecnici di via Nazionale, "ostacolano il calo del debito pubblico in rapporto al prodotto, incidono sul valore della ricchezza delle famiglie, frenano e rendono più oneroso il credito al settore privato, peggiorano le condizioni di liquidità e la patrimonializzazione di banche e assicurazioni".

In ogni caso, aggiunge Bankitalia, "diversi fattori stanno attenuando le ripercussioni delle turbolenze finanziarie sull’economia. L’indebitamento del settore privato risulta tra i più bassi nell’area dell’euro, l’avanzo commerciale è ampio e la posizione debitoria netta verso l’estero si è pressoché azzerata. L’elevata vita media residua del debito pubblico rallenta la trasmissione dell’aumento dei rendimenti dei titoli di Stato al costo medio del debito".

E tuttavia, non manca di avvertire il documento, "il rialzo dei premi per il rischio sui titoli di Stato, se protratto nel tempo, avrebbe ripercussioni negative sul sistema finanziario e aumenterebbe i rischi per la stabilità". In particolare, "incrementi elevati e persistenti" dello spread "ostacolano il calo del rapporto debito/Pil, riducono il valore della ricchezza delle famiglie, frenano e rendono più oneroso il credito al settore privato, peggiorano le condizioni di liquidità e la patrimonializzazione di banche e assicurazioni".

Anche le banche rischiano

"Nel settore bancario prosegue il miglioramento della qualità del credito e il recupero della redditività, ma anche il processo di rafforzamento dei bilanci delle banche risente negativamente delle tensioni sul mercato del debito sovrano, che hanno determinato un peggioramento degli indicatori di liquidità e di patrimonializzazione”, rileva ancora il documento della Banca d’Italia, secondo cui "la flessione delle quotazioni dei titoli di Stato ha determinato una riduzione delle riserve di capitale e di liquidità e un aumento del costo della provvista all’ingrosso".

Il forte calo dei corsi azionari degli intermediari "ha determinato un marcato aumento del costo del capitale", aggiungono i tecnici di via Nazionale, che avvertono: se le tensioni nel mercato dei titoli di Stato dovessero protrarsi, le ripercussioni sulle banche potrebbero essere rilevanti, soprattutto per alcuni intermediari di media e piccola dimensione".

Sul fronte degli Npl, Bankitalia rileva che il flusso di nuovi crediti deteriorati, valutato in rapporto al totale dei prestiti in bonis, si colloca all’1,7 per cento, dopo aver toccato nel secondo trimestre dell’anno il valore minimo dal 2006. Il calo registrato negli ultimi anni, che ha riguardato sia i prestiti alle famiglie sia quelli alle imprese, afferma Palazzo Koch, è stato favorito dalla crescita economica, dal basso livello del costo del credito e dalla prudenza delle banche nell’assunzione dei rischi.

Nel primo semestre dell’anno le banche italiane hanno ridotto del 13 per cento la consistenza dei crediti deteriorati lordi, a 225 miliardi. La diminuzione, si legge nel rapporto, è in larga parte riconducibile alle cessioni di prestiti in sofferenza (20 miliardi, contro 42 nell’intero 2017).

 

Agi News

Perché Moody’s ci ha tagliato il rating

Giornata di passione sul fronte del debito sovrano. Mentre lo spread va in altalena, sfondando quota 340 punti per poi ripiegare sulla scia dei toni concilianti del commissario Ue agli Affari Economici, Pierre Moscovici, Bankitalia lancia l'allarme sulla fuga di capitali dall'Italia, con sempre più investitori stranieri che vendono i nostri titoli di Stato. Ma la tegola più dura arriva in serata, con Moody's – una delle tre grandi agenzie di rating (le società che valutano l'affidabilità degli emettitori di titoli di debito, siano essi aziende o Stati) 7- che abbassa di un gradino la valutazione sull'Italia a Baa3, appena un gradino sopra i livelli considerati speculativi, ovvero "spazzatura". Si attendono lunedì le reazioni dei mercati. L'abbassamento del rating fa scattare, spesso automaticamente, ingenti ordini di vendita da parte di numerosi investitori. Ciò significa che le tensioni finanziarie intorno al nostro debito potrebbero aumentare ulteriormente nei prossimi giorni. 

Quali sono le ragioni del declassamento, secondo Moody's?

  • Il deficit è stato alzato oltre le previsioni

Moody's punta il dito su "un indebolimento della politica fiscale con un deficit di bilancio più alto per i prossimi anni rispetto a quanto l'agenzia aveva assunto in precedenza". Il debito pubblico italiano, spiega, "si stabilizzerà in rapporto al Pil intorno all'attuale 130% nei prossimi anni piuttosto che iniziare la fase discendente come era atteso. Inoltre il trend del debito pubblico è soggetto alla debolezza delle prospettive economiche che potrebbe alla fine comportare un ulteriore aumento del debito stesso dal già elevato livello attuale. L'agenzia parla poi di "implicazioni negative per la crescita italiana nel medio periodo per lo stop ai piani di riforme economiche e fiscali".

  • Gli stimoli non faranno crescere abbastanza il Pil

Secondo Moody's "lo stimolo fiscale" contenuto nella manovra "fornirà un impulso alla crescita più limitato rispetto a quanto ipotizza il governo". Dopo un temporaneo aumento della crescita dovuto alla politica fiscale espansiva, l'agenzia di rating si aspetta che il Pil torni a un livello attorno all'1%. 

  • Non c'è un'agenda di riforme coerente

A parere di Moody's, i programmi di politica fiscale ed economica del governo "non comprendono un'agenda coerente di riforme che spinga, in modo sostenuto, la crescita dell'Italia attualmente inferiore ai propri partner". 

L'outlook (cioè il giudizio sulle prospettive future) rimane però stabile. Secondo Moody's, l'Italia "mostra ancora importanti punti di forza del credito che bilanciano l'indebolimento delle prospettive fiscali". Tali punti di forza "comprendono un'economia molto ampia e diversificata, una solida posizione estera con avanzi delle partite correnti e una posizione di investimento internazionale pressoché equilibrata. Le famiglie italiane hanno inoltre un alto livello di ricchezza e un importante cuscinetto contro gli shock futuri oltre a rappresentare una potenziale fonte di finanziamento per il governo".

L'economia rallenta e gli investitori esteri riducono il portafoglio di titoli italiani, emerge poi dal Bollettino economico della Banca d'Italia, secondo il quale nel terzo trimestre dell'anno il Pil è cresciuto di appena lo 0,1% rispetto ai tre mesi precedenti dello 0,1%. Per via Nazionale, "l'attivita' avrebbe segnato un incremento nei servizi, mentre sarebbe rimasta stazionaria nell'industria in senso stretto. Il valore aggiunto delle costruzioni avrebbe proseguito a espandersi a un ritmo moderato".

L'allarme di Bankitalia

Ma il dato più preoccupante è un altro: secondo Bankitalia, nei primi otto mesi del 2018 "gli investitori non residenti hanno ridotto le loro consistenze di titoli di portafoglio italiani di 42,8 miliardi: i disinvestimenti hanno riguardato soprattutto i titoli pubblici (24,9 miliardi) e le obbligazioni bancarie (12,4 miliardi)". Gli acquisti di titoli pubblici italiani effettuati da non residenti nel periodo tra gennaio e aprile (41,7 miliardi) sono stati piu' che compensati dalle vendite registrate in maggio e in giugno (57,9 miliardi nei due mesi), in concomitanza con le tensioni sui mercati finanziari del nostro Paese", si legge nel Bollettino. "A luglio e agosto gli investitori esteri hanno venduto titoli del debito sovrano complessivamente per 8,7 miliardi".

Limitatamente al solo agosto, gli investitori esteri hanno venduto titoli di portafoglio italiani – tra titoli di Stato e obbligazioni bancarie – per 17,8 miliardi (di cui 17,4 mld di titoli pubblici). Tra maggio e giugno, in occasione dell'insediamento del nuovo governo giallo-verde, il 'sell off' di titoli di Stato italiano era stato massiccio, pari a 58 miliardi di euro, mentre a luglio gli investitori esteri erano tornati in attivo di oltre 8 miliardi di euro. Ad agosto pero' la forte volatilita' dello spread ha spinto nuovamente gli investitori esteri alla fuga, un segnale pericoloso per un paese che ha un debito pubblico di 2.342 miliardi di euro e che ogni anno deve raccogliere almeno 400 miliardi di euro sui mercati per finanziarsi. Inoltre occorre anche tener presente che gli investitori esteri, sebbene, in calo, detengono ancora il 26% del nostro debito pubblico.

Agi News

Perché l’Italia potrebbe tornare nel mirino dei mercati 

Non c'è solo la Turchia e la disputa commerciale tra Usa e Cina nel mirino degli investitori internazionali. Tra le preoccupazioni dei mercati ora c'è anche l'Italia. La terza più grande economia dell'Eurozona è tornata a lampeggiare sui radar degli investitori, come dimostra lo 'spread', il differenziale dei tassi di interesse tra i titoli di Stato italiani e quelli tedeschi, che rappresenta un barometro del rischio finanziario, tornato a 285 punti, il massimo da maggio, una cifra che significa semplicemente che per finanziarsi l'Italia in questo momento deve pagare il 2,85% di interessi sul debito in più rispetto alla Germania.

Anche il tasso del Btp ha ripreso a lievitare, rialzandosi dello 0,25% dall'inizio di agosto e tornando sopra al 3%, come a maggio, quando i mercati guardavano con preoccupazione alla vittoria elettorale dei cosiddetti populisti, cioè M5S e Lega. Ora il governo giallo-verde è saldamente in sella e si appresta a preparare la prossima manovra finanziaria.

E' proprio a quello, al bilancio del prossimo anno, che gli investitori guardano con un misto di diffidenza e di timore, sospettando che il governo espanderà il deficit pubblico più del consentito, mettendo il nostro Paese contro Bruxelles. Insomma, gli investitori temono che l'Italia non abbia una solida base finanziaria e soprattutto temono che possa essere rimosso il requisito costituzionale secondo cui Roma manterrà il bilancio in pareggio.

Le altre misure politiche che rischiano di mettere a dura prova, tanto i nervi dei mercati, quanto i conti del governo riguardano le possibili modifiche alle riforme pensionistiche e l'introduzione della flat tax. E' questo che nei prossimi giorni potrebbe far lievitare ancora il rendimento dei decennali e lo spread e che metterà ulteriormente sotto pressione le azioni e le obbligazioni delle banche locali, le quali sono le prime venire trascinate nel vortice del deterioramento della percezione dei mercati sull'azione del governo.

Un altro campanello d'allarme è quello acceso dalla Banca d'Italia, la quale ha rivelato che gli esborsi netti dall'estero del debito pubblico italiano sono saliti a 33 miliardi a giugno, a fronte dei 25 miliardi di maggio. A tenere sotto osservazione l’Italia e l’azione del governo nei prossimi giorni non saranno solo i mercati, ma anche le agenzie di rating. Il primo appuntamento è il 31 agosto con la revisione dei rating da parte di Fitch, che a metà marzo, dopo il voto, aveva confermato la valutazione 'BBB', con outlook stabile.

Poi, il 7 settembre, ci sarà l’esame più atteso, quello di Moody's, che è anche la revisione la più pericolosa, perchè a fine maggio l'agenzia ha deciso di mettere sotto osservazione per un possibile declassamento il rating 'Baa2', equivalente al 'BBB' e dunque soltanto due gradini sopra il livello 'junk', o 'spazzatura', che inizia con 'BB'. Un eventuale declassamento sarebbe molto grave, perchè l'Italia con il suo debito mostruoso, pari al 130% del Pil e con oltre 1.900 miliardi di euro di titolo di Stato da rimborsare, in caso tagli del rating sarebbe costretta a pagare interessi molto più alti per i prestiti internazionali e dunque dovrebbe sborsare molti più soldi per finanziarsi.

L'ultimo appuntamento, il 26 ottobre, è quello con la revisione di Standard & Poor's, che attualmente ci assegna un rating 'BBB' con outlook stabile. L’eventuale taglio del rating a livello junk, oltre a far impennare il costo dei prestiti al nostro Paese, renderebbe l'Italia non ammissibile per futuri acquisti di attività da parte della Banca centrale europea. Insomma, non ci aspetta una fine dell’estate tranquilla.

Agi News

Perché Facebook e Twitter crollano nel momento migliore per l’economia americana

La metafora più utile forse è quella di Bloomberg: proprio come le banche devono liberarsi dei crediti deteriorati, così i social devono provvedere a liberarsi di bot e utenti falsi perché la loro presenza peggiora le performance di tutto l’ecosistema. E non solo non portano utili, ma rischiano di allontanare gli utenti reali. 

L’effetto di questa pulizia, necessaria dopo i tassi di crescita impressionanti degli ultimi anni, ha svelato più di qualche scheletro nell’armadio di Facebook e Twitter causando un crollo improvviso di valore (circa il 20%) da quando i social hanno pubblicato le loro trimestrali. Gli analisti sembrano concordare su un fatto, ed è sempre Bloomberg a spiegarlo: il crollo dei due titoli al Nasdaq è dovuto principalmente al fatto che gli investitori sembrano essersi resi conto che le aspettative sulla crescita degli utenti dei social in passato fossero gonfiate.

Che nessuno dopo l’ondata di crescita aveva previsto che le acque fossero mosse artificialmente, e che la risacca sarebbe stata improvvisa e dolorosa. E questo sta portando giù molti titoli del listino tecnologico legato alla internet economy.

I "big number" di Trump

Il paradosso è che questo arriva in un momento piuttosto positivo per l’economia americana. Ieri i “big number” del governo hanno visto Trump esultare per la crescita del 4,1% del Pil (La Repubblica). Cosa che non succedeva dal 2014. L’87% delle società dello Standard&Poor 500 ha pubblicato dati che superavano le più rosee aspettative degli analisti. Insomma mentre l’economia ‘reale’ galoppa e va meglio del previsto, quella legata ad alcuni aspetti del digitale frena. D’improvviso. Vittima un po’ di se stessa.

Facebook ha incolpato per il suo calo la Gdpr. Ma non basta solo la Gdpr a spiegare il calo degli utenti (qui abbiamo spiegato perché).

Il modello di Facebook e la difficoltà di trovare un'alternativa

Secondo quanto riportano i documenti più recenti consegnati da Facebook alla Security Exchange Commission (la Consob americana) il social guadagna per ogni utente circa 20 dollari netti l’anno, per profitti complessivi per circa 1.4 miliardi. I soldi che la società riesce a fare per ogni utente sono cresciuti poco nel corso degli anni, quindi l’unica speranza per aumentare i profitti è quella di aumentare il numero di utenti. Utenti falsi e bot hanno fatto crescere il numero ‘virtuale’ degli utenti, ma non quello reale, quello che porta i 20 dollari l'anno per intendersi.

Quando la commissione del Senato chiese in maniera un po’ ingenua lo scorso aprile a Mark Zuckerberg: “Ma Facebook come fa a fare i soldi?”, il fondatore rispose secco, quasi divertito: “We run ads”, con la pubblicità. Questa è stata la grande forza di Facebook, che rimane un colosso e piuttosto in salute, ma in questo momento potrebbe anche rivelarsi un freno. Al momento infatti Facebook non sembra aver trovato una via alternativa di crescita alla pubblicità. WhatsApp e il modello di “crescita per acquisizioni” ha fatto bene alla società ma non basta. Il resto sono tentativi o promesse, finora poco reali, come il marketplace o il sistema interno di pagamenti in criptovalute.

Twitter e l'esercito dei troll e propaganda

Twitter ha problemi analoghi: di modello di business, come si è detto più volte, e di crescita di utenti. Anche il social di Jack Dorsey ha dovuto fare i conti con le pulizie estive degli account falsi e troll, sulla scia dei meccanismi di propaganda che si sono sviluppati sulla piattaforma, forse in maniera anche più sfacciata rispetto Facebook. E il 20% perso ieri al Nasdaq è lo stesso sintomo di una malattia analoga. La crescita non avviene coi bot. E la sostenibilità non si raggiunge con gli account falsi.

L’era dei social network non è finita. Ma c'è da scommettere che nei prossimi mesi saranno costretti a cambiare rotta, e rapidamente.

Twitter: @arcangeloroc

 

Agi News

Perché dovremmo smetterla di trattare i manager della Silicon Valley come eroi

Elon Musk non è Superman e Steve Jobs non era Batman. Sono imprenditori. Geniali, ricchi, prolifici. Ma pur sempre imprenditori. Quindi, per cortesia, basta trattarli come se fossero eroi infallibili. Basta, perché anche i semidei della tecnologia sbagliano. E perché a rimetterci potrebbero essere le loro aziende e i loro azionisti. Un articolo del Wall Street Journal firmato da Christopher Mims sottolinea che “la Silicon Valley ha un problema di responsabilità che affonda le radici dell'idolatria del fondatore-ceo”.

L'ascesa dei super-ceo

L'idea di un super-ceo non è solo una questione di costume. Si traduce in una gestione che affida a un solo uomo poteri sproporzionati rispetto al numero di azioni che possiede. Tradotto: condividono il rischio con gli altri azionisti, ma decidono tutto loro, come in una monarchia. “Trattare l'amministratore delegato come se fosse nato sul pianeta Krypton – sottolinea Mims – porta, tra le altre cose, nella concessione di più soldi e più potere”. In un'impresa normale il ceo dovrebbe rispondere a un consiglio di amministrazione, eletto dagli investitori. In sostanza, c'è qualcuno che può assumere o licenziare un ceo. Formalmente è così anche in Facebook, Tesla, Google, Snap. In realtà no.

È il fondatore, grazie a una struttura che concentra nelle sue mani i poteri decisionali, che si sceglie i membri del consiglio di amministrazione più graditi. Sia chiaro: gli azionisti non sono vittime. Anzi, sono spesso complici inconsapevoli. Perché, come spiega il Wall Street Journal, in questa idolatria collettiva “tutti vogliono un pezzo del mito”. I motivi che hanno portato a questa “crisi di rappresentanza” affondano in un passato molto più antico della Silicon Valley. Ma è in California che esplode. Perché? L'esempio di scuola potrebbe essere quello di Steve Jobs. Un uomo che, tra lupetti neri, jeans e liturgie ha saputo creare il mito di se stesso. Ma anche un imprenditore che ha creato il proprio culto per reagire all'incubo di ogni fondatore: essere estromesso dalla propria azienda, prima del grande ritorno.

Le prime crepe in Silicon Valley

Nel caso di Apple l'uomo solo al comando ha funzionato. Ma, secondo Mims, utilizzare Cupertino come argomentazione a favore della concentrazione dei poteri nelle mani del ceo-supereroe “è ridicolo”. Il motivo di un giudizio così tranciante è semplice: quante Apple esistono al mondo? In altre parole: ci sono società che hanno galoppato anche grazie alla venerazione dei propri amministratori delegati. Ma dovrebbero essere reputate l'eccezione e non buone ragioni per seguirne le orme. Va bene l'ambizione, ma l'altare potrebbe non essere il punto di partenza migliore.

I fondatori ceo non hanno mai avuto così tanto potere come in questo momento. Si trovano in una congiuntura favorevole, fatta di mitologia tecnologica e abbondanti capitali da venture capital che si saldano con meccanismi di governance capaci di trattenere il controllo della propria società. I supereroi diventano così “dittatori a vita” e a ogni costo. Anche se a farne le spese è proprio l'impresa. La domanda, a questo punto, è: fino a quando durerà? Secondo il Wall Street Journal potremmo essere vicini a un punto di rottura.

I super-ceo sarebbero arrivati in vetta e potrebbero presto iniziare la discesa. Gli esempi che indicherebbero le prime crepe non mancano. Gli azionisti di Snap, contrariati dagli scarsi risultati, stanno mettendo in discussione Evan Spiegel. Il caso Cambridge Analytica ha messo sotto pressione Mark Zuckerberg. Il fondatore di Uber Travis Kalanick è stato sostituito da un manager esterno (Dara Khosrowshahi). Theranos è collassata, trascinando con sé Elizabeth Holmes, definita per carisma e look, la “Steve Jobs donna”.

Il caso Tesla

Un'azienda e un episodio raccontano meglio di altri sia la mitologia del ceo sia la nascita di alcune (per ora piccole) crepe. Poche compagnie come Tesla sono il proprio fondatore: Elon Musk. Le sue promesse sono parte del business quanto le portiere e le batterie elettriche. Non a caso, nel momento più grigio della società (con il titolo in calo e la produzione di Model 3 in ritardo) Musk ha puntato su se stesso con un piano decennale di premi in azioni che azzera lo stipendio e àncora il guadagno agli obiettivi finanziari.

Come a dire: credo in quello che faccio, resto qui per un paio di lustri e se le cose andranno bene avrò un crescente controllo sulla società. Nella recente assemblea di Tesla, però, un azionista ha proposto di spezzettare i poteri di Elon Musk, che da dieci anni combina i ruoli di ceo e presidente. Una struttura che – si legge nelle proposta – garantisce leadership ma che potrebbe non essere adatta a un settore sempre più complicato e competitivo. In sostanza: l'idea di un uomo solo al comando non funzionerebbe. Si trattava di fatto di una proposta kamikaze.

Il consiglio di amministrazione è gestito da Musk, che su una delle poltrone ha anche piazzato suo fratello. E qualsiasi variazione deve passare da una maggioranza qualificata dei due terzi. Molto difficile da raggiungere senza la quota di Musk, pari al 22%. Tradotto: non si muove foglia che Musk (azionista forte, presidente e ceo) non voglia. E infatti il board ha detto no: “Il successo della compagnia non sarebbe possibile” se la società fosse guidata da un'altra persona. Proposta respinta e pieni poteri al grande capo. La saga dei super-ceo non è ancora finita.

Agi News

Perché Trump ha deciso di rompere la tregua commerciale con la Cina

Donald Trump ha fatto saltare la tregua commerciale con la Cina proprio mentre chiede a Pechino un appoggio nei delicati negoziati nucleari con la Corea del Nord. La Casa Bianca annuncia che procederà sulla strada dei dazi, rinnovando l’intenzione di imporre tariffe del 25% sull’importazione di beni tecnologici cinesi per un valore di 50 miliardi di dollari. Non solo: imporrà limiti agli investimenti cinesi e all’acquisto di tecnologia.

Immediata ma composta la risposta del Ministero del Commercio di Pechino, che definisce la nuova presa di posizione del presidente americano “contraria al consenso raggiunto tra le due parti a Washington”.  Appena una settimana fa sembrava che fosse stata scongiurata la guerra commerciale tra le due principali economie del pianeta, quando il vice premier Liu He era volato a Washington per il secondo round di colloqui sul commercio; i due Paesi avevano raggiunto un accordo che prevedeva l’aumento delle importazioni Usa da parte di Pechino per ridurre il surplus commerciale nei confronti degli Stati Uniti (375 miliardi di dollari).

Trump, perso l’iniziale ottimismo, aveva detto di non essere contento: la tregua, per lui, era solo “all’inizio”. In quel momento era apparso chiaro come il negoziato per evitare la 'trade war' fosse entrato in una nuova fase delicata, sovrapponendosi a quello nucleare con la Corea del Nord.

Perché Trump ci ripensa

Secondo quanto scrive La Stampa, gli americani hanno raggiunto la pax commerciale per due motivi: primo, ottenere dal presidente cinese Xi Jinping un aiuto per convincere Kim Jong-un a procedere con il disarmo nucleare (lo avevamo scritto qui); secondo, la vittoria del ministro del Tesoro Steven Mnuchin  – convinto sostenitore della tregua – nella sfida interna che lo vedeva contrapposto al segretario al Commercio degli Stati Uniti, Wilbur Ross, e al consigliere Lighthizer.

Il dietrofront di Trump arriva proprio a pochi giorni dalla missione asiatica di Ross, atteso a Pechino il 2 giugno per il nuovo round di colloqui sul commercio. La Cina, ha ribadito la portavoce del ministero degli Esteri Hua Chunying, “non vuole una guerra ma non ha paura di combatterla”. Ma resta aperta al proseguimento dei negoziati.

L’annuncio delle nuove sanzioni da parte dell’imprevedibile presidente americano potrebbe essere volto a fare concessioni più concreti in vista della ripresa delle trattative. Una “mossa tattica”, secondo Lester Rosso, a capo dell’ufficio politico della Camera di Commercio americana in Cina.

La stampa cinese

Durissimi gli attacchi della stampa cinese. Il Global Times, uno dei giornali più intransigenti, descrive la mossa avventata degli Stati Uniti come frutta di una “delusione” e avverte che Washington potrebbe ritrovarsi a “ballare da sola”. Il China Daily torna a definire "prive di fondamento” le ripetute accuse rivolte a Pechino di forzare le aziende statunitensi che operano in Cina a trasferire la tecnologia. 

L'ombra di Kim

Non è escluso che dietro al passo indietro si celi l’ombra di Kim. Trump sospetta che Xi abbia convinto il leader nord-coreano a mettere in discussione il vertice di Singapore per ottenere maggiori concessioni sui delicati negoziati commerciali.  Dopo un tesissimo tira e molla, il summit ha ripreso quota. Usa e Corea del Nord hanno stabilito un contatto diretto: nelle ore scorse è volato a New York un emissario del dittatore, Kim Chang-son. Trump potrebbe dunque aver deciso di riaprire il fuoco con Pechino.

Nel mirino anche gli studenti cinesi

La rappresaglia si estende anche ai cittadini cinesi. Gli Usa si apprestano a imporre limiti su alcuni visti rilasciati in particolare a studenti di scienza e tecnologia  – 600 mila all’anno – per gli studi in settori che rientrano nel Made in China 2025. Del resto il piano industriale che punta sui big data è il vero bersaglio di Trump.  Gli studenti cinesi, scrive il South China Morning Post, non sono preoccupati dalle misure che saranno applicate dal prossimo 11 giugno. 

I dazi colpiranno tecnologia e strumenti per la medicina

La lista dei prodotti a cui saranno applicati dazi, secondo quanto riportato dalla Casa Bianca, sarà compilata in base all’elenco di prodotti tecnologici passibili di dazi resa nota ad aprile scorso, e verrà divulgata il 15 giugno prossimo, mentre le restrizioni agli investimenti e i controlli sulle importazioni verranno resi noti il 30 giugno prossimo. La decisione, spiega il comunicato emesso dalla Casa Bianca, è stata presa in base alla sezione 301 dello Us Trade Act del 1974, utilizzata per le indagini dello Us Trade Representative, Robert Lighthizer, su possibili violazioni della proprietà intellettuale. La mossa rientra nei passi messi in atto dagli Usa per “proteggere la tecnologia interna e la proprietà intellettuale da certe pratiche commerciali pesanti e discriminatorie della Cina”, conclude il comunicato.  

Zte e Qualcomm

La lezione di Zte, finita nel mirino di Washington (potrà tornare a fare business negli Stati Uniti a patto che paghi una multa di 1,3 miliardi di dollari e modifichi il management, mentre aumenta l’avversità dei senatori repubblicani) insegna alla Cina che deve affrettarsi a rendersi indipendente sul versante dello sviluppo tecnologico.  Uno dei settori nei quali gli americani temono di perdere l’egemonia è proprio l’intelligenza artificiale. Nel nuovo braccio di ferro tra Washington e Pechino rischia di restare stritolato anche il colosso dei processori Qualcomm, la cui proposta di acquisto dell’aziende cinese di semiconduttori NXP è in attesa dell’approvazione dell’antitrust cinese.

Agi News

Cos’è lo spread e perché è un problema se si alza troppo. Una guida

La crisi politica italiana ha riacceso i riflettori sullo spread. E l’incarico di governo a Carlo Cottarelli non placa i timori dei mercati. Una preoccupazione che ha visto lo spread raggiungere quota 320 punti. Ma cos’è di preciso? Come funziona? E a cosa serve?

Cos’è?

In generale, il termine spread significa una differenza tra due tassi, che viene spesso misurata in punti base. Nel caso del mercato delle obbligazioni secondarie, dove viene scambiato il debito già emesso, è la differenza tra il tasso di rendimento del titolo decennale di un Paese (nel caso dell'Italia, il Btp) rispetto a quello tedesco decennale, il "Bund".

A cosa serve?

Il confronto offre una visione dell'atteggiamento degli investitori nei confronti di un paese rispetto ad un altro, in questo caso dell'Italia rispetto alla Germania. Lo spread consente cioè di misurare la fiducia degli operatori di mercato nelle attività di un Paese e il premio di rischio concesso per i titoli meno richiesti. 

Perché il Bund tedesco serve come riferimento?

Il tasso di finanziamento decennale della Germania serve da punto di riferimento perché è il "più grande mercato" nella zona euro. Ma soprattutto, è stato scelto perché la Germania viene percepita come il Paese più sicuro.

Come si muove lo spread

Lo spread si evolve in base ai movimenti di acquisto e di vendita di attività sul mercato delle obbligazioni secondarie. Quando molti investitori vendono le azioni di un Paese, il suo prezzo diminuisce, il che automaticamente aumenta il suo tasso di rendimento. Se, allo stesso tempo, vi è poco movimento, o se c'è poco da vendere (e quindi gli investitori hanno fiducia), il differenziale rimarrà stabile o diminuirà.

 Cosa succede se lo spread si impenna

Se i timori sulla stabilità di un Paese aumentano, come ora nel caso dell'Italia, ciò significa che le sue obbligazioni sono vendute più sul mercato secondario rispetto a quelle del Paese di riferimento, il che abbassa il loro prezzo e aumenta il tasso di rendimento. Tuttavia, per emettere nuove obbligazioni, il Paese dovrà adeguarsi al tasso di rendimento del mercato secondario. L'aumento dello spread ha quindi "conseguenze di bilancio dal momento che le prossime emissioni obbligazionarie del Paese interessato gli costeranno automaticamente di più come tassi di interesse. 

Se il tasso di rendimento si innalza

Se raggiunge livelli molto elevati, questo significa che il prezzo delle obbligazioni esistenti è stato così svalutato che nessuno le compra e il governo non può quasi più emettere obbligazioni per finanziare gli acquisti.

L'andamento dello spread dal 2011 a oggi 

Il largo pubblico ignorava questa parola prima del 2011, cioè prima che la crisi finanziaria globale, con la crisi greca, colpisse l'Europa e più in particolare i paesi più indebitati, definiti 'periferici', come l'Italia e la Spagna. I livelli di spread si equivalevano. Poi hanno iniziato a differenziarsi e questo 'differenziale' ci ha fortemente penalizzato. Dal record del 9 novembre 2011 quando toccò quota 574 punti base con il rendimento del Btp decennale al 7,47%, e che portò alle dimissioni dell'allora governo Berlusconi, ad oggi. Ecco le principali tappe dell'andamento dello spread. 

2011

  • Luglio: sale oltre i 100 punti. 
  • Agosto: sale oltre 200 punti. 
  • 9 novembre: segna il livello record di 574 punti, con il tasso del Btp al 7,47% (governo Berlusconi). 
  • 16 novembre: 530 punti (passaggio da Berlusconi e Monti). 
  • 30 novembre: scende a 474 punti. 
  • 1 dicembre: va a 447 punti
  • 19 dicembre: risale sopra 500 punti (timori per il rating della Francia)

2012

  • 23 gennaio: a 400 punti (soluzione in vista per la Grecia). 
  • 8 marzo: sotto 300 punti (ristrutturazione del debito greco). 
  • 12 giugno: a 490 punti (crisi delle banche spagnole). 
  • 13 luglio: a 479 punti (downrating di Moody's sull'Italia). 
  • 20 luglio: sopra 500 punti (venerdì nero, paura contagio di Italia e Spagna)

2013

  • 2 gennaio: a 287 punti, minimo dal 2011. 
  • 29 aprile: a 270 punti (debutto del governo Letta). 
  • 20 agosto: a 251 punti. 
  • 22 ottobre: 233 punti. 
  • 31 dicembre: a 215 punti

2014

  • 3 gennaio: spread a 198 punti, sotto quota 200 per la prima volta da luglio 2011. 
  • 3 febbraio: 210 punti. 
  • 14 febbraio: 204 punti. 
  • 21 febbraio: scende a 194 punti (nascita del governo Renzi). 
  • 24 settembre: a 129 punti, minimo da inizio crisi

2015

  • Gennaio: sotto 100 punti. 
  • Luglio: a 164 punti. 
  • Dicembre: a 99 punti 

2016

  • 18 gennaio: a 110 punti 4 febbraio: a 122 punti. 
  • 9 febbraio: risale a 154 punti (rallentamento dell'economia mondiale). 
  • 24 giugno: sale a 177 punti (Sì alla Brexit). 
  • 20 luglio: scende a 125 punti. 
  • 12 agosto: 115 punti. 
  •  2 novembre: sale a 162 punti (per timori sull'esito del referendum costituzionale in Italia). 
  • 14 novembre: sale 180 punti (ancora timori sul referendum). 
  •  28 novembre: sale a 192 punti, top da maggio 2014. 
  •  29 novembre: scende a 180 punti (voci di intervento Bce in caso di vittoria del No). 
  •  5 dicembre: a 167 punti (vittoria del No al referendum e le dimissioni Renzi). 
  •  14 dicembre: scende a 148 punti (fiducia al governo Gentiloni). 
  •  23 dicembre: a 160 punti (timori per Mps e decreto salva-risparmio).

2017

  • 5 gennaio: sale a 178 punti (per timori su banche italiane). 
  • 26 gennaio: sale a 174 punti (timori di voto anticipato dopo la sentenza della Consulta sull'Italicum). 
  • 30 gennaio: sale a 184 punti, top dal 2015 (timori di voto anticipato e contenzioso con Bruxelles sulla manovra aggiuntiva). 
  • 31 gennaio: 188 punti, al top da novembre (voto anticipato e contenzioso Bruxelles). 
  • 6 febbraio: vola a 202 punti, top da febbraio 2104 (voto anticipato, contenzioso con Bruxelles ed effetto 'Frexit', dopo le minacce di Marine Le Pen). 
  • 7 febbraio: a 200 punti. 
  • 22 febbraio: a 199 punti (paura per Le Pen, forte calo del tasso sui Bund considerati beni rifugio). 
  • 12 aprile: a 211 punti, top da gennaio 2014, per incertezze sul voto francese e crisi geopolitiche in Siria e Nord Corea. 
  • 9 giugno: spread scende a 182 punti (mancato accordo sulla riforma elettorale e voto anticipato più lontano). 
  • 22 giugno: scende a 160 punti, minimo da gennaio (vittoria di Macron e fine rischio voto anticipato in Italia). 
  • ottobre 2017: spread a 175 punti (effetto Catalogna)

2018

  • 7 febbraio: scende a 119 punti (accordo di coalizione in Germania, si prevede un'Austerity più morbida)
  • 8 maggio: risale sopra 130 punti per incertezze politiche (timori di voto anticipato a luglio)
  • 18 maggio: sfonda quota 160 punti per timori che il nuovo governo non rispetti gli impegni Ue. 
  • 21 maggio: sfonda quota 180 punti
  • 23 maggio: sfonda quota 190 punti
  • 25 maggio: sfonda quota 200 punti. Nel corso della giornata supera i 207 punti base.
  • 28 maggio: la crisi politica e l’incertezza sulla durata del governo Cottarelli alimentano le preoccupazioni dei mercati. Lo spread tocca i 230 punti in giornata e chiude a 235.
  • 29 maggio: sfonda il muro dei 320 punti, tornando ai livelli di primavera 2013, salvo poi ripiegare fino a quota 277.

 

 

Agi News

Perché Bla Bla Car ha acquistato una startup senza utenti?

Blablacar continua nella sua opera di espansione di mercato. Venerdì 27 aprile la società di car pooling – cioè di condivisione di un’auto privata – ha acquistato Less, una start-up parigina per i viaggi su brevi distanze. È il nono acquisto da parte di Blablacar. L’operazione, di cui non sono stati resi noti i dettagli economici, è però diversa dagli altri recenti acquisti. Se in passato, come riporta Business Insider France, le mosse del gruppo fondato da Frédéric Mazzella e Nicolas Brusson si erano concentrate sul comprare società concorrenti attive in paesi diversi, con l’obiettivo di aprirsi a nuovi mercati, questo caso pare essere diverso. Less è “una società senza clienti”, scrive il sito economico francese Journal du Net.

Perché spendere per una start-up senza utenti?

La domanda è lecita: perché investire in una società che non ha una base di utenti e che, perciò, di fatto non offre ancora un servizio diffuso? A svelare il mistero ci ha pensato proprio Brusson: “È la tecnologia sviluppata da Less che ci attrae”. Less è in possesso di un avantatissimo meccanismo di geo-localizzazione, un patrimonio di cui Blablacar intende impossessarsi e che vuole far fruttare nel proprio business. “Siamo anche interessati ai cervelli che hanno sviluppato queste tecnologie – prosegue Brusson -; Less ha uno dei migliori team tecnici di Parigi”. Tutte e 20 le persone che lavorano a Less si trasferiranno quindi in massa a Blablacar, dove continueranno a lavorare su analisi di big data e informazioni gps, spiega il magazine finanziario francese Capital.

Che numeri!

Less è una start-up giovanissima: la versione beta della sua app, quella cioè ancora in fase di sviluppo, è stata lanciata soltanto lo scorso dicembre; l’idea originaria è dell’anno precedente, il 2016. Il suo fondatore, Jean-Baptiste Rudelle, è lo stesso di Criteo, un’azienda quotata al Nasdaq che si occupa di pubblicità online. Nata nel 2003, Criteo oggi da lavoro a 2700 dipendenti. Less è la creatura più giovane di Rudelle: e anche se i suoi numeri sui social network sono tutt’altro che entusiasmanti – la start-up ha 2500 like su Facebook e appena 870 follower su Twitter – i numeri che contano li registra altrove. A novembre 2017 Less ha raccolto 19 milioni di dollari nel suo primo round di finanziamenti, scrive Techcrunch.

Il futuro di Blablacar? Un meccanismo tipo Uber

Non sarà stato probabilmente soltanto l’aspetto tecnologico a ingolosire i manager di Blablacar. L’azienda oggi è attiva soprattutto nei tragitti lunghi, extraurbani, mentre Less sta cercando di imporsi nella fetta di mercato che guarda ai passaggi più brevi, quelli in centro città. Secondo Journal du Net, la mossa va letta anche in questa direzione. E a confermarlo, implicitamente, è ancora Brusson, secondo cui i punti di forza di BlaBlaCar sono l’avere “una comunità (nutrita di utenti, ndr) e la capacità di ‘matchare’ – cioè far incontrare, ndr – le persone, mentre Less ci permetterà di migliorare nel seguire i guidatori per capire dove si muovono”. Un modello che Business Insider paragona a Uber e Deliveroo, servizi che fanno della capacità di localizzare i propri guidatori un’arma vincente per essere più efficienti della concorrenza.

Agi News

Perchè l’Antitrust ha bloccato gli aumenti delle bollette telefoniche

L'Antitrust dà ragione, almeno "in prima lettura", alle associazioni dei consumatori, che avevano denunciato a fine gennaio un aumento delle bollette telefoniche pari all'8,6%, in coincidenza con il ritorno dell'obbligo della fatturazione mensile in luogo di quella a 28 giorni. Un aumento generalizzato che aveva fatto sospettare un accordo in questo senso tra Tim, Vodafone, Fastweb e Wind Tre. E sembrerebbe sia avvenuto esattamente questo, a quanto risulta dall'istruttoria avviata a febbraio dall'Autorità, che ha intimato una "sospensione cautelare" dei rialzi e ordinato alle aziende di "definire la propria offerta in modo autonomo rispetto ai propri concorrenti". Un pronunciamento accolto con soddisfazione dall'Unione Nazionale Consumatori, che parla di "vittoria".

"Un danno grave e irreparabile per i consumatori"

Il Garante ha ritenuto che la documentazione acquisita durante le ispezioni "confermi prima facie l'ipotesi istruttoria secondo cui le parti avrebbero comunicato, quasi contestualmente, ai propri clienti che la fatturazione delle offerte e dei servizi sarebbe stata effettuata su base mensile anziché su quattro settimane, prevedendo, al contempo, una variazione in aumento del canone mensile per distribuire la spesa annuale complessiva su 12 mesi, invece che 13". Pertanto, "al fine di evitare il prodursi, nelle more della conclusione del procedimento, di un danno grave e irreparabile per la concorrenza e, in ultima istanza, per i consumatori, l'Autorità ha adottato misure cautelari urgenti intimando agli operatori di sospendere l'attuazione dell'intesa oggetto di indagine e di definire la propria offerta di servizi in modo autonomo rispetto ai propri concorrenti". 

"Continua, dunque, il pressing dei Garanti sulle società della telefonia e di Internet", sottolinea Repubblica, "solo pochi giorni fa, l'Autorità per le Comunicazioni ha ordinato che queste società restituiscano quanto hanno sottratto ai clienti attraverso la fatturazione illegittima, anticipata ogni 28 giorni. La restituzione dovrà avvenire sotto forma di sconto sul canone delle connessioni fisse".

La replica di Fastweb: "Sempre agito correttamente"

La prima azienda a replicare è Fastweb, che rivendica di aver "sempre agito correttamente" e di aver "costantemente perseguito politiche commerciali assolutamente indipendenti rispetto a quelle dei propri concorrenti"."Anche in relazione al tema della tempistica di fatturazione, rispetto alla quale l'Agcm ravvisa l'ipotesi di intese", si legge in un comunicato, "Fastweb sottolinea come la posizione dell'azienda sia sempre stata nettamente distinta da quella degli altri operatori sul mercato. Fastweb, infatti, è passata alla fatturazione a quattro settimane più di due anni dopo i propri concorrenti, quando tale approccio commerciale si era ormai affermato come prassi nel mercato ed al quale ha dovuto necessariamente adeguarsi. Rispetto, invece, al ritorno alla fatturazione mensile, Fastweb si è attenuta rigorosamente alla tempistica dettata dalla normativa rilevante ed alle indicazioni fornite da AgCom in merito alle modalità di comunicazione. Soprattutto Fastweb – a differenza dei propri concorrenti – in concomitanza con il ritorno alla fatturazione mensile, ha avviato una serie di elementi migliorativi dell'offerta, quali ad esempio l'abolizione di tutti i costi addizionali solitamente applicati dagli operatori sia per componenti fisiologiche – quali ad esempio il costo di attivazione o il costo per il piano tariffario – che per servizi ancillari pre-attivati – quali la segreteria telefonica o il servizio richiamami".

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