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Dopo Unicredit – Mps occhi su Banco Bpm. Si accende la partita su Generali

AGI – Ora che l’acquisizione della maggior parte degli assets di Mps da parte di Unicredit è più vicina, gli occhi degli investitori sono puntati su Banco Bpm. L’istituto nato dalla fusione fra il Banco Popolare e la Popolare di Milano (il primo merger bancario sotto l’egida della Bce) ieri ha sofferto in borsa, pagando la notizia dell’avvio delle trattative fra Unicredit e il Mef, che lo lascia in mezzo al guado.

Il possibile interesse di Unicredit

Le speculazioni su possibili aggregazioni avevano spinto nei mesi scorsi le azioni del gruppo guidato da Giuseppe Castagna sui massimi dal 2018, sopra i 3 euro per titolo, con un valore triplicato rispetto ai minimi toccati durante le fasi più pesanti della pandemia. Al tempo stesso però, le scelte di alcuni istituti che erano stati avvicinati a Banco Bpm hanno raffreddato l’appeal della società a Piazza Affari: se Unicredit ha sterzato con decisione verso Mps, Credit Agricole ha inglobato il Credito Valtellinese e Bper ha deciso di concentrarsi sulle filiali acquisite da Intesa Sanpaolo.

Sul mercato, però, c’è chi già scommette che Unicredit, dopo essersi presa le parti del Monte che le interessano, abbia già nel cassetto un dossier per conquistare anche la rivale milanese, così da tornare a sfidare Intesa, che negli ultimi anni è cresciuta nettamente fino a diventare la prima banca italiana, rompendo lo storico duopolio con l’istituto guidato da Andrea Orcel.

L’offerta non sarebbe ostile ma punterebbe su un accordo con il management della banca, che non ha azionisti di riferimento ma che vede parte dei principali azionisti riuniti in due patti di consultazione.

Il nodo Carige

Sul mercato però, anche ammesso di considerare la partita di Mps destinata alla chiusura, non tutti i nodi sono stati risolti: oltre all’Eba, infatti, ieri anche la Bce ha pubblicato i propri stress test su alcune banche di dimensione media e fra queste Carige è emersa come fragile. Il Fitd, dopo la ‘ritirata’ di Cassa Centrale, è impegnato a trovare un partner a cui consegnare la banca, messa in sicurezza dal fondo interbancario negli scorsi anni ma tutt’ora bisognosa di un porto sicuro a cui attraccare. Il domino non è dunque finito.

La sfida per la guida del Leone

Nella finanza italiana, poi, c’è un’altra importante partita in vista della quale i giocatori stanno posizionando le proprie pedine, ed è quella che riguarda l’asse Mediobanca-Generali. Leonardo Del Vecchio e Francesco Gaetano Caltagirone, rispettivamente terzo e secondo socio del Leone di Trieste, in vista del rinnovo del cda del prossimo anno si sono rafforzati anche al piano superiore, diventando nettamente il primo e potenzialmente il secondo azionista di Piazzetta Cuccia.

Non è un mistero negli ambienti finanziari che i due imprenditori-finanzieri abbiano messo nel mirino l’attuale ad di Generali, Philippe Donnet e che la loro presenza come soci forti di Mediobanca sia destinata ad avere un peso, sia pur indiretto, sulle scelte che il cda del Leone sarà chiamato a fare in vista della stesura della lista per il proprio rinnovo da presentare agli azionisti il prossimo anno. 

Del Vecchio, poi, è anche il primo socio italiano di Unicredit, ma per ora non si è espresso sulla mossa di Orcel. A benedirla, invece, è arrivato un altro dei soci storici dell’istituto, fondazione Cariverona, che ha parlato di mossa coraggiosa.


Dopo Unicredit – Mps occhi su Banco Bpm. Si accende la partita su Generali

La partita del Recovery Fund si fa sempre più complicata

AGI – Le tensioni politiche italiane e i timori per la tenuta del governo rischiano di complicare la partita europea sul Recovery Fund e mettono in allarme i partner europei. A pochi giorni dal voto parlamentare sulla riforma del Mes e dal vertice dei capi di Stato e di governo Ue, l’Europa guarda con attenzione a quello che succederà a Roma.

La stampa tedesca manda un segnale chiaro al nostro Paese e fa trasparire la preoccupazione di Berlino per il braccio di ferro interno alla maggioranza, che potrebbe rallentare ulteriormente la partita del Recovery Fund, già frenata dal veto ungherese e polacco sullo stato di diritto.

“L’Italia gioca col fuoco”, scrive la Welt. Anzi, “è il paziente a rischio dell’Europa”, incalza lo Spiegel. Al momento, in vista del vertice dei leader di giovedì e venerdì, Bruxelles si limita a osservare quello che accade a Roma. I circa 209 miliardi tra sussidi e prestiti del Recovery che spettano all’Italia sono solo virtualmente assegnati al nostro Paese (così come agli altri Stati membri Ue), che per ottenerli avrà bisogno di convincere le istituzioni europee con un dettagliato piano di riforme e investimenti da collegare a un calendario di obiettivi da raggiungere.

“Non siamo in ritardo, l’importante è avere un buon piano”, ribadisce il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri. Tuttavia l’ipotesi che l’Italia possa arrivare senza un governo a febbraio, quando presumibilmente i piani nazionali di riforme saranno inviati alla Commissione, rischia di rendere più difficile la partita europea.

La procedura di approvazione dei “piani per la ripresa e la resilienza” dopo la prima valutazione della Commissione, che può prendere fino a due mesi di tempo, prevede infatti l’assegnazione di un punteggio da parte dell’esecutivo Ue. Il ‘voto’ verrà assegnato in funzione “della coerenza con le raccomandazioni specifiche per Paese, nonché del rafforzamento del potenziale di crescita, della creazione di posti di lavoro e della resilienza sociale ed economica dello Stato membro”.

L’eventuale valutazione positiva “deve essere approvata dal Consiglio a maggioranza qualificata su proposta della Commissione”, e per questo secondo passaggio Bruxelles assegna altre quattro settimane di tempo. Solo il semaforo verde delle due istituzioni Ue farà partire il prefinanziamento del 10% dei fondi, ma darà anche il via al tempo assegnato ai Paesi beneficiari dal crono-programma di “target intermedi e finali” compresi nei piani nazionali.

A vigilare sull’effettiva attuazione degli obiettivi previsti sarà il comitato economico e finanziario, composto da alti funzionari delle amministrazioni nazionali e delle banche centrali nazionali, della Banca centrale europea e della Commissione. La governance del Recovery Fund non contempla dunque alcuna prospettiva di cambio di Governo che possa portare a una revisione parziale o generale dei piani di ripresa e resilienza. Viene invece espressamente disciplinata, questa sì, l’eventualità di “gravi scostamenti dal soddisfacente conseguimento dei pertinenti target intermedi e finali”, cioè il ritardo del Paese nel raggiungere gli obiettivi promessi. In questo caso la questione può essere trattata dai leader in persona durante il primo vertice europeo previsto. Ma fino ad allora “la Commissione non prenderà alcuna decisione relativa al soddisfacente conseguimento dei target e all’approvazione dei pagamenti”.

In altre parole, da un eventuale stallo durante il piano di ripresa potrebbe arrivare uno stop ai fondi da Bruxelles, che tornerebbero virtuali come al punto di partenza. L’unica finestra di revisione del Recovery si apre nel 2022 quando “i piani saranno riesaminati e adattati” al fine di “tenere conto della ripartizione definitiva dei fondi per il 2023”. I soldi che non verranno spesi, anche se assegnati all’Italia, resteranno nelle casse Ue.

Agi

Una startup da 3 miliardi sta facendo vincere alla Cina la partita dell’intelligenza artificiale

Se il predominio cinese nell’intelligenza artificiale è sempre più tangibile lo si deve anche a una start up di Hong Kong specializzata nel riconoscimento facciale: si chiama Sense Time. Nata nel 2014 dall’idea di un ambizioso professore universitario, Tang Xiaoou, è stato però un suo ex allievo, Xu Li, 40 anni, a lanciarla due anni dopo, diventandone Ceo.

Ha appena ricevuto un finanziamento di 600 milioni da una cordata di investitori (tra cui Temasek e Suning) guidata da Alibaba, raggiungendo così il valore di 3 miliardi di dollari; pochissime società statunitensi riescono a valere tanto basandosi quasi unicamente sul riconoscimento facciale, che in Cina ha conosciuto un vero boom. La società gode anche del sostegno di altri investitori, tra cui il colosso americano dei processori, Qualcomm, e il gigante cinese del real estate, Dalian Wanda. Ha clienti in tutto il mondo (oltre 400) e si sta espandendo in altri settori, come il deep learning e la guida autonomia, scrive il Financial Times.

Il cliente più grande? Ovvio: il governo cinese (30% del portfolio, scrive Quartz), che punta a trasformare l’AI in una industria da 150 miliardi di dollari entro il 2030, e dal quale Sense Time ha ottenuto pieno accesso ai dati dei cittadini. Non c’è solo questo: la Cina ha già assunto una posizione dominante nel mercato mondiale della videosorveglianza, e sta conducendo vari esperimenti che utilizzano il riconoscimento facciale per tracciare ogni movimento della popolazione. Dei giorni scorsi la notizia dell’arresto di un uomo sospettato di reati economici individuato dalle forze dell’ordine durante un concerto pop a Nanchang, nella Cina sudorientale, in mezzo a 50mila persone.

In Cina si contano già 176 milioni telecamere di sicurezze, con un incremento annuale del 13% dal 2012 al 2017; un dato che fa impallidire il 3% che ne scandisce la crescita a livello globale.

Sense Time, che in comune con i suoi principali rivali, Megvii e Yitu, ha l’altissimo valore di mercato, non è l’unica società ad avere avviato sperimentazioni con le forze di polizia. Nel febbraio scorso, in occasione del consueto esodo di massa per i festeggiamenti del Capodanno lunare, la polizia ferroviaria di Zhengzhou (capoluogo della provincia dello Henan) arrestò sette ricercati e altri 26 truffatori in possesso di falsi documenti. Sugli occhiali degli agenti era stata montata una mini telecamera in grado di realizzare uno screening di massa quasi perfetto. Il dispositivo era stato realizzato da LLVision Technology Co.

Il ministero per la Pubblica Sicurezza nel 2015 ha lanciato un piano che punta a creare un sistema in grado di collegare in pochissimi secondi il volto di ciascun cittadino con la foto identificativa: un database utilizzato per motivi di sicurezza ma le cui immaginabili conseguenze in termini di privacy per i cittadini ha già sollevato molti dubbi.

Nella corsa a immagazzinare i dati degli utenti, inestimabile tesoro da usare in vari ambiti, dalle campagne pubblicitarie al sistema di credito sociale, il programma di rating che assegna un voto alle attività online dei cittadini e delle imprese, Alibaba, Tencent e Baidu da tempo trasferiscono alle forze dell'ordine le tracce elettroniche degli utenti, dalle chat agli acquisti online.

Il riconoscimento facciale – tema caldo in questi giorni con l’arrivo della controversa tecnologia su Facebook in Europa – sta rivoluzionando anche altri settori, dal retail banking ai pagamenti online.

Pochi cinesi hanno probabilmente sentito parlare di Sense Time. Che però di loro sa tutto. Se entri al negozio di Suning, il colosso dell’elettronica cinese (quello che ha comprato l’Inter), è possibile che una telecamera di sicurezza stia registrando ogni tuo movimento: dentro c’è un software di Sense Time.

Se apri Rong360, un’app molto popolare in Cina che serve a farsi prestare soldi da altra gente (il cosiddetto “peer-to-peer lending”: un sistema di crowdfunding individuale che sopperisce alla carenza del credito finanziario), ti verrà chiesto di fare login con il riconoscimento facciale.

Chi lo sviluppa? Sense Time. Potrebbe poi venirti voglia di farti un video e mandarlo agli amici utilizzando Snow, app simile a Snachap, indossando occhiali per la realtà aumentata – fatti da Sense Time. Dalle prigioni ai grandi magazzini, Xu Li corteggia pubblico e privato (tra i suoi clienti figura anche Walmart).

Mentre continuano le schermaglie commerciali tra le due principali economie del mondo (stando a un rapporto di Rhodium Group, gli investimenti diretti cinesi negli Stati Uniti sono calati del 35% nel 2017; flessione da imputare in parte ai controlli delle autorità di Pechino sul movimento di capitali, ma soprattutto alle attività di interdizione esercitate dall’agenzia Usa sugli investimenti esteri: Cfius), uno dei settori nei quali Washington teme di perdere l’egemonia è proprio l’intelligenza artificiale.

Il rivale asiatico potrebbe avere già vinto, a partire dal settore militare. L’innovazione è il terreno in cui si consuma uno scontro più ampio: la Cina ha già scavalcato il Giappone come seconda potenza al mondo per brevetti internazionali, e l’Onu prevede il sorpasso sugli Usa in tre anni. Donald Trump, per sabotare le ambizioni del presidente cinese Xi Jinping, ha lanciato una dura rappresaglia contro i prodotti tecnologici. Il bersaglio è il Piano Made in China 2025, il programma di innovazione manifatturiera del gigante asiatico. Pechino ha risposto con controdazi che colpiscono la base elettorale del presidente americano. 

Agi News