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In otto anni sono spariti 77 mila negozi nelle nostre città

AGI – Tra il 2012 e il 2020 è proseguito il processo di desertificazione commerciale e, infatti, sono sparite, complessivamente, dalle città italiane oltre 77mila attivita’ di commercio al dettaglio (-14%) e quasi 14mila imprese di commercio ambulante (-14,8%).

E’ quanto rileva l’analisi dell’Ufficio Studi di Confcommercio ‘Demografia d’impresa nelle citta’ italiane‘, secondo cui per il Covid nel 2021, solo nei centri storici dei 110 capoluoghi di provincia e altre 10 città di media ampiezza, oltre ad un calo ancora maggiore per il commercio al dettaglio (-17,1%), si registrera’ per la prima volta nella storia economica degli ultimi due decenni anche la perdita di un quarto delle imprese di alloggio e ristorazione (-24,9%). 

Inoltre aumentano le imprese straniere e diminuiscono quelle a titolarità italiana e a livello territoriale, il Sud, rispetto al Centro-Nord, perde più ambulanti, ma registra una maggiore crescita per alberghi, bar e ristoranti.    

Con l’arrivo del Covid, poi, anche il commercio elettronico, che vale ormai più di 30 miliardi, registra cambiamenti: nel 2020 è in calo del 2,6% rispetto al 2019 come risultato di un boom per i beni, anche alimentari, pari a +30,7% e di un crollo dei servizi acquistati (-46,9%). Quindi, città con meno negozi, meno attività ricettive e di ristorazione e solo farmacie e informatica e comunicazioni in controtendenza col segno più.    

Per Confcommercio “il rischio di non ‘riavere’ i nostri centri storici come li abbiamo visti e vissuti prima della pandemia è, dunque, molto concreto e questo significa minore qualità della vita dei residenti e minore appeal turistico”.      

Sangalli, contro desertificazione sostenere imprese

“Per fermare la desertificazione commerciale delle nostre città, bisogna agire su due fronti – sottolinea il presidente di Confcommercio, Carlo Sangalli – da un lato, sostenere le imprese più colpite dai lockdown e introdurre finalmente una giusta web tax che risponda al principio ‘stesso mercato, stesse regole’. Dall’altro, mettere in campo un urgente piano di rigenerazione urbana per favorire la digitalizzazione delle imprese e rilanciare i valori identitari delle nostre città”.

Tutti i numeri di Confcommercio

Tra il 2012 e il 2020 – secondo l’analisi – si è verificato un cambiamento del tessuto commerciale all’interno dei centri storici che la pandemia tenderà a enfatizzare.

Per il commercio in sede fissa, tiene in una qualche misura la numerosità dei negozi di base come gli alimentari (-2,6%) e quelli che, oltre a soddisfare bisogni primari, svolgono nuove funzioni, come le tabaccherie (-2,3%).

Significativi sono invece i cambiamenti legati alle modificazioni dei consumi, come tecnologia e comunicazioni (+18,9%) e farmacie (+19,7%), queste ultime diventate ormai luoghi per sviluppare la cura del sé e non solo quindi tradizionali punti di approvvigionamento dei medicinali. 

Il resto dei settori merceologici è invece in rapida discesa: si tratta dei negozi dei beni tradizionali che si spostano nei centri commerciali o, comunque, fuori dai centri storici che registrano riduzioni che vanno dal 17% per l’abbigliamento al 25,3% per libri e giocattoli, dal 27,1% per mobili e ferramenta fino al 33% per le pompe di benzina.

La pandemia acuisce questi trend e lo fa con una precisione chirurgica: i settori che hanno tenuto o che stavano crescendo cresceranno ancora, quelli in declino rischiano di scomparire dai centri storici. Quanto alle dinamiche riguardanti ambulanti, alberghi, bar e ristoranti, a fronte di un processo di razionalizzazione dei primi (-19,5%), per alberghi e pubblici esercizi, che nel periodo registrano rispettivamente +46,9% e +10%, il futuro è molto incerto.

Ma occorre reagire per dare una prospettiva diversa alle nostre città che rappresentano un patrimonio da preservare e valorizzare. Le direttrici indicate sono tre: un progetto di rigenerazione urbana, l’innovazione delle piccole superfici di vendita e una giusta ed equa web tax per ripristinare parità di regole di mercato tra tutte le imprese.


In otto anni sono spariti 77 mila negozi nelle nostre città

Il Covid travolge lusso, negozi e auto, tiene solo l’alimentare

AGI – La pandemia di coronavirus ha travolto (e in parte lo sta ancora facendo con la seconda ondata) interi settori commerciali: dalle vendite al dettaglio di beni non alimentari al mercato del lusso, passando per le automobili. A resistere sembra essere solo il segmento alimentare, mentre sul fronte della distribuzione il ‘re’ indiscusso in questa difficile fase resta l’e-commerce.  

Con il Natale che si avvicina e l’aumento della curva dei contagi da Covid che riesuma lo spettro del lockdown totale, la Confesercenti lancia l’allarme contro la ‘concorrenza sleale’ dei giganti del web, mentre la seconda ondata del virus ‘chiude’ oltre 190.000 imprese del commercio. “Se continua così fino a Natale, il web sottrarrà ai negozi oltre 4 miliardi di euro di vendite, servono regole per riequilibrare concorrenza”, è il monito della Confederazione. 

Condivide la preoccupazione il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che in videocollegamento con l’assemblea Fipe Confcommercio, afferma:”Penso che un’alterazione delle abitudini di vita dei cittadini potrebbe arrivare dal fatto che si sta facendo grande ricorso agli acquisti online. Questo puo’ ridefinire alcune filiere economiche. Dobbiamo mantenere in equilibrio il settore commerciale, altrimenti sarà difficile intervenire dopo”.

A dare una dimensione numerica alla crisi del commercio è l’Istat, che in un’audizione alla Camera spiega come nei primi nove mesi dell’anno l’unico settore a resistere sia stato quello alimentare, con le vendite che si attestano al +3%, a fronte di un crollo delle vendite di beni non alimentari, che registrano un calo complessivo del 13,5%. “Tra le forme distributive – fa notare il direttore centrale per gli studi e la valorizzazione tematica nell’area delle statistiche economiche, Gian Paolo Oneto – solo il commercio elettronico presenta risultati positivi con una crescita continua che ha condotto ad un aumento del 29,2% nell’arco dei nove mesi”.

Non va bene neanche al mercato dei beni di lusso: il calo del 2020 sarà senza precedenti (tra -20% e -22%), dice il Worldwide Market Monitor 2020 di Altagamma-Bain & Company, con una flessione prevista intorno al 23% per i beni di lusso personali a 217 miliardi di euro (scenario di base) che potrebbe scendere fino a -25% nello scenario peggiore.   

Prosegue poi il periodo ‘nero’ del mercato dell’auto, attestato sempre oggi dai dati sulle immatricolazioni in Europa. Dopo la prima crescita dell’anno a settembre (+1,1%), infatti, a ottobre le vendite di auto nuove tornano in rosso con un calo del 7,1% su ottobre 2019, ma con un calo molto più pesante nei primi dieci mesi dell’anno (-27,3%). Tanto che il Centro studi Promotor mette in allerta sul rischio di avere “cifre catastrofiche” oltre che per fine anno anche per il 2021.

Confesercenti: il web sottrae ai negozi oltre 4 miliardi    

“Altro che Black Friday – sottolinea la confederazione che rappresenta oltre 350mila pmi del commercio, del turismo e dell’industria – novembre e dicembre rischiano di essere dei mesi ‘neri’ per il commercio. La seconda ondata ha infatti ‘chiuso’ del tutto oltre 190 mila negozi nelle regioni rosse, a cui si aggiungono altre 68 mila attività in Veneto, Friuli Venezia Giulia ed Emilia Romagna cui è stato imposto lo stop di domenica e almeno altri 50mila negozi nelle gallerie commerciali per cui il divieto di apertura, invece, si estende a tutto il weekend”.

Una chiusura di massa, osserva Confesercenti, che di fatto “rende impossibile ai negozi partecipare ai vari Black Friday e Black Weekend, con grande vantaggio dell’online: a causa delle restrizioni nei canali di vendita fisici, in occasione della promozione circa 700 milioni di euro verranno travasati dai negozi reali a quelli sul web”. Inoltre, se le restrizioni dovessero continuare fino alla fine dell’anno, “il web potrebbe strappare ai negozi reali fino ad ulteriori 3,5 miliardi di euro di spesa dei consumatori per i regali e per l’acquisto di beni per la casa e la famiglia”, è l’allarme. 

Istat: -191.000 occupati nel commercio     

Nel corso della sua audizione in Commissione Attività produttive della Camera, il direttore centrale Dvse Istat segnala come nei primi 9 mesi dell’anno le vendite dei negozi non alimentari abbiano registrato un calo complessivo del 13,5%, mentre quelle dei beni alimentari si attestano al +3%. “Tra le forme distributive, solo il commercio elettronico presenta risultati positivi con una crescita continua che ha condotto ad un aumento del 29,2% nell’arco dei nove mesi”, ha affermato l’esperto. Che dà anche i numeri sull’occupazione nel settore: nel secondo trimestre dell’anno gli occupati nel commercio sono diminuiti del 5,8%, con una flessione di circa 191 mila unità rispetto all’anno precedente, “un calo quasi doppio rispetto a quello osservato per il complesso dell’occupazione (pari al 3,6%)”, osserva Oneto, che segnala come in particolare i lavoratori indipendenti del commercio siano crollati del 9,3% e gli autonomi senza dipendenti del 12,7%. Gli occupati ultracinquantenni, che rappresentano circa un terzo della manodopera del settore, sono calati dell’1,6%, a fronte di una diminuzione dell’8,7% per i 35-49enni (che rappresentano il 40,3% dell’occupazione) e di un calo del 6,4% per occupati più giovani (con meno di 35 anni e che pesano per il 26,8%).

Cade anche il lusso: nel 2020 calo vendite fino a -25%     

Anche il mercato globale del lusso subisce nel 2020 un calo senza precedenti (tra -20% e -22%) con una flessione prevista intorno al 23% per i beni di lusso personali a 217 miliardi di euro (scenario di base) che potrebbe scendere fino a -25% in quello che potrebbe essere lo scenario peggiore. Per il 2021 è prevista una ripresa di circa il 14% di media per il lusso personale, ma per un rimbalzo ai livelli del 2019 bisognerà attendere la fine del 2022.

Il Worldwide Market Monitor 2020 di Altagamma-Bain & Company e l’Altagamma Consensus 2021 mostrano come il calo del 50% nel secondo trimestre sia “il minimo mai raggiunto in questo mercato”. E sebbene il tred sia in recupero nel terzo trimestre, resta “l’incertezza sulla chiusura dell’anno durante la stagione natalizia, legata all’evoluzione della seconda ondata del virus e ad eventuali ulteriori restrizioni e chiusure a livello nazionale”.     

La stima per il 2021 è di una crescita a doppia cifra in tutti i comparti mediamente del 14%, con il rialzo maggiore per la pelletteria (+16%), per cui si prevede un sostanziale ritorno ai livelli 2019, seguita da cosmetica (+15%), abbigliamento e calzature (+14%), gioielli e orologi (+12%). Questi ultimi due comparti sono i più colpiti quest’anno (-30%) a fronte di un calo più contenuto per gli accessori (scarpe -12% e le borse -18%) e la gioielleria (-15%). 

Vendite auto in europa -7,1% a ottobre, -27,3% primi 10 mesi     

Le vendite di auto in Europa (Ue+Efta+Gb) registrano un calo del 7,1% a ottobre rispetto allo stesso mese di un anno fa. Il dato segna un’inversione di tendenza rispetto al +1,1% di settembre, che era stato il primo segnale positivo del mercato da otto mesi a questa parte. Le vendite, come rileva l’Acea, l’associazione dei costruttori europei, si attestano a 1.129.163 unità. Dall’inizio dell’anno le immatricolazioni sono state di 9.696.928 unità (-27,3%). In Italia le vendite a ottobre sono scese dello 0,2% a 156.958 unità e nei primi 10 mesi dell’anno sono calate del 30,9% a 1.123.194 unità.     

In controtendenza Fca, che a ottobre ha venduto in Europa (Ue+Efta+Gb) 70.172 nuove auto, il 3,2% in più rispetto allo stesso mese del 2019. La sua quota di mercato è salita dal 5,6% al 6,2%. Dall’inizio dell’anno, le vendite del gruppo si sono attestate a 560.202 unità, in calo del 30,8% sullo stesso periodo dell’anno scorso. La quota di mercato è scesa dal 6,1% al 5,8%.     

“In questa situazione le previsioni per l’ultimo scorcio del 2020 e per il 2021 non possono essere che catastrofiche”, afferma Gian Primo Quagliano, presidente del Centro Studi Promotor. E spiega: “È quindi essenziale che dal Parlamento venga la proposta di un pacchetto per l’auto da inserire nella Legge di Bilancio e che questo pacchetto sia adeguato all’importanza del comparto che, con il suo indotto, vale in Italia il 12% del Pil”.

Agi

La crisi si è mangiata 200 mila negozi

Rispetto al 2007, anno pre-crisi, le famiglie italiane hanno “tagliato” i consumi per un importo pari a 21,5 miliardi di euro e quasi 200.000 negozi di vicinato hanno chiuso i battenti. Il dato emerge da uno studio della Cgia secondo cui l’anno scorso, la spesa complessiva dei nuclei familiari del nostro Paese è stata pari a poco più di 1.000 miliardi di euro.

Sud il più colpito

Nonostante la contrazione, questa voce continua comunque ad essere la componente più importante del Pil nazionale (pari al 60,3 per cento del totale). Il Sud è stato la ripartizione geografica che ha registrato la riduzione più importante. Dal 2007 al 2018 le famiglie meridionali hanno “tagliato” la spesa mensile media di 131 euro (mediamente di 1.572 euro all’anno), quelle del Nord di 78 euro (936 euro all’anno) e quelle del Centro di 31 euro (372 euro all’anno).

A pagare il conto sono stati anche gli artigiani e i piccoli negozianti, afferma il coordinatore dell’Ufficio studi della Cgia, Paolo Zabeo. “I piccoli negozi e le botteghe artigiane“, osserva, “faticano a lasciarsi alle spalle la crisi. Queste imprese vivono quasi esclusivamente dei consumi delle famiglie e, sebbene negli ultimi anni ci sia stata una leggerissima ripresa, i benefici di questa inversione di tendenza non si sentono.

Dal 2007, anno pre-crisi, al 2018 il valore delle vendite al dettaglio nei negozi di vicinato è crollato del 14,5 per cento, nella grande distribuzione, invece, è salito del 6,4 per cento. Questo trend è proseguito anche nei primi 9 mesi del 2019: mentre nei supermercati, nei discount e nei grandi magazzini le vendite sono aumentate dell’1,2 per cento, nelle botteghe e nei negozi sotto casa la contrazione e’ stata dello 0,5 per cento”.

A livello regionale le situazioni più negative, in termini assoluti ed espressi in valore nominali medi, si sono verificate in Umbria (-443 euro al mese), in Veneto (-378 euro) e in Sardegna (-324 euro). In controtendenza, invece, i risultati ottenuti in Liguria (+333 euro al mese), in Valle d’Aosta (+188 euro) e in Basilicata (+133 euro).

La situazione di difficoltà è proseguita anche nell’ultimo anno, in particolar modo al Nord: in Lombardia, in Trentino Alto Adige, in Emilia Romagna, in Piemonte, in Veneto e in Friuli Venezia Giulia la spesa mensile media delle famiglie nel 2018 e’ stata inferiore a quella relativa al 2017.

Su acquisto beni la contrazione più durevole

Dall’analisi delle funzioni di spesa invece, sempre tra il 2007 e il 2018 la contrazione più importante ha riguardato l’acquisto dei beni (-10,3 per cento), mentre i servizi sono cresciuti del 7 per cento. Nel dettaglio, i beni non durevoli sono crollati del 13,6 per cento, quelli semidurevoli si sono ridotti del 4,5 per cento e quelli durevoli del 2,8 per cento. La caduta dell’acquisto dei beni è proseguita anche quest’anno: tra il primo semestre 2019 e lo stesso periodo del 2018 la contrazione è stata dello 0,4 per cento con una punta del -1,1 per cento dei beni non durevoli. Interessante, invece, l’esito dei beni durevoli: quest’anno la crescita è stata del 2,9 per cento.

Tra le voci di spesa più significative va segnalata quella dei trasporti: tra il 2007 e il 2018 la caduta è stata addirittura del 16,8 per cento ed è proseguita anche quest’anno con un preoccupante -1 per cento. Diversamente, le telecomunicazioni hanno segnato risultati fortemente positivi: negli ultimi 10 anni +20,1 per cento e nell’ultimo anno +7,7 per cento. 

Persi 200 mila negozi in 10 anni

Le vendite al dettaglio, che costituiscono il 70 per cento circa del totale dei consumi delle famiglie, negli ultimi 11 anni, sono scese del 5,2 per cento. Tuttavia, quelle registrate presso la grande distribuzione sono aumentate del 6,4 per cento, mentre nella piccola distribuzione (botteghe artigiane e piccoli negozi) sono precipitate del 14,5 per cento. Sebbene il gap si sia decisamente ridotto, anche in questi primi 9 mesi del 2019 i segni sono rimasti gli stessi: +1,2 per cento nella grande e -0,5 per cento nella piccola distribuzione.

Secondo il ricercatore dell’Ufficio studi, Daniele Nicolai, “anche a seguito di questa forte diminuzione dei consumi delle famiglie, la platea delle imprese artigiane e del piccolo commercio è scesa di numero. Tra il settembre 2009 e lo stesso mese di quest’anno le aziende/botteghe artigiane attive”, calcola lo studio, “sono diminuite di 178.500 unità (-12,1 per cento), mentre lo stock dei piccoli negozi è sceso di quasi 29.500 unita’ (-3,8 per cento). Complessivamente, pertanto, abbiamo perso oltre 200 mila negozi di vicinato in 10 anni”.

In Sardegna la moria più grave di aziende artigiane

In termini percentuali la regione più colpita dalla moria di aziende artigiane è stata la Sardegna che negli ultimi 10 anni ha visto scendere il numero del 19,1 per cento. Seguono l’Abruzzo con il 18,3 per cento e l’Umbria con il 16,6 per cento. L’andamento delle imprese attive nel piccolo commercio, invece, ha subito la riduzione più significativa in Valle d’Aosta con il 18,8 per cento, in Piemonte con il 14,2 per cento e in Friuli Venezia Giulia con l’11,6 per cento. Di segno opposto l’andamento in Calabria (+3 per cento), Lazio (+3,3 per cento) e Campania (+4,6 per cento).

“Sebbene la manovra 2020 abbia scongiurato l’aumento dell’Iva e dal prossimo luglio i lavoratori dipendenti a basso reddito beneficeranno del taglio del cuneo fiscale”, sottolinea il segretario della Cgia, Renato Mason, “il peso del fisco continua essere troppo elevato. L’aumento della disoccupazione registrato con la crisi economica sta condizionando negativamente i consumi. Inoltre, come dimostrano i dati relativi all’artigianato e al piccolo commercio, è diventato sempre piu’ difficile fare impresa, anche perché il peso della burocrazia e la difficoltà di accedere al credito hanno costretto molti piccolissimi imprenditori a gettare definitivamente la spugna”. 

Agi

Digitale e nuovi negozi: oltre che sui mattoncini Lego punta sul mattone

Si credevano invincibili e sono state spazzate via in pochi anni: Nokia, Kodak, Toys R Us. Poi c’è chi si è accorto che tenere la posizione non è un’opzione: o si cambia o si scompare. Lego, dopo la crisi del 2017, si sta ricostruendo cercando il giusto incastro tra mattoncini e digitale. Da un lato sta investendo su nuovi prodotti che non si toccano: film, e-commerce, videogiochi. Dall’altro sta espandendo la propria rete di negozi fisici, soprattutto (ma non solo) in Cina e India.

Dalla crisi all’espansione

Il 2017 è stato un anno pessimo, il primo con fatturato in calo dopo 13 anni. Vendite giù del 7%, utili del 17%. La crescita in Cina non era riuscita a bilanciare il calo in Nord America ed Europa. Un anno nero, culminato con 1400 licenziamenti e descritto in modo perentorio anche nelle solitamente misurate comunicazioni istituzionali: “Nel complesso, non siamo soddisfatti dei risultati”, si legge sul rapporto annuale di Lego. La società intravedeva però buoni segnali che facevano ben sperare per il 2018.

Segnali che sarebbero poi stati confermati: alla fine dello scorso anno, fatturato e risultato netto sono tornati a crescere. Non ancora tanto da recuperare tutto il terreno perso, ma abbastanza per far sorridere il ceo Niels B. Christiansen: “Il 2018 – scriveva nella lettera che accompagnava il rapporto – è stato un anno determinante per l’industria dei giocattoli”. La rivoluzione nei canali di vendita e la digitalizzazione stanno “ridisegnato il panorama, portando cambiamenti senza precedenti. Sono lieto di affermare che, anche di fronte a queste sfide, il gruppo Lego ha stabilizzato il proprio business”.

Tradotto: ci siamo, anche se il mercato dei giocattoli tradizionali fatica. Il 2018, infatti, non è stato un anno come gli altri: è stato il primo senza Toys R Us. L’ex paradiso dei bambini, finito in bancarotta, ha condizionato l’annata dei grandi produttori. Senza un canale di vendita così importante, il fatturato di Hasbro è calato del 12% e l’utile netto del 45% (ma il gruppo ha avuto un recupero consistente nel primo semestre 2019). Mattel ha chiuso il 2018 con una perdita netta di 530 milioni e vendite ridotte del 7,2% (ed è in rosso anche quest’anno).

Se Lego gioca a Risiko

Il 2019 di Lego è iniziato come si era chiuso il 2018: il fatturato del primo semestre è cresciuto del 4%, anche se i profitti operativi sono calati del 16% e l’utile del 12%. Segni meno che hanno però tutt’altro sapore rispetto a quelli del 2017: sono dovuti – si legge in una nota di Lego – alla decisione di intensificare gli investimenti in iniziative che creino i presupposti per una crescita di lungo periodo”.

Non meno incassi ma più mattoni per il futuro. Mattoni in senso letterale, non solo perché sono il prodotto principale di Lego, ma anche perché il marchio sta ripartendo da negozi fatti di casse e muri. Una raffica di nuove aperture porterà in Cina 140 negozi in 35 città entro il 2019. E ci saranno altre 70 inaugurazioni nel resto del mondo. All’inizio del 2020 aprirà anche la sede di Mumbai: sarà l’avamposto per ampliare la presenza in India.

Ormai da tempo, Lego non è più solo mattoncini. Ha prodotto film, vende videogiochi e abbigliamento, ha parchi tematici (sono appena iniziati, a Gardaland, i lavori per costruire il primo acquatico d’Europa) e associa i suoi omini gialli a grandi marchi che vengono dal mondo della carta (come Batman e gli eroi Marvel) e del cinema (Star Wars). Ma anche dal digitale (come Minecraft), che non è più il nemico da combattere ma un universo da sfruttare. “Stiamo investendo – ha dichiarato il ceo Christiansen – per cogliere le opportunità create da megatrend come la digitalizzazione e i cambiamenti demografici ed economici globali che stanno rimodellando il settore”.

Quindi nuove prodotti in cui dialogano virtuale e analogico, punti vendita in Cina e India (dove la popolazione aumenta e la nuova classe media spingerà i consumi), un e-commerce più efficace. Il margine per avanzare non è enorme ma c’è: secondo un’analisi di MarketResearch, tra il 2017 e il 2023, il mercato globale dei giocattoli crescerà a un tasso medio del 4%, raggiungendo così i 120 miliardi di dollari.

La minaccia non è il digitale

I numeri dicono molto, ma i movimenti del gruppo danese sono spiegati ancor più chiaramente in un documento non finanziario, il Lego Play Well Report 2018: “Come mai nella storia moderna, il tempo del gioco è in pericolo”. La minaccia però non è il digitale che ruba ai mattoncini per dare alle app: “Tutt’altro”, si legge nel rapporto. “Ispirati dallo sfumarsi dei confini tra il mondo digitale e quello fisico, i bambini di oggi fondono ciò che è reale e ciò che è virtuale, reinventando il gioco in modi che le generazioni precedenti non avrebbe mai immaginato”. Il problema è un altro: “Le difficoltà arrivano perché il tempo, lo spazio e il permesso concessi ai bambini per giocare sono costantemente sotto pressione. Nelle nostre frenetiche vite moderne – si legge nel Play Well Report – le famiglie spesso pianificano ‘l’appuntamento del gioco’ piuttosto che inventarlo sul momento”. Lego deve reinventarsi, legando mattoncini e digitale. Deve fare a spallate con i concorrenti. Ma, ancora di più, deve sfidare le abitudini che cambiano. Mattoncino dopo mattoncino.

Agi

Già chiusi 43 negozi in diverse città. Cosa sta succedendo al gruppo Trony

Non ci sono ancora comunicazioni aziendali ufficiali ai media ma solo poche righe di comunicato sindacale. Molti negozi Trony (elettronica di largo consumo) stanno chiudendo in diverse città d’Italia. Cinquecento sarebbe complessivamente il numero di lavoratori senza più un posto. La Dps, la società che controlla un pacchetto di aziende commerciali a insegna Trony, circa 43 in Italia, ha dichiarato fallimento secondo quanto reso noto appunto dai sindacati. Lo rende noto Il Sole 24 Ore: I negozi che oggi sono rimasti chiusi si trovano in Liguria, Piemonte, Lombardia (dove sono a rischio 140 dipendenti con 9 punti vendita fra cui il negozio di San Babila) Veneto, Friuli e Puglia. In quest'ultima regione oggi è scattata la mobilitazione dei lavoratori con un sit-in davanti ad uno dei tre negozi di Bari. I dipendenti che, a Bari, sono coinvolti nelle conseguenze del fallimento sono una trentina ma in tutta la Puglia, dove ci sono 13 negozi Trony, i lavoratori a rischio sono circa 120, una fetta significativa particolarmente provata visto che dopo aver avuto un pesante taglio della busta paga a dicembre, a febbraio non hanno ricevuto gli stipendi. In Puglia l'unico negozio Trony rimasto aperto è quello di Taranto perché è rimasto in mano alla società Vertex.

In alcune città sono già stati avviati colloqui tra i rappresentanti sindacali e la società. Il tentativo è quello di scongiurare le chiusure e trovare soluzioni alternative ai licenziamenti dei lavoratori.

La situazione della società Dps – aggiunge il quotidiano di Confindustria – era in bilico da diverso tempo. L'azienda aveva chiesto un concordato preventivo che però non è stato giudicato percorribile dal giudice fallimentare che lo ha rifiutato decretando il fallimento. “Ora resta da gestire questa fase – dice Alessio di Labio responsabile nazionale diFilcams Cgil -. L'obiettivo è quello di individuare uno o più soggetti interessati a rilevare i 43 punti vendita. E poi chiedere un incontro sia al Mise e sia al ministero del Lavoro perché ci sarà da gestire la cassa integrazione dei lavoratori”.

L’azienda è fallita ufficialmente il 15 marzo, ma la comunicazione ai dipendenti è arrivata il giorno dopo, il 16  marzo. I dipendenti della catena non hanno ricevuto lo stipendio di febbraio.

Dallo scorso dicembre gli addetti alla catena sono pagati soltanto al 20% dello stipendio dovuto, spiega il Corriere della Sera: La società  è in crisi da alcuni anni a causa di scelte manageriali sbagliate e della concorrenza dell’ecommerce. Dal 24 gennaio scorso la catena, controllata da Dps Group e che fa capo all’imprenditore pugliese Antonio Piccino, è stata ammessa alla procedura del concordato in bianco e da allora è alla ricerca di un possibile acquirente. La proceduta concordataria prevede che i lavoratori dal 24 gennaio verranno pagati nella quota che verrà stabilita dal commissario della Dps Alfredo Haupt, nominato dalla giudice delegata del Tribunale di Milano Irene Lupo. Per le spettanze antecedenti a questa data i pagamenti sono bloccati e fermi, appunto, al 20% degli stipendi.

“La vera preoccupazione riguarda le prospettive future. Circa un mese fa si era parlato di un possibile acquirente per 15 dei punti vendita di Trony , il che avrebbe permesso di puntare al risanamento dell’intero gruppo", spiega il segretario nazionale di Fisascat Cisl Mirco Ceotto. "Il fatto che fino a questo momento non sia ancora arriva alcuna proposta concreta è motivo di grande allarme".

Il marchio Trony è nato nel 1999 come catena di negozi di elettronica del gruppo La Rinascente che aprì un primo negozio il 28 settembre di quell'anno presso il centro commerciale Rho Center, nel milanese. Trony, era una società allora controllata al 51% dalla Rinascente, mentre la quota restante era nelle mani di Sogema, un gruppo d'acquisto costituito dagli aderenti al consorzio di distribuzione specializzata Expert che controllava in Lombardia una quota rilevante del mercato degli elettrodomestici.

Oggi Il gruppo Dps, uno dei soci di Gre, che a sua volta possiede Trony, è in difficoltà. Gre sta per Grossisti riuniti elettrodomestici, che dal 1997 possiede appunto il marchio Trony. Sotto questa insegna oggi in Italia sono attivi oltre 200 punti vendita, che danno lavoro a più di tremila dipendenti, informa Wired. “Il gruppo Gre – riporta il mensile – ribadisce la propria volontà di proseguire nello sviluppo sul territorio italiano, annunciando un piano che prevede per il 2018 circa 40 nuove aperture a marchio Trony". Ma certo le chiusure di questi giorni non lasciano sperare in un rilancio a breve, a meno di nuovi soci e nuovi investimenti.

 

Agi News