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Le Pmi pagano di più elettricità e gas rispetto alle grandi aziende. L’analisi della Cgia 

AGI – “Il caro energia sta colpendo indistintamente tutte le nostre imprese, anche se le piccole, ben prima degli aumenti boom registrati negli ultimi mesi, subiscono un trattamento di ‘sfavore’ rispetto alle grandi realtà produttive”. Questa è la posizione presa dalla Cgia di Mestre.

Secondo gli ultimi dati Eurostat relativi al primo semestre 2021, infatti, le piccole aziende pagano l’energia elettrica il 75,6% e il gas addirittura il 133,5% in più delle grandi. “Questo differenziale, a scapito dei piccoli, colpisce anche le realtà di pari dimensioni presenti nel resto d’Europa, sebbene negli altri Paesi questo gap sia più contenuto del nostro”.

“Se ancora ce ne fosse bisogno, questa è un’ulteriore dimostrazione che il nostro Paese non è a misura di piccole imprese. Sebbene queste ultime costituiscono oltre il 99% delle aziende presenti in Italia, diano lavoro ad oltre il 60 per cento degli addetti del settore privato e siano la componente caratterizzante il made in Italy nel mondo, continuano ad essere ingiustificatamente discriminate”, spiega l’analisi della Cgia.

Ormai si lavora di notte

In questa prima settimana di rientro dopo le vacanze natalizie, ad esempio, molte di queste realtà hanno deciso di introdurre o di potenziare il turno di notte per abbattere i costi energetici. Pertanto, tra assenze legate al Covid e la necessità di rimodulare il ciclo produttivo per tagliare il costo delle bollette, non sono poche le attività che hanno organici ridotti all’osso e grosse difficoltà a garantire processi produttivi efficienti.

Le misure introdotte dal governo 

Per abbattere i costi delle bollette di luce e gas il Governo Draghi a messo a punto una serie di interventi che sono entrati in vigore nella seconda parte del 2021, per un importo complessivo pari a 8,5 miliardi di euro. I principali sono:

  1. La conferma dell’azzeramento degli oneri generali di sistema applicato alle utenze elettriche domestiche e alle utenze non domestiche in bassa tensione, per altri usi, con potenza disponibile fino a 16,5 kW e la sostanziale riduzione degli oneri per le restanti utenze elettriche non domestiche;
  2. Per tutte le utenze la riduzione dell’Iva al 5% del il gas naturale;
  3. L’annullamento, già previsto nel quarto trimestre 2021, degli oneri di sistema per il gas naturale, per tutte le utenze, domestiche e non domestiche;
  4. Il potenziamento del bonus applicato ai clienti domestici del settore elettrico e del gas naturale in condizione economicamente svantaggiata ed ai clienti domestici in gravi condizioni di salute.

I piccoli sono più penalizzati

In merito alle tariffe dell’energia elettrica, ad aver aumentato lo storico differenziale tra piccole e grandi imprese ha contribuito l’entrata in vigore, dal primo gennaio 2018, della riforma degli energivori. L’effetto prodotto da questa novità legislativa, che prevede un costo agevolato dell’energia elettrica per le grandi industrie, di fatto ha azzerato a queste ultime la voce ‘Oneri e Imposte’, ridistribuendola a carico di tutte le altre categorie di imprese escluse dalle agevolazioni, spiega la Cgia. 

È altresì vero che a seguito delle misure messe in campo dal Governo Draghi nella seconda parte del 2021, questo gap si è leggermente ridotto. Per quanto concerne il gas, invece, il divario tariffario è riconducibile al fatto che tutte le grandi imprese ricevono dai fornitori delle offerte personalizzate con un prezzo stabilito su misura e sulla base delle proprie necessità.

Pertanto, in sede di trattativa, il peso dei consumi è determinante per ‘strapparè al fornitore una tariffa molto vantaggiosa. Possibilità che, ovviamente, alle piccole imprese è preclusa. Va altresì ricordato che nel mercato libero le offerte di prezzo possono interessare solo la componente energia; le altre voci di spesa – come le spese di trasporto, gli oneri di sistema, la gestione del contatore etc. – sono stabilite periodicamente dall’Autorità per l’Energia e sono uguali per tutti i fornitori.

Anche in Europa le Pmi pagano di più

Concentrando l’attenzione solo sulle piccole imprese, dal confronto con le realtà produttive europee di pari dimensione emerge che in Italia i costi energetici sono tra i più elevati. Tra tutti i paesi dell’Area euro, infatti, solo rispetto alla Germania le nostre imprese pagano meno (del 12,6%).

Rispetto alla media europea, invece, i nostri piccoli imprenditori pagano mediamente il 15% in più. Quando si analizza il costo del gas, invece, tra i Paesi dell’Area euro le Pmi italiane sono al terzo posto (dopo Finlandia e Portogallo) per la tariffa più elevata. Se, come riportato più sopra, quella mediamente applicata nel nostro Paese per ogni MWh (Iva esclusa) consumati è pari a 53,7 euro, registriamo una variazione di prezzo rispetto alla media dei paesi che utilizzano la moneta unica del +7,6%.

L’incidenza delle imposte è al top

Assieme all’andamento del costo della materia prima, in Italia la componente fiscale è l’altra voce che contribuisce in maniera determinante ad innalzare il costo delle tariffe. Sempre nel primo semestre 2021, per la bolletta elettrica, ad esempio, in riferimento alle piccole imprese il 40,7% del costo totale è riconducibile a tasse e oneri: la media dell’Area euro, invece, è del 35,7%.

Per quella del gas, invece, se in Italia l’incidenza percentuale della tassazione sul costo totale a carico delle piccole aziende è del 27%, nell’Area euro si attesta attorno al 25%. “Come segnalavamo più sopra, va comunque ricordato che a seguito delle misure messe in campo dal Governo Draghi, l’incidenza del peso del fisco sul costo complessivo delle tariffe energetiche è leggermente diminuito”, conclude la Cgia.  


Le Pmi pagano di più elettricità e gas rispetto alle grandi aziende. L’analisi della Cgia 

I committenti pagano in ritardo e le Pmi sono in difficoltà

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Una piccola azienda su due segnala che i tempi di pagamento dei committenti privati si sono allungati a dismisura e questo sta mettendo a rischio la tenuta finanziaria di tantissimi autotrasportatori, produttori di imballaggi  e di una parte di  attività metalmeccaniche che, in questo periodo di lockdown, hanno comunque lavorato. Lo segnala la Cgia di Mestre. Realtà, fa sapere la Cgia, che anche in condizioni di normalità economica sono spesso a corto di liquidità e sottocapitalizzate. 

“La questione liquidità per le piccole imprese è dirimente. – afferma il coordinatore dell’Ufficio studi Paolo Zabeo – Se anche coloro che hanno lavorato faticano ad incassare le proprie spettanze, è evidente che bisogna cambiare registro. Ovvero, stop a prestiti bancari a tassi comunque non proprio prossimi allo zero, che costringono le attività ad indebitarsi ulteriormente. Sì, invece, a contributi a fondo perduto. Se con troppi debiti le piccole imprese sono destinate a saltare, lo Stato, invece, anche con un debito pubblico maggiore, può reggere, grazie anche alle misure che la Bce e l’Unione Europea  metteranno  in campo nei prossimi mesi”. 

“Anche chi ha potuto tenere aperto – come i fotografi, gli ottici e le pulitintolavanderie – ricavi ne ha fatti molto pochi e sta riflettendo se con la fine del lockdown avrà comunque senso continuare l’attività. Per questo, oltre a dare liquidità a fondo perduto a queste piccole attività, è necessario anche un taglio fiscale importante sin da subito”, dice ancora Mason. 

In merito alla cosiddetta “fase 2”, la Cgia auspica che le attività possano aprire quanto prima, decisione, ovviamente, che deve essere avallata dalla comunità scientifica, in quanto la salute dei cittadini e dei lavoratori autonomi/dipendenti deve essere posta sempre al primo posto. Tuttavia, ciò che sorprende e che non si parli per nulla della cosiddetta “fase 3”, vale a dire quella del rilancio economico. In altre parole, il Governo non sembra avere  un piano di rilancio, un progetto, un’idea sul futuro del Paese. Un’azione che sarebbe indispensabile, anche per dettare la linea a tanti imprenditori che dopo questa esperienza si sentono disorientati e confusi. 

Agi

Perché gli host Airbnb non pagano la cedolare secca per gli affitti brevi

Ad oggi la piattaforma non ha trattenuto l’imposta del 21% in attesa di leggere il provvedimento dell’agenzia delle entrate emesso mercoledì. 
Il 16 luglio è la data ultima per gli host di Airbnb (coloro che affittano casa) per mettersi in regola col fisco pagando la cedolare secca del 21%. Ma difficilmente lunedì 17 entrerà qualcosa nelle casse dello Stato perché quello che trapela è che ad oggi la piattaforma non ha trattenuto l’imposta per il mese di giugno in attesa di leggere il provvedimento dell’agenzia delle entrate emesso mercoledì. Contattato dall’Agi, Airbnb sceglie di mantenere il silenzio. Almeno per le prossime ore.  

Cos’è la tassa ‘Airbnb’

Dal 1 giugno è in vigore la nuova misura che prevede una transazione secca del 21% anche per gli affitti brevi “inferiori ai 30 giorni, stipulati da persone fisiche direttamente o tramite soggetti che esercitano attività di intermediazione immobiliare, anche attraverso la gestione di portali online”. Come Booking e Airbnb, per intenderci. Il provvedimento, inserito nella manovra correttiva di primavera ha sostituito quella dell'Irpef e quella di registro che chi affitta è chiamato a pagare a fine anno con la dichiarazione dei redditi. 

“Mai come sostituti d’imposta”

Ma il colosso dell’home-sharing non ne vuole sapere. Le ragioni del braccio di ferro, Airbnb, le ripete da tempo: non ha alcuna intenzione di operare da sostituto d’imposta.  Secondo quanto stabilito nel provvedimento, “Airbnb e le altre società che offrono il servizio di intermediazione immobiliare per le locazioni non superiori a 30 giorni devono, da questo mese, farsi carico di trasmettere al fisco i dati relativi ai contratti conclusi”. In particolare, si legge sul Sole 24 Ore, “devono comunicare il nome, cognome e codice fiscale del locatore, la durata del contratto, l’importo del corrispettivo lordo e l’indirizzo dell’immobile. La predisposizione e la trasmissione dei dati deve avvenire attraverso i canali telematici dell’Agenzia. “La nuova imposta così come è stata pensata viola in diversi punti la normativa europea, soprattutto in termini di privacy e di territorialità, ha spiegato all’Agi agli inizi di giugno Matteo Stifanelli, country manager per l’Italia del colosso. In pratica per Airbnb, che fattura i suoi servizi dall'Irlanda, il ruolo di sostituto d'imposta comporterebbe l'obbligo di avere la residenza fiscale in Italia. E ciò è contrario alla libertà di stabilimento che la Ue garantisce alle piattaforme digitali, avevano chiarito rilanciando con la proposta di stipulare accordi diretti con l’Agenzia delle Entrate. 

Il tesoro degli affitti brevi

Il rischio, osserva ancora Business Insider, è quello di non riuscire a mettere le mani sul tesoretto degli affitti brevi: “solo nel 2016 gli utenti di Airbnb hanno incassato 621 milioni di euro che con la cedolare secca avrebbero portato al Tesoro poco più di 130 milioni di euro. Alcune stime prudenziali, però, indicano che il mercato di riferimento valga almeno un miliardo, ma secondo altri non si è lontani dai 3 miliardi di euro. Tradotto: le nuove entrate potrebbero oscillare tra i 210 e i 630 milioni di euro”. 

 

Agi News