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Perché pane, pasta e pizza sono diventati così cari negli ultimi giorni

AGI – Non solo metalli, gas e petrolio. Le tensioni innescate dal protrarsi della guerra in Ucraina impattano anche su alcune delle più importanti materie prime alimentari con un’offerta più limitata. Il conflitto solleva infatti problemi di approvvigionamento a lungo termine. Volano i prezzi del grano e dell’olio di palma. Rialzi anche per riso, zucchero e mais.

In particolare il grano tocca i massimi di 14 anni, al top da marzo 2008. I futures sul grano di Chicago sono saliti del 7,5% a 12,59 dollari per bushel. Da quando la Russia ha lanciato la campagna che chiama “operazione militare speciale” il 24 febbraio, i mercati delle materie prime sono aumentati.

Il mercato del grano è salito di oltre il 40% la scorsa settimana, il suo piu’ grande aumento settimanale. Il mais è salito del 2,7% a 7,75 dollari a bushel, la soia è salita del 2,1% a 16,95 dollari a bushel: entrambi sono ai massimi da settembre 2012. “Finché i combattimenti in Ucraina non finiscono, non ci si può aspettare che le esportazioni di grano e mais dall’Ucraina e dalla Russia riprendano”, ha detto un trader europeo che preferisce restare anonimo a Reuters.

La Russia e l’Ucraina forniscono anche l’80% delle esportazioni mondiali di olio di girasole, che compete con l’olio di soia. Balza anche l’olio di palma (+5,19%). I porti ucraini rimangono chiusi e i commercianti sono riluttanti a commerciare il grano russo dopo le sanzioni occidentali, cosi’ gli acquirenti stanno cercando fornitori alternativi. La domanda di esportazione di grano dell’Unione europea è aumentata la scorsa settimana e ci si aspetta che continui a crescere.


Perché pane, pasta e pizza sono diventati così cari negli ultimi giorni

Tesla richiama oltre 500 mila veicoli negli Usa

AGI – Il produttore di auto elettriche Tesla Inc sta richiamando 578.607 veicoli negli Stati Uniti perché i pedoni potrebbero non essere in grado di sentire il suono di avvertimento richiesto per un’auto elettrica in avvicinamento a causa di musica ad alto volume o altri suoni riprodotti dalla funzione Tesla “Boombox”, ha affermato la National Highway Traffic Safety Administration (Nhtsa).

Tesla ha affermato di non essere a conoscenza di incidenti, lesioni o decessi relativi al problema che ha stimolato l’ultimo richiamo. L’azienda fondata da Elon Musk sta richiamando veicoli Model S, Model X, Model Y e Model 3 del 2020-2022 e del 2017-2022 appunto perché la “funzione boombox” consente di riprodurre i suoni attraverso un altoparlante esterno mentre il veicolo è in movimento e ciò potrebbe coprire il necessario suono di allarme avvicinamento dedicato ai pedoni.

Tesla eseguirà un aggiornamento software over-the-air che disabiliterà la funzionalità Boombox quando il veicolo è in modalità Drive, Neutral e Reverse. I veicoli elettrici sono spesso piu’ difficili da sentire a velocità inferiori rispetto ai motori a benzina.

Secondo le regole imposte dal Congresso, le case automobilistiche devono aggiungere suoni ai veicoli elettrici quando si muovono a velocità fino a 18,6 miglia orarie (30 chilometri orari) per aiutare a prevenire lesioni ai pedoni, ciclisti e non vedenti.  


Tesla richiama oltre 500 mila veicoli negli Usa

Il Nobel per l’economia a tre studiosi negli Usa per le ricerche sul mercato del lavoro

AGI – Il premio Nobel per l’Economia è stato assegnato per metà al canadese David Card e per l’altra metà allo statunitense Joshua D. Angrist e all’olandese Guido W. Imbens. 

Card è stato premiato “per i suoi contributi empirici all’economia del lavoro”. Angrist e Imbens “per i loro contributi metodologici all’analisi delle relazioni causali“.

Card, Angrist e Imbens, spiega l’Accademia reale svedese delle Scienze, “hanno fornito nuove intuizioni sul mercato del lavoro e mostrato quali conclusioni su causa ed effetto possono essere tratte dagli esperimenti sul campo. Il loro approccio si è diffuso in altri settori e ha rivoluzionato la ricerca empirica”. 

“Attraverso esperimenti sul campo Card ha analizzato gli effetti sul mercato del lavoro di salari minimi, immigrazione e istruzione – si legge – I suoi studi dei primi anni ’90 hanno sfidato la saggezza convenzionale, portando a nuove analisi e ulteriori intuizioni. I risultati hanno mostrato, tra le altre cose, che aumentare il salario minimo non porta necessariamente a meno posti di lavoro. Ora sappiamo che i redditi delle persone che sono nate in un Paese possono beneficiare della nuova immigrazione, mentre le persone che sono immigrate in un periodo precedente rischiano di essere influenzate negativamente. Abbiamo anche capito che le risorse nelle scuole sono molto più importanti per il futuro successo degli studenti sul mercato del lavoro di quanto si pensasse in precedenza”.

“I dati degli esperimenti sul campo sono però difficili da interpretare”, aggiunge l’Accademia svedese. “A metà degli anni ’90, Joshua Angrist e Guido Imbens hanno risolto questo problema metodologico, dimostrando come dagli studi sul campo si possono trarre conclusioni precise su causa ed effetto”.

In conclusione “gli studi di Card su questioni fondamentali per la società, e i contributi metodologici di Angrist e Imbens, hanno mostrato che gli esperimenti sul campo sono una ricca fonte di conoscenza“, afferma Peter Fredriksson, presidente del comitato del premio per le scienze economiche.

Nato nel 1956 a Guelph, in Canada, David Card ha ottenuto un dottorato di ricerca nel 1983 alla Princeton University e insegna alla University of California, Berkeley. Joshua Angrist è nato nel 1960 a Columbus, in Ohio, ha a sua volta conseguito un Ph.D. a Princeton e insegna al Massachusetts Institute of Technology. Guido Imbens, infine, e’ nato nel 1963 a Eindhoven, in Olanda, ha ottenuto un Ph.D. nel 1991 alla Brown University e insegna alla Stanford University. 


Il Nobel per l’economia a tre studiosi negli Usa per le ricerche sul mercato del lavoro

“Negli Stati Uniti la pandemia ha frantumato il mercato del lavoro”

AGI – “Il dato sull’occupazione americana è molto sorprendente, quasi sconvolgente. Ci si aspettava che ad aprile l’economia Usa creasse oltre un milione di posti e invece ne sono arrivati appena 226mila. Il motivo? La domanda di lavoro c’è, ma apparentemente manca l’offerta. Oppure, forse, la risposta è un po’ più complessa. Il mondo del lavoro Usa esce frantumato da questa pandemia. C’è troppa volatilità sui dati e troppa dislocazione sul mercato del lavoro, sulla logistica. Si tratta di fatti nuovi, che non si erano mai visti prima”.

Così, a caldo, il professor Fabrizio Pagani, esperto di macroeconomia, capo della segreteria tecnica dell’ex ministro italiano dell’Economia e delle Finanze, Pier Carlo Padoan, consigliere economico dell’ex Presidente del Consiglio Enrico Letta ed ex sherpa del G20, prova a spiegare all’AGI i deludenti dati del mercato del lavoro Usa.

 “Diciamo così: domanda e offerta di lavoro non sono più stabili. In altre parole, mentre prima domanda e offerta s’incrociavano in modo tutto sommato naturale, ora a causa della dislocazione e cioè dei troppi spostamenti il mercato è diventato più complesso, più difficile da decifrare. C’è stato un rimescolamento. Con la pandemia si è creata più volatilità, perché si crea molta domanda dove non c’è abbastanza offerta, oppure si crea offerta in settori dove non c’è domanda. Ecco questo è il concetto di dislocazione“, afferma Pagani. 

Per spiegare ancora meglio il concetto, Pagani prova a fare qualche esempio. “L’economia, dopo la pandemia, tende a riprendersi meglio nel settore manifatturiero e cioè nell’industria, piuttosto che nei servizi. Per cui chi lavorava nei servizi, cioè nei ristoranti, nel commercio, o nel settore viaggi si è spostato nel settore manifatturiero, dove si assume di più e si è più tutelati. E ora, che i servizi riaprono, chi si è spostato in fabbrica, non torna indietro, non riprende a fare il cameriere”.

“La pandemia – prosegue – crea una frantumazione del mondo del lavoro, un cambiamento radicale, che è difficile da rimarginare, anche delle abitudini lavorative. Prendiamo i baby boomer, quelli nati negli anni Cinquanta e Sessanta, che oggi hanno intorno ai 60 anni, o sono over 55. E’ gente che ha lavorato 40 e più anni e che prende al balzo i mutamenti introdotti dalla pandemia, per lasciare il lavoro, andare i pensione, o part time, o lavorare da casa. Trova la scusa psicologica, o contrattuale della pandemia per iniziare a fare altre cose”.

    “Insomma, – spiega ancora – questa frantumazione del mondo del lavoro è più profonda di quanto non appaia a prima vista e anche le statistiche del mondo del lavoro incominciano a dimostrarlo”. “E poi il dato sull’occupazione Usa ad aprile dimostra anche un’altra cosa. E cioé che aveva ragione la Federal Reserve, almeno per ora. Powell ci ha visto giusto. Nel senso che era giusto mantenere le politiche accomodanti e che non ci sono problemi di inflazione, perché certi aumenti dei prezzi sono temporanei e non innescano aumenti a catena sul mercato del lavoro. Non ci sono pressioni sui salari. Lo dimostra il fatto che dopo i dati Usa sull’occupazione statunitense, il Treasury a 10 anni è sceso”.


“Negli Stati Uniti la pandemia ha frantumato il mercato del lavoro”

Google investirà altri 7 miliardi negli Usa: obiettivo 10.000 nuovi posti di lavoro

AGI – Google ha annunciato investimenti per oltre 7 miliardi di dollari negli Stati Uniti nel 2021, puntando alla creazione di 10 mila nuovi posti di lavoro. “Progettiamo di investire più di 7 miliardi in uffici e data center in tutti gli Stati Uniti e creare 10.000 posti di lavoro a tempo indeterminato quest’anno”, ha detto l’amministratore delegato, Sundar Pichai, in una nota.

I nuovi posti di lavoro saranno creati ad Atlanta, Washington, Chicago e New York, ha precisato Sundar Pichai. Mentre l’estensione dei data center di Google sono previsti anche in Nebraska, South Carolina, Virginia, Nevada e Texas. Grazie soprattutto ai record della pubblicità online durante il lockdown mondiale e alle vacanze natalizie, Alphabet, la società madre di Google, ha superato di gran lunga le aspettative registrando ricavi pari a 15,2 miliardi nell’ultimo trimestre 2020, piu’ del 50% rispetto all’anno precedente.

Ma l’annuncio del gigante tecnologico arriva mentre la società affronta diverse cause legali negli Stati Uniti per pratiche anticoncorrenziali, lanciate alla fine del 2020. In particolare, lo scorso ottobre il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti e una dozzina di stati hanno intentato una causa civile contro Google. L’accusa per il gruppo è di detenere un “monopolio illegale” sulla ricerca e la pubblicità online. Secondo i procuratori, l’azienda di Mountain View impedisce ai potenziali concorrenti di guadagnare una quota di questi mercati assicurandosi, per esempio, di essere il motore di ricerca predefinito.

 


Google investirà altri 7 miliardi negli Usa: obiettivo 10.000 nuovi posti di lavoro

La crisi della pubblicità in tv negli Usa 

​I grandi inserzionisti statunitensi, da General Motors a PepsiCo a General Mills intendono cancellare una grande fetta degli impegni di spesa presi con le reti televisive. Lo rivela il Wall Street Journal, il quale nota che la spesa pubblicitaria televisiva è diminuita nelle prime settimane della pandemia di coronavirus, ma non più di tanto.

Questo perché la maggior parte dei circa 42 miliardi di dollari spesi in pubblicità televisive nazionali negli Stati Uniti è vincolata da impegni contrattuali che sono presi con largo anticipo in vista delle nuove stagioni televisive, che iniziano ogni settembre.

Tuttavia, nell’ambito di tali accordi “anticipati”, la prima vera opportunità da quando la pandemia ha colpito gli inserzionisti per ridurre gli impegni di spesa futuri è iniziata il primo maggio. Le aziende ora hanno la possibilità di annullare fino al 50% della spesa pubblicitaria del terzo trimestre.

Gli inserzionisti hanno avuto queste opzioni nei loro contratti per anni, ma le hanno esercitate molto raramente, rivelano al Wsj gli stessi acquirenti di annunci pubblicitari. Secondo il giornale statunitense ora molte aziende stanno cercando di sfruttare questa opzione a vari livelli.

Tra le big interessate ci sarebberoi General Motors, PepsiCo, Cracker Barrel Old Country Stores, General Mills, Domino’s e il colosso farmaceutico Sanofi.  

Gli inserzionisti stimano che tra 1 e 1,5 miliardi di dollari di impegni per spese pubblicitarie del terzo trimestre potrebbero essere annullati. “I tagli saranno piuttosto profondi”, ha dichiarato al Wsj Dave Campanelli, Chief Investment Officer presso l’acquirente di supporti multimediali Horizon Media. 

Intanto, il Congresso Usa sta cercando di trovare il modo di aiutare i giornali, le radio e le tv locali in difficoltà, consentendogli di beneficiare degli stimoli federali per il coronavirus. Lo rivelano al Wall STreet Journal fonti vicine all’operazione, secondo le quali una nuova legge dovrebbe essere introdotta alla Camera non appena questa settimana i parlamentari includeranno i giornali e le emittenti locali definendoli idonei a percepire i prestiti a fondo perduto destinati alle piccole imprese.

Il Wsj fa sapere che i senatori democratici Maria Cantwell e Amy Klobuchar stanno lavorando per trovare il modo di far avanzare la proposta anche al Senato, dove i repubblicani hanno la maggioranza. “La crisi di Covid-19 ci ha mostrato quanto le notizie e le informazioni locali siano essenziali per noi”, ha detto Cantwell.

“Ora non è il momento di tagliare i lavori in redazione, fondamentali per fornire al pubblico dati regionali e notizie sugli scoppi di Covid-19”. Molte agenzie di stampa locali non sono state in grado di richiedere i prestiti a fondo perduto del Programma di protezione degli stipendi  per le piccole imprese a causa della regolamentazione di questa legge, che costringe i media locali a essere commisurati in base alle dimensioni delle loro società madri.

La nuova disposizione che sarà presa in considerazione dal Congresso rinuncerebbe a tale regola per quanto riguarda i notiziari locali.

 

Agi

Eni, accordo negli Emirati per l’acquisizione del 20% di Adnoc Refining

Eni e Adnoc hanno firmato un accordo (Share Purchase Agreement) che consente a Eni di acquisire da Adnoc la quota del 20% della società Adnoc Refining.

Alla firma dell’accordo erano presenti lo Sceicco Mohamed bin Zayed Al Nahyan, Principe della Corona di Abu Dhabi e Vice Comandante Supremo delle forze Armate degli Emirati Arabi Uniti, e Giuseppe Conte, presidente del Consiglio italiano.

L’accordo è stato firmato da Sultan Ahmed Al Jaber, ministro di Stato degli Emirati Arabi Uniti e amministratore delegato di Adnoc, e da Claudio Descalzi, amministratore delegato di Eni. Adnoc ha annunciato contestualmente di aver ceduto a OMV la quota del 15% di Adnoc Refining, rimanendo così detentrice della quota del 65%.

Operazione da 3,3 miliardi di dollari

Adnoc, Eni e OMV hanno concordato altresì di costituire una Joint Venture dedicata alla commercializzazione dei prodotti petroliferi con le medesime quote azionarie stabilite per Adnoc Refining.     

I termini concordati per l’acquisizione da parte di Eni delle quote del 20% implicano un corrispettivo cash pari a circa 3,3 miliardi di dollari al netto del debito netto e passibile di aggiustamenti al momento del closing, ammontare che corrisponde a un valore di impresa (enterprise value) pari a circa 3,9 miliardi di dollari (quota Eni). Il completamento dell’acquisizione è soggetto al verificarsi di alcune condizioni sospensive, inclusa l’autorizzazione da parte degli Emirati Arabi Uniti a altre autorità regolatorie. 

Quella firmata oggi è una delle operazioni più rilevanti mai condotte nel settore della raffinazione e riflette la dimensione, la qualità e il potenziale di crescita degli asset di Adnoc ​Refining, unitamente alla posizione geografica che le consente di rifornire i mercati di Africa, Asia ed Europa. 

Adnoc Refining opera tre raffinerie, situate nelle aree di Ruwais (Ruwais East e Ruwais West) e Abu Dhabi (Abu Dhabi Refinery), con una capacità di raffinazione complessiva che supera i 900 mila barili al giorno. Il complesso di raffinazione di Ruwais è il quarto a livello mondiale in termini di capacità produttiva e garantisce un elevato livello di conversione grazie all’adozione delle migliori tecnologie disponibili e di uno schema di processo a elevatissima conversione.

Il complesso industriale ha già dimostrato di avere un margine di raffinazione resiliente, grazie a importanti vantaggi competitivi in termini di integrazione, economie di scala, complessità ed efficienza degli impianti, vicinanza ai giacimenti upstream (che forniscono il greggio e l’alimentazione di gas naturale) e posizione baricentrica rispetto ai mercati orientali e occidentali. Inoltre, è stato già definito un piano di sviluppo per aumentare la competitività e profittabilità del complesso attraverso l’incremento della flessibilità della selezione di greggi processabili e dell’efficienza energetica.      

Eni contribuirà allo sviluppo tecnologico degli impianti, avendo già maturato, nelle proprie raffinerie europee, un’ampia esperienza nella gestione dei processi utilizzati da Adnoc Refining (quali quelli relativi al cracking catalitico a letto fluido, all’hydrocracking, alla conversione e desolforazione dei residui, al cocking e altri) e nelle azioni di ottimizzazione volte a massimizzare il margine dei barili raffinati. L’operazione consentirà a Eni di rafforzare ulteriormente la resilienza del proprio business di raffinazione, riducendo l’obiettivo relativo al breakeven del margine di raffinazione del 50%, a circa 1,5 dollari al barile. 

Una nuova joint venture dedicata alla commercializzazione dei prodotti petroliferi

Eni e Omv, inoltre, si uniranno ad Adnoc nel costituire una nuova Joint Venture dedicata alla commercializzazione dei prodotti petroliferi, con le stesse quote azionarie stabilite per Adnoc Refining, creando ulteriore valore. Una volta costituita, la Joint Venture esporterà a livello internazionale i prodotti di Adnoc Refining, per un volume pari al 70% della produzione complessiva. Le forniture domestiche nell’ambito degli Emirati Arabi Uniti continueranno a essere gestite da Adnoc.

Il ministro di Stato degli Emirati Arabi Uniti e ad di Adnoc, Sultan Ahmed Al Jaber, ha commentato: “Siamo lieti di questa partnership con Eni e Omv nel nostro business della raffinazione e nella nuova compagnia dedicata al trading. Questa partnership si inquadra nella nostra visione volta a creare e indirizzare sempre maggior valore nei vari ambiti del nostro business.

Questa partnership innovativa – ha proseguito – ci supporta nella nostra ambizione di diventare leader nel downstream, con una flessibilità che ci metta in grado di rispondere rapidamente ai cambiamenti delle richieste e delle dinamiche del mercato. I partner ci aiuteranno a raggiungere il nostro obiettivo di creare sempre più valore da ogni singolo barile che produciamo. Lavorando congiuntamente con i nostri partner, genereremo ulteriore efficienza nell’ambito delle operazioni, migliorando la performance dei nostri asset e del nostro business”.     

Descalzi, con Adnoc Refining +35% capacità raffinazione

“Questi accordi consolidano la nostra forte partnership con Adnoc – ha commentato Claudio Descalzi – nell’arco di meno di un anno, siamo stati in grado di creare un hub con attività upstream d’eccellenza e una capacità di raffinazione efficiente, di grandi dimensioni e con ulteriore potenziale di crescita”. E ha spiegato: “Questa operazione, che ci consente di entrare nel settore downstream degli Emirati Arabi Uniti e che rappresenta per Eni un incremento del 35% della propria capacità di raffinazione, è in linea con la nostra strategia volta a rendere il portafoglio di Eni maggiormente diversificato dal punto di vista geografico, più bilanciato lungo la catena del valore, più efficiente e più resiliente rispetto alla volatilità del mercato”. 

Eni è presente nel settore upstream degli Emirati Arabi Uniti da marzo 2018, quando si è aggiudicata da Adnoc il 10% delle concessioni di Umm Shaif e Nasr e il 5% di quella di Lower Zakum, seguite nel novembre dello stesso anno dall’assegnazione del 25% della concessione di Ghasha, mega progetto offshore di Adnoc. Il 12 gennaio scorso, Eni si è aggiudicata il 70% nelle concessioni esplorative offshore denominate Blocco 1 e Blocco 2. Eni in Medioriente, oltre che negli Emirati Arabi Uniti, è presente anche in Oman, Bahrain, Libano e Iraq. 

Agi

Le startup che si occupano di blockchain e criptovalute hanno raccolto più soldi negli ultimi 5 mesi che in un anno e mezzo

Dopo le discussioni e i picchi speculativi, stanno arrivano gli investimenti. Dall'inizio del 2018, le startup che si occupano di blockchain e criptovalute hanno raccolto 1,3 miliardi di dollari in poco meno di 250 operazioni. La cifra segna un'accelerazione verticale rispetto allo scorso anno: in meno di cinque mesi, infatti, venture capital business angel hanno investito più di quanto non abbiano fatto nei precedenti 18 mesi (tra luglio 2016 e dicembre 2017). Sono i risultati raccolti da TechCrunch attingendo da quell'enorme serbatoio di dati che è Crunchbase.

Quanto corre la blockchain

Si tratta, comunque, di dati parziali. E che con tutta probabilità raccontano solo una parte del mercato. Sono infatti inclusi nel conteggio solo i round di venture capital e business angel, mentre sono escluse le Ico (che raccolgono dollari o criptovalute mature in cambio di monete digitali di nuova emissione), che spesso finanziano progetti legati alla blockchain. TechCrunch ha poi preso in considerazione solo le operazioni con cifre note, escludendo i round con ammontare non chiaro. 

Circle, il terzo crypto-unicorno

La corsa degli investimenti era attesa. A febbraio, Crunchbase aveva previsto il sorpasso del 2018 sul 2017. Ma quello che colpisce sono i tempi stretti in cui si è consumato e la forza dello slancio. Tra i passaggi chiave degli ultimi mesi, c'è il round da 110 milioni incassato da Circle. La startup che applica la blockchain ai pagamenti online, grazie a una valutazione che sfiora i 3 miliardi di dollari, è entrata nel ristretto gruppo dei crypto-unicorni: affianca Coinbase e Robinhood tra le società del settore con una valutazione superiore al miliardo di dollari.

La nuova geografia delle startup

Tra le altre operazioni di peso, TechCrunch ricorda i 118 milioni ottenuti da Orbs: la startup si propone come una “blockchain per i consumatori”. Offre cioè diversi servizi pensati per un mercato di massa. La terza operazione più abbondante riguarda i 75 milioni di dollari incassati da Ledger, società specializzata nello sviluppo di hardware sicuri per blockchain e criptovalute. Tre round che non raccontano solo tre storie di successo ma anche una geografia dell'innovazione fatta di blockchain ma non solo, di vecchie e nuove “startup nation”. Circle ha sede a Boston, Stati Uniti. Orbs a Tel Aviv, Israele. E Ledger a Parigi, in Francia. Forse è solo una coincidenza. Forse.

Agi News

Negli stabilimenti di Amazon Italia i ritmi di lavoro sono davvero da attacco di panico?

Il Black Friday è il giorno in cui tradizionalmente Amazon ‘fa il botto’. Durante il “Venerdì Nero” dello scorso anno il sito italiano del colosso di Jeff Bezos ha registrato il maggior numero di vendite di sempre, con più di 1,1 milioni di prodotti ordinati, al ritmo di circa 12 pezzi al secondo. Ma quest’anno, le 24 ore dedicate allo shopping online, favorito da sconti da capogiro- come vuole la tradizione americana –  difficilmente bisseranno il successo del 2016. Nel mega- centro di Amazon Italia a Castel San Giovanni (Piacenza), che impiega 4 mila persone, il Venerdì Nero trascorrerà, infatti, a braccia incrociate per chiedere un miglioramento delle condizioni retributive.

Lo stop delle attività è stato proposto dai rappresentanti del piacentino FISASCAT CISL, FILCAMS CGIL, UGL TERZIARIO e UilTUC UIL. Una decisione – riporta La Stampa –  presa nel corso di due assemblee tenutesi il 20 e il 21 novembre: i dipendenti vogliono condizioni di lavoro più umane e premi economici per gli straordinari che ancora non sono stati loro concessi. E così, per l’intero Black Friday e fino al turno mattutino del 25 novembre, chi si occupa di smistare, rintracciare e preparare gli ordini di milioni di consumatori incrocerà le braccia, con conseguenti potenziali disagi alla ricezione dei pacchi acquistati sul sito.

Per cosa scioperano

La protesta riguarda soprattutto i contratti dei 1600 lavoratori a tempo indeterminato ai quali si applica il contratto nazionale del Commercio. I restanti 2mila, ‘assoldati’ per il solo periodo natalizio con contratto di somministrazione, non parteciperanno allo sciopero. ‘L’astronave’ , come viene chiamato il centro, non si bloccherà del tutto, ma di sicuro i contraccolpi si sentiranno. I magazzinieri di Amazon Italia sono impegnati su tre turni di lavoro (6-14, 14.30-22.30, 23-6), e guadagnano tra i 1.100 e i 1.200 euro netti al mese per 14 mensilità. Il problema, paradossalmente, nasce dal contratto collettivo nazionale di lavoro del settore terziario e del commercio con cui sono inquadrati i dipendenti. “Amazon non riguarda il comparto logistico, ma quello del terziario e la paga prevista dal CCNL è di circa 1200/1250 euro al mese, ma noi chiediamo l’applicazione di un contratto di secondo livello che preveda condizioni economiche più equilibrate e che però l’azienda si rifiuta di applicare perché per legge è tenuta ad applicare solo quello nazionale”, spiega a La Stampa Pino Di Rosa, rappresentante territoriale di UGL TERZIARIO.

Turni disumani?

 E poi ci sono le difficili condizioni di lavoro: “Dentro Amazon si resiste in media 3 anni – racconta Francesca Benedetti rappresentante territoriale FISASCAT CISL – Esistono delle eccezioni, io ho almeno tre delegati sindacali che lavorano da 5 anni in Amazon ma con dei sacrifici fisici enormi”. Di frequente, poi, i dipendenti lamentano polsi infiammati, attacchi di panico, turni di notte per un mese di seguito senza quasi stop. Le fa eco Di Rosa: “In Amazon non c’è un minuto in cui si sta fermi. E durante le feste, i saldi o il Natale questi ritmi aumentano: c’è una richiesta enorme di produttività da parte di Amazon ai suoi dipendenti a cui però non corrisponde una contropartita in termini di premi, bonus o condizioni sostenibili per quanto riguarda i turni”.

La risposta di Amazon

L’accusa dei sindacati è che da parte di Amazon Italia “non c’è stata alcuna apertura concreta all'aumento delle retribuzioni o della contrattazione del premio aziendale, considerando anche la crescita enorme di questi anni. I ritmi lavorativi non conoscono discontinuità, le produttività richieste sono altissime e il sacrificio richiesto non trova incremento retributivo oltre i minimi contrattuali".  Intanto, il colosso americano ha risposto picche sottolineando in una nota che "i salari dei dipendenti di Amazon sono i più alti del settore della logistica e sono inclusi benefit come gli sconti per gli acquisti su Amazon.it, l'assicurazione sanitaria privata e assistenza medica privata". E ancora: “In Italia così come avviene negli altri Paesi in Europa in cui siamo presenti, manteniamo relazioni con le rappresentanze dei lavoratori e le organizzazioni sindacali; allo stesso tempo portiamo avanti la nostra politica di porte aperte che incoraggia i dipendenti a trasferire commenti, domande e preoccupazioni direttamente al proprio management team. Crediamo fermamente che questo rapporto diretto sia il modo più efficace per capire e rispondere alle esigenze del nostro personale”.

 

 

 

 

Agi News

Il nuovo business negli Usa si chiama marijuana, ma è italiana l’erba più richiesta

Se è vero che uno dei compiti dei fondi di venture capital è cercare mercati vergini, ma ad alto potenziale, investendo in aziende capace di conquistarli, forse vale la pena tenere d'occhio quello che sta succedendo in questi anni negli Usa. 

Dagli ncc alle canne, il salto di Benchmark Capital

Benchmark Capital è uno di questi fondi. Ed è considerato uno dei più affidabili, avendo scommesso con successo in Uber, Snapchat, Dropbox e la rete di coworking più grande al mondo, WeWork, prima che lo facessero molti altri. Il 23 maggio invece ha ufficializzato un nuovo tipo di investimento, con un nuovo fondo. Ha scommesso in Hound Labs, una startup di Oakland che ha prodotto un vaporizzatore per aspirare marijuana a scopo terapeutico: 8 milioni. 

Da 13 a 200 milioni di finanziamenti

Ma è solo dell’ultimo di una serie di investimenti che in questi anni hanno caratterizzato il nascente mercato della cannabis. Nuovo, diventato legale da due anni in alcuni stati degli Usa, e che ha potenzialità di crescita enormi. I finanziamenti in queste aziende sono esplosi dal 2014. Si è passati da 13 a 200 milioni solo negli States.

Lo stesso sta succedendo in Israele, che con gli Usa sono la nazione modello per il mercato del capitale di ventura. Un indicatore chiaro per il mercato, che scommette sulla progressiva liberalizzazione della cannabis aprendo di volta in volta nuovi mercati. Negli Usa, come nel resto del mondo. 

Entro il 2021 la cannabis sarà un mercato da 22,6 miliardi

Ad oggi nel mondo si calcolano 807 startup che si occupano in qualche modo di cannabis. Produzione, commercializzazione, consumo, uso terapeutico, ricreativo. Non solo. Varietà, modi di consumo, nuovi trend potrebbero diventare ulteriori mercati. Sulle aziende che se ne occupano ci hanno puntato gli occhi 1.027 investitori a caccia di buoni affari. Le vendite di marijuana legale negli Usa ha toccato i 4 miliardi di dollari di giro d’affari con utili per le aziende che si calcola possano toccare i 22,6 miliardi nel 2021. 

Non è un caso quindi che i ‘capitali di ventura’ cerchino di accaparrarsi ora una buona fetta della torta. Un altro esempio? Eaze, una startup californiana che consegna marijuana a domicilio ha raccolto 13 milioni di dollari da due fondi di venture. Dove è possibile acquistarla, la cannabis negli Usa si ordina come le pizze su JustEat. 

Un affare anche per le casse dello stato. Come succede in Colorado: la legalizzazione della cannabis ha portato in tasse 200 milioni di dollari nel 2016, il doppio rispetto all’anno precedente, e quattro volte in più rispetto al 2014, quando sono stati legalizzati uso e vendita. Mentre il giro d'affari lo scorso anno è schizzato a un miliardo. Oggi in Colorado si vendono più cannabinoidi che alcolici. Una rivoluzione del business, sì, ma a pensarci anche culturale. 

L'esempio dell'Italia, con l'erba 'più famosa al mondo'

In Italia? Beh la situazione normativa non è quella degli Usa e da noi il consumo di cannabis è illegale. Però una società bolognese che produce marijuana ha scovato una normativa e elaborato una strategia di marketing che le ha permesso di fiorire in Italia.

Ha parlato per prima di ‘principio attivo al di sotto dei limiti di legge’. Lo scrive La Stampa che ha intervistato il suo fondatore, Felice Giraudo, 83 anni. Lui produce erba legale. E' light, per questo molto richiesta. Non ha un effetto psicotropo, insomma non sballa, ma è ricca di cannabinoidi “sostanze psicoattive usate per le loro qualità terapeutiche”. Questo ha consentito alla sua azienda (si chiama EasyJoint) di avere un ‘boom’ di richieste, che fatica a soddisfare. A conferma che il mercato c’è. Anche in Italia. E che, se vogliamo, i venture americani ci hanno visto bene. Negli Usa, un po’ meno da queste parti. 

Agi News