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Tra pandemia e guerra non c’è pace per ristoranti e bar

AGI – Ci mancava solo che la guerra, dopo due anni di pandemia. È il refrain di queste settimane che si rincorre di bocca in bocca in tutti i settori economici e commerciali. E dove le prospettive di ripresa ancora languono. In particolare nel mondo della ristorazione, che i due anni di pandemia hanno particolarmente avvilito nelle consuetudini: ci si continua a muovere meno da casa e si consumano preferibilmente pranzi e cene tra le mura domestiche mentre sembra aver preso piede anche l’abitudine a sfruttare il delivery.

Tutto questo è anche dovuto al protrarsi della pandemia, visti i progressivi aumenti dei contagi delle ultime settimane. Il quadro attuale lo fotografa bene il Rapporto Ristorazione 2021 di Fipe Confcommercio secondo cui ad oggi sono “oltre 23mila le aziende che hanno cessato la loro attività nel solo 2021, una cifra che – sommata a quella del 2020 – arriva a un totale di 45mila locali che hanno chiuso i battenti nel periodo della pandemia, confermando l’andamento dell’anno precedente”.

Tutte chiusure che hanno come contraltare anche una compressione delle nuove imprese: solo 8.942 nel 2021. E quelle che ci sono state, hanno risentito enormemente della stagione pandemica: oltre il 30% delle attività aperte nel 2019 non ci sono più. Del resto, turismo e ristorazione i settori più colpiti dall’emergenza coronavirus, con perdite (rispetto al 2019) che sfiorano i 34 miliardi di euro nel 2021, che diventano 56 miliardi se si considera il biennio appena trascorso.

Per quanto riguarda il turismo internazionale, le perdite si assestano a meno 23 miliardi di euro e colpiscono soprattutto le città d’arte. Si tratta di cifre che solo in minima parte risultano bilanciate dalla crescita dei consumi domestici: appena 7 miliardi. Si stima infatti che queste perdite interessino la produzione agroalimentare per un valore di circa 15 miliardi.

Tutti questi numeri incidono anche sulla perdita di posti di lavoro e la riduzione degli impiegati nell’intero comparto: sono 193mila in meno rispetto al 2019, in particolare donne e giovani, gli anelli più fragili della catena lavorativa. Almeno un terzo delle imprese denuncia infatti di aver perso personale, cifra da leggere alla luce d’una ristorazione – quella italiana – fatta principalmente di aziende a conduzione familiare, in cui solo il 40% ha dipendenti.

Alla perdita di posti di lavoro, s’accompagna la difficoltà di trovare personale, soprattutto professionalizzato e formato: il rapporto parla di 4 aziende su 10 che lamenta la mancanza di candidati validi. Tuttavia, si legge nell’indagine Fipe, nella paralisi del settore incide anche il caro materie prime e l’energia ha la sua incidenza: l’87% degli imprenditori registra aumenti della bolletta energetica fino al 50% e del 25% per i prodotti alimentari mentre i rincari sono assorbiti, allo stato attuale, dagli esercenti: a febbraio 2022, lo scontrino medio è salito del 3,3% rispetto a un incremento generale dei prezzi del 5,7%.

Oltre metà (56,3% di bar e ristoranti) non rivedrà a breve al rialzo i propri listini, ma sarà a breve inevitabile, oltre che necessario, per poter remunerare correttamente i dipendenti. Le prospettive sono poi ancora più incerte dallo scenario di guerra che impatta sulle produzioni alimentari, materie prime energetiche.


Tra pandemia e guerra non c’è pace per ristoranti e bar

Dall’inizio della pandemia registrati 327 mila lavoratori autonomi in meno

AGI – In questi ultimi 20 mesi la crisi occupazionale provocata dal Covid non ha colpito indistintamente tutti. A pagare il conto più “salato”, purtroppo, sono stati i lavoratori indipendenti, ovvero gli autonomi e le partite Iva, che dal febbraio 2020 (mese pre Covid), al settembre 2021 (ultimo dato disponibile fornito dall’Istat), sono diminuiti di 327 mila unità (-6,3%).

Diversamente, i lavoratori dipendenti, anche se di poco, sono invece aumentati: sempre nello stesso arco temporale, lo stock complessivo degli impiegati e degli operai presenti in Italia è salito di 13 mila unità (+0,1%). A dirlo è l’Ufficio studi della Cgia di Mestre che sottolinea come il risultato positivo registrato dai lavoratori dipendenti è ascrivibile a un deciso aumento del numero dei lavoratori a tempo determinato; questi ultimi, tra febbraio 2020 e settembre di quest’anno, sono cresciuti di +108 mila unità; per contro, gli occupati a tempo indeterminato sono diminuiti di 95 mila.

Complessivamente, il gap occupazionale tra il febbraio 2020 e lo scorso mese di settembre rimane ancora negativo, anche se non ha nulla a che vedere con i picchi toccati nella primavera scorsa: l’ultimo dato disponibile, aggiunge la Cgia, ci dice che lo stock degli occupati presenti nel Paese rispetto al dato pre pandemia è più basso di 314 mila unità (-1,4 per cento).

Molti autonomi potrebbero essere tornati a fare i dipendenti  

Se analizziamo l’andamento degli occupati per fasce di età, dettaglia la Cgia di Mestre, riscontriamo che in questi ultimi 20 mesi è in calo sia il numero presente nella coorte dei giovani (15-34 anni) sia quello riconducibile alla mezza età (35-49 anni): rispettivamente di 98 mila e di 371 mila unità. Ad aumentare di numero, invece, è stata la platea degli over 50 che in questa fase di pandemia è cresciuta di 154 mila unità.

Premesso che i dati Istat non consentono di decifrare l’andamento dei flussi in entrata/uscita registrati in questo arco temporale, questo incremento potrebbe essere ascrivibile al fatto che molti autonomi e altrettanti collaboratori familiari o soci di cooperative di una certa età abbiano chiuso la propria posizione Inps; successivamente sono rientrati nel mercato del lavoro come dipendenti, sfruttando l’esperienza e la professionalità acquisita in tanti decenni di onorata carriera.

Soffrono ancora le città d’arte

Ad aver patito maggiormente gli effetti della crisi sono state le città d’arte. Anche in questi ultimi mesi di riapertura totale, in queste realtà urbane le difficoltà rimangono. L’Ufficio studi della Cgia ricorda che stiamo parlando di città che sono delle vere e proprie eccellenze nei settori della moda, del gioiello e dell’artigianato di qualità; tutti comparti che, in genere, costituiscono un’importante attrazione turistica per il nostro Paese.

Queste attività di alta gamma beneficiano dei medesimi flussi turistici che sostengono le attività ricettive, i pubblici esercizi e il trasporto pubblico locale (taxi e noleggio con conducente), con i quali spesso si sviluppano sinergie importanti. In città come Firenze e Venezia, ad esempio, il giro d’affari di queste attività commerciali-artigianali dipende, in media, almeno per il 60-70 per cento dagli acquisti dei turisti stranieri, soprattutto di provenienza extra Ue che in questi ultimi 2 anni sono mancati totalmente; pensiamo al crollo del turismo croceristico che ha messo a repentaglio migliaia e migliaia di posti di lavoro.

Pertanto, è necessario un intervento per “tappare” una crisi apparentemente infinita che sta gravemente compromettendo non solo le imprese della ricettività, del trasporto locale e dei servizi turistici, ma anche ristoranti, botteghe e negozi delle mete culturali e dei centri storici, rimasti ormai senza “fiato”. Imprese che devono essere sostenute più a lungo, con contributi a fondo perduto, ammortizzatori sociali e credito di imposta per gli affitti.

Si istituiscano i tavoli di crisi

Da almeno sei mesi la Cgia chiede sia al Governo che ai governatori di aprire un tavolo di crisi permanente a livello nazionale e regionale. Mai come in questo momento, dice l’associazione, infatti, è necessario dare una risposta ad un mondo, quello delle partite Iva, che sta vivendo una situazione particolarmente delicata. Intendiamoci, nessuno è in grado di risolvere i problemi con un semplice tocco di bacchetta magica.

Non dobbiamo nemmeno dimenticare che in questo ultimo anno e mezzo oltre ai ristori (ancorchè del tutto insufficienti), gli esecutivi che si sono succeduti hanno, tra le altre cose, approvato l’Iscro, esteso l’utilizzo dell’assegno universale per i figli a carico anche agli autonomi ed è stato introdotto il reddito di emergenza per chi è ancora in attività. Tutte misure importanti, ma insufficienti ad arginare le difficoltà emerse in questi mesi di pandemia.

A rischio la coesione sociale

È importante ribadire, conclude la Cgia, che i negozi di vicinato e le tante botteghe artigiane presenti nel Paese hanno bisogno di sostegno perchè garantiscono la coesione sociale anche del nostro sistema produttivo. Con meno serrande aperte le città e i nostri quartieri sono meno vivibili, più insicure; inoltre è a rischio la qualità del nostro made in Italy.

È necessario coinvolgere il Ministero dell’Istruzione affinchè attivi quanto prima una importante azione informativa/formativa nei confronti degli studenti delle scuole medie superiori che li sensibilizzi in particolar modo su un punto; una volta terminato il percorso scolastico, nel mercato del lavoro ci si può affermare anche come lavoratori autonomi.


Dall’inizio della pandemia registrati 327 mila lavoratori autonomi in meno

La pandemia ha fatto crollare il fatturato di macchinette e distributori automatici

AGI –  Nel 2020 la pandemia ha causato la perdita di oltre il 31% di fatturato del settore della distribuzione automatica, che ha chiuso l’anno con un fatturato di 1,6 miliardi di euro per un totale di 4,4 miliardi di consumazioni in Italia. Lo rivela uno studio Ipsos per Confida, l’associazione italiana distribuzione automatica. Tra gennaio e agosto 2021 si è assistito a una ripresa (+9,21%) rispetto allo stesso periodo del 2020.

A trainare questa ripresa il caffé (+12,13%) e acqua (+10,88%) che si confermano i prodotti più consumati ai distributori automatici. Tuttavia, il settore è ancora lontano dalla situazione pre-pandemia e, rispetto allo stesso periodo del 2019, registra un -15,17%, rileva la ricerca.

Per il presidente di Confida, Massimo Trapletti, “il settore della distribuzione automatica ha risentito in maniera significativa delle restrizioni. I principali indicatori mostrano che il peggio è passato ma il settore non è ancora tornato ai livelli pre-covid. Attraverso queste quattro proposte, invitiamo il Governo a continuare a dialogare con la filiera per aiutarla a uscire definitivamente dalla crisi economica legata all’epidemia da Covid-19 e a far tornare a crescere un settore che e’ leader a livello internazionale.”

L’Italia, infatti, ha la più ampia rete distributiva alimentare automatica d’Europa con oltre 802 mila vending machine installate, seguito da Francia (626 mila), Germania (611 mila) e Inghilterra (408 mila). Sono più di 3000 le imprese della distribuzione automatica in Italia, con un indotto occupazionale di oltre 30 mila persone.

A questi numeri si devono aggiungere le imprese coinvolte in tutta la filiera, come quella dei produttori alimentari e dei fabbricanti di accessori e di tecnologie per le vending machine. 


La pandemia ha fatto crollare il fatturato di macchinette e distributori automatici

“Negli Stati Uniti la pandemia ha frantumato il mercato del lavoro”

AGI – “Il dato sull’occupazione americana è molto sorprendente, quasi sconvolgente. Ci si aspettava che ad aprile l’economia Usa creasse oltre un milione di posti e invece ne sono arrivati appena 226mila. Il motivo? La domanda di lavoro c’è, ma apparentemente manca l’offerta. Oppure, forse, la risposta è un po’ più complessa. Il mondo del lavoro Usa esce frantumato da questa pandemia. C’è troppa volatilità sui dati e troppa dislocazione sul mercato del lavoro, sulla logistica. Si tratta di fatti nuovi, che non si erano mai visti prima”.

Così, a caldo, il professor Fabrizio Pagani, esperto di macroeconomia, capo della segreteria tecnica dell’ex ministro italiano dell’Economia e delle Finanze, Pier Carlo Padoan, consigliere economico dell’ex Presidente del Consiglio Enrico Letta ed ex sherpa del G20, prova a spiegare all’AGI i deludenti dati del mercato del lavoro Usa.

 “Diciamo così: domanda e offerta di lavoro non sono più stabili. In altre parole, mentre prima domanda e offerta s’incrociavano in modo tutto sommato naturale, ora a causa della dislocazione e cioè dei troppi spostamenti il mercato è diventato più complesso, più difficile da decifrare. C’è stato un rimescolamento. Con la pandemia si è creata più volatilità, perché si crea molta domanda dove non c’è abbastanza offerta, oppure si crea offerta in settori dove non c’è domanda. Ecco questo è il concetto di dislocazione“, afferma Pagani. 

Per spiegare ancora meglio il concetto, Pagani prova a fare qualche esempio. “L’economia, dopo la pandemia, tende a riprendersi meglio nel settore manifatturiero e cioè nell’industria, piuttosto che nei servizi. Per cui chi lavorava nei servizi, cioè nei ristoranti, nel commercio, o nel settore viaggi si è spostato nel settore manifatturiero, dove si assume di più e si è più tutelati. E ora, che i servizi riaprono, chi si è spostato in fabbrica, non torna indietro, non riprende a fare il cameriere”.

“La pandemia – prosegue – crea una frantumazione del mondo del lavoro, un cambiamento radicale, che è difficile da rimarginare, anche delle abitudini lavorative. Prendiamo i baby boomer, quelli nati negli anni Cinquanta e Sessanta, che oggi hanno intorno ai 60 anni, o sono over 55. E’ gente che ha lavorato 40 e più anni e che prende al balzo i mutamenti introdotti dalla pandemia, per lasciare il lavoro, andare i pensione, o part time, o lavorare da casa. Trova la scusa psicologica, o contrattuale della pandemia per iniziare a fare altre cose”.

    “Insomma, – spiega ancora – questa frantumazione del mondo del lavoro è più profonda di quanto non appaia a prima vista e anche le statistiche del mondo del lavoro incominciano a dimostrarlo”. “E poi il dato sull’occupazione Usa ad aprile dimostra anche un’altra cosa. E cioé che aveva ragione la Federal Reserve, almeno per ora. Powell ci ha visto giusto. Nel senso che era giusto mantenere le politiche accomodanti e che non ci sono problemi di inflazione, perché certi aumenti dei prezzi sono temporanei e non innescano aumenti a catena sul mercato del lavoro. Non ci sono pressioni sui salari. Lo dimostra il fatto che dopo i dati Usa sull’occupazione statunitense, il Treasury a 10 anni è sceso”.


“Negli Stati Uniti la pandemia ha frantumato il mercato del lavoro”

L’imprenditore di Rimini che sfida la pandemia e apre 12 ristoranti

AGI – C’è un imprenditore riminese, Rino Mini, che nonostante la pandemia e le ancora presenti limitazioni ha deciso di investire 12 milioni di euro per aprire 12 nuovi ristoranti creando una nuova catena dal nome ‘Baker_Eat’. Già patron dello storico brand di acqua minerale ‘Galvanina‘, Mini è pronto a questo maxi-investimento: un segnale di fiducia e di ripresa che garantirà la creazione di almeno 250 nuovi posti di lavoro. “Effettivamente – spiega – l’impegno è consistente sia dal punto di vista imprenditoriale, che strettamente finanziario”.

“Abbiamo pensato di aprire – aggiunge Mini – anche una vera e propria ‘Accademia Ferramenta’ per la formazione professionale del personale addetto al servizio di cucina, di bar-caffetteria e di sala: oggi sono di fondamentale importanza l’educazione al lavoro e il training di giovani che vogliano affacciarsi con serietà e passione al mondo della ristorazione. Occorrono competenze certe, disciplina, buoni insegnamenti, pratica: per questo l’Accademia sarà una sorta di college, un convitto obbligatorio sia per i romagnoli, che per i forestieri, proprio allo scopo di far vivere pienamente l’esperienza formativa”.

Il ‘fil rouge’ che accomunera’ i 12 locali è il concept di ‘Bakery Americana’, con una nota di ‘Boulangerie francese’, ma il tutto in puro stile italiano dove, a fare da collettore al network, saranno le farine prodotte da grani antichi e, quando possibile, autoctoni.

I punti cardine della formula

Sarà “una formula di ristorazione – racconta Mini – che ruoterà attorno ad alcuni punti cardine per me fondamentali: la nostra proverbiale creatività tutta romagnola, che ha fatto scuola nel mondo, capace di innestare le novità anche sui ceppi ideologici più tradizionali; la valorizzazione del nostro saper fare le cose con la generosità che contraddistingue la nostra gente; il rispetto rigoroso per il territorio e per le sue straordinarie biodiversità”.

Il cibo di qualità, viene spiegato, sarà “il nostro più efficace vaccino anti covid e il più convincente mezzo di divulgazione. Nelle principali città romagnole (oltre a Rimini e Sant’Arcangelo di Romagna, Ravenna, Forlì, Cesena, Savignano, Cesenatico, Riccione, Cattolica) ed emiliane (Bologna, Modena, Parma) le dodici strutture offriranno il piacere del buon pane abbinato a una cucina di spessore a prezzi popolari, così da diventare più accogliente e accessibile per gran parte della popolazione.

Ogni locale, collocato in posizioni centrali, sarà servito da navette elettriche ed ecologiche gratuite, per facilitare non solo l’arrivo dei clienti che verranno prelevati ai parcheggi delle città, ma persino per il trasporto di eventuali pacchi e merci acquistate dai nostri ospiti nei negozi dei centri storici, prima o dopo – conclude Mini – la sosta nel ristorante”.


L’imprenditore di Rimini che sfida la pandemia e apre 12 ristoranti