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Cosa sappiamo degli uragani: come nascono, perché aumentano, come si studiano e quali effetti producono sull’economia anche nel tempo

Questo articolo è il primo di una serie di approfondimenti (gli americani lo chiamano long form journalism) di Agi. Obiettivo: fare chiarezza, in modo semplice e il più esaustivo possibile, sui grandi temi di attualità (il prossimo sarà sul nucleare). Come metodologia di lavoro abbiamo scelto di mettere in campo le competenze che stiamo sperimentando ormai da un anno nei campi del data journalism e del fact-checking. Quello che vi apprestate a leggere è dunque un approfondimento condotto in pool dai nostri giornalisti con i colleghi di Formicablù (Marco Boscolo) e di Pagella Politica (Giovanni Zagni). L'articolo può essere letto dall'inizio alla fine, oppure, andando direttamente alle sezioni di interesse, cliccando sui titoli del sommario che trovate qui sotto.  La realizzazione di questo contenuto è sponsorizzata da Eni

Cosa sono gli uragani e come si formano 

Uragani sugli Usa, aumentano i più disastrosi

Cambiamenti climatici e uragani: un sospetto che non è certezza

I 'cacciatori di uragani', fegato e stomaco forte

Uragani & dollari, l'incerto effetto sull'economia

 
 

Cosa sono gli uragani e come si formano

 

I cicloni tropicali sono tra i fenomeni naturali più potenti e distruttivi. Quelli che si formano nell’Oceano Atlantico prendono il nome di uragani (compreso il Mar dei Caraibi e il Golfo del Messico). In Asia sono chiamati tifoni.

Sono prodotti da una complessa fenomenologia atmosferica, determinata da centri di minima pressione e aspirazione originati dalle elevate temperature equatoriali. E’ in questi centri che convergono i venti, con un moto spiraliforme suscitatore dei vortici. L’ampiezza dei cicloni può raggiungere un diametro di centinaia di chilometri.

Chiunque risieda in un’area interessata a questi fenomeni deve essere preparato a conviverci. Basti pensare – secondo la guida redatta dal National Weather Service della National Oceanic and Atmospheric Administration statunitense, aggiornata nel 2013 – che dal 1970 al 2010 il numero medio annuo di questi fenomeni è stato di 11 tempeste tropicali, di cui sei diventate uragani nell’area Atlantico-Caraibi-Golfo del Messico; di 15 tempeste tropicali, di cui otto diventate tifoni nell’Oceano Pacifico Orientale; di quattro tempeste tropicali, di cui due diventate tifoni nell’Oceano Pacifico Centrale.

I rischi da giugno a novembre

In un periodo medio di due anni, la costa degli Stati Uniti è colpita mediamente da tre uragani, di cui uno classificato “major hurricane”.  Sia gli uragani sia le tempeste tropicali mettono a rischio grave le vite e i beni, anche per i danni causati dalle piogge torrenziali e dalle inondazioni.

Un ciclone tropicale viene classificato uragano quando la velocità dei venti va da 74 miglia orarie (119 chilometri orari) in su. La stagione degli uragani va dal primo giugno al 30 novembre, con i fenomeni più intensi da metà agosto alla fine di ottobre. (Nel Pacifico Orientale dal 15 maggio al 30 novembre. Nel Pacifico nordoccidentale i cicloni possono colpire tutto l’anno).

Un disastro che ispirò Shakespeare

Memorie delle tempeste tropicali si ritrovano, naturalmente, in molte culture e da migliaia di anni. Probabilmente, la prima cronaca di un ciclone atlantico appare nei geroglifici Maya. In tempi moderni, memoria dei più devastanti uragani è rimasta viva negli Stati Uniti e si è trasfusa anche nella letteratura. Nel 1609, una flotta che trasportava coloni dalla Gran Bretagna alla Virginia fu colpita da un uragano. Alcune imbarcazioni trovarono riparo alle Bermuda e divennero, quei passeggeri, i primi abitatori delle Isole. La loro storia ispirò “La Tempesta” di William Shakespeare.

I cicloni hanno anche influito sulla storia: la Francia perse il controllo della costa atlantica del Nord America nel 1565, quando un uragano ne disperse la flotta permettendo agli spagnoli di conquistare Fort Caroline, vicino all’attuale città di Jacksonville in Florida. Nel 1640 un uragano distrusse parte di una grande flotta olandese che si accingeva ad attaccare Cuba, mentre un altro nel 1666 si abbatté sulle sorti del governatore britannico delle Barbados, Lord Willoughby, lasciando pochi superstiti di una flotta di 17 navi e circa duemila uomini, che furono catturati dai francesi.

Il vento soffia sulla storia

Secondo alcuni studiosi, le calamità del 1640 e del 1666 avrebbero contribuito a determinare il controllo degli spagnoli su Cuba e della Francia su Guadalupe. Più di due secoli dopo, durante la guerra con la Spagna, il presidente americano William McKinley dichiarò di temere più un uragano della flotta nemica. Fu difatti lui a favorire la nascita di un servizio di allerta sugli uragani, precursore dell’attuale NHC (National Hurricane Center).

Si riporta di seguito la Scala Saffir-Simpson, usualmente impiegata per stabilire la categoria degli uragani in base alla velocità e ai danni che possono produrre.

Irma tornerà nel 2023

Dal 1953, le tempeste tropicali atlantiche hanno un nome proprio secondo liste redatte dal NHC. Sono tenute e aggiornate secondo le procedure del comitato internazionale della World Meteorological Organization. Nel grafico sopra, la lista relativa a quest’anno. Gli elenchi sono sei in tutto e sono utilizzati a cadenza annuale ricorrente (quindi i nomi del 2017 saranno nuovamente utilizzati nel 2023). Ha fatto eccezione il nome di Katrina, che per la gravità dei disastri e delle vittime causate nel 2005 è stato abolito su richiesta del governo americano (e sostituito dall'appellativo Katia già nel 2011).

 

 

Uragani sugli Usa, aumentano i più disastrosi

 

Con l’arrivo di Irma il computo totale degli uragani di categoria 4 e 5 che dal 1853 hanno colpito il territorio degli Stati Uniti sale complessivamente a 150. E il “tassametro” continuerà a correre, forse con maggiore velocità. I dati provengono dalla National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA), l’agenzia statunitense che si occupa della meteorologia, e in particolare dal National Hurricane Center, che tiene a precisare come si tratti dei soli uragani osservati e registrati: soprattutto per i periodi più lontani, altri uragani – e non si sa di che entità e in che quantità – mancano all’appello. I numeri comunque non raccontano alcuni aspetti della storia. Negli ultimi 17 anni, e la stagione degli uragani 2017 non è ancora terminata, sono dieci gli eventi di categoria 5, un numero già vicino ai 14 che hanno toccato il suolo americano tra 1950 e 1999.

Settembre è il mese più nero

Per rendersi conto dell’aumento della frequenza con cui questo tipo di eventi atmosferici estremi si presenta sulla costa atlantica americana abbiamo diviso il numero di uragani per il numero di anni presi in considerazioni, spezzettati a mezzo secolo alla volta. Il risultato generale è che rispetto al cinquantennio 1900-1949, nei diciassette anni dal 2000 a oggi il numero medio di uragani di categoria 4 o 5 è più che raddoppiato, passando da poco meno di uno all’anno (0,82) a due (2,06).

Arrivato all’inizio di settembre, Irma conferma che storicamente è questo il mese in cui si presentano più uragani di grande potenza. Dei 32 di categoria 5 registrati dal NOAA, infatti, ben 18 sono arrivati a settembre.

 

Alle ore 12 del 12 settembre scorso, le vittime accertate di Irma erano 46, un numero relativamente basso rispetto a quello che raccontano i dati sugli uragani di categoria 5 degli ultimi vent’anni. C’è sempre da ricordare che quando una perturbazione atlantica si abbatte sugli Stati del Golfo del Messico, non vengono colpiti solamente gli Usa, ma diversi altri Paesi. Così il record di vittime spetta a Mitch, che nel 1998 si è abbattuto sulla Florida dopo avere già devastato, tra gli altri, Honduras (circa 7000 vittime) e Nicaragua (quasi 4000).

 

Sul fronte dei danni economici causati da Irma, è ancora presto per avere delle stime affidabili. Come racconta un articolo di Bloomberg.com, la cifra potrebbe oscillare tra i 50 e i 200 miliardi di dollari. Per dare una prospettiva storica all’aspetto economico di eventi di questa portata, abbiamo raccolto i dati che riguardano gli ultimi 10 uragani di categoria 5, dove spicca uno degli uragani più mediatici di sempre, Katrina, che nel 2005 ha colpito in pieno una grande città come New Orleans.

 

Sulla carta abbiamo mappato gli spostamenti degli stessi uragani. I dati provengono dal servizio Hurdat2 del National Hurricane Center che mette a disposizione i dati di tutti i rilevamenti. Ogni scia colorata rappresenta un diverso uragano e cliccando su ognuno dei pallini si possono conoscere velocità del vento e pressione atmosferica in un determinato momento della vita di questi fenomeni. La mappa mette ben in evidenza anche una caratteristica tipica degli uragani atlantici: il loro punto di origine sulla costa dell’Africa occidentale, dove i venti secchi che spirano dal Sahara incontrano l’aria umida dell’Atlantico.

 

Cambiamenti climatici e uragani: un sospetto che non è certezza

 

Esistono luoghi dove gli uragani si formano con maggiore frequenza? E se sì, sono gli Stati Uniti a essere i più colpiti?

Si è detto che la distinzione tra uragani, tifoni e cicloni è solo nel nome, ma si tratta dello stesso fenomeno atmosferico. Se si verifica nelle regioni dei Caraibi, nell’Atlantico settentrionale – come quelli che interessano gli Stati Uniti – e nel Pacifico nordorientale viene denominato “uragano”, da Huracan, una divinità centroamericana.

Nel Pacifico nordoccidentale – quando colpisce ad esempio la Cina, il Giappone o le Filippine – si chiama “tifone”, mentre nell’Oceano Indiano e nel Pacifico sudoccidentale (Australia, India, Bangladesh) la denominazione è “ciclone tropicale” o altre simili.

Quasi tutte le tempeste tropicali nel mondo si originano nelle zone dei Tropici, perché man mano che ci si avvicina ai Poli la superficie del mare è troppo fredda per la loro formazione. Per l’influsso di alcune correnti fredde, poi, ci sono zone oceaniche quasi non interessate dal fenomeno, soprattutto nell’emisfero australe.

Quella che ha visto gli uragani delle ultime settimane, l’area dell’Oceano Atlantico settentrionale, non è la zona più colpita: le tempeste più potenti nascono nel Pacifico occidentale, seguito dall’Oceano Indiano. L’Atlantico è solo al terzo posto per numero totale delle tempeste, e quelle che interessano Stati Uniti e Caraibi sono meno del 15 per cento del totale globale.

Tra il 2006 e il 2016 ci sono stati 121 eventi atmosferici paragonabili agli uragani nell’area del Pacifico orientale, contro i 70 dell’Atlantico settentrionale. E anche sul fronte delle tempeste tropicali da record, il Pacifico ha diversi primati dalla sua: se avete visto le simulazioni che sovrappongono l’uragano Irma alla mappa dell’Europa, e ne siete rimasti impressionati, pensate a cosa dovette essere il supertifone Tip, che nel 1979 passò nei pressi di Guam, e al suo massimo era largo circa 2.200 chilometri – più o meno metà degli Stati Uniti continentali.

Più segnalazioni con più traffico marittimo

Gli studi dicono che gli uragani nell’area dell’Atlantico, negli ultimi cento anni circa, non sono aumentati di numero in modo significativo. O meglio: quelli rilevati sono di più rispetto all’inizio del Novecento, ma con ogni probabilità questo dipende solo dal fatto che molte più navi, oggi, attraversano l’Oceano e quindi ne viene segnalato un numero maggiore. Se guardiamo a quelli che sono arrivati fino alla terraferma americana, ad esempio, alla fine dell’Ottocento ce ne furono leggermente di più.

Gli uragani, però, potrebbero essere diventati più grandi, più intensi, in una parola più distruttivi. Qui viene naturale il collegamento: le attività umane che modificano il clima, come l’emissione di gas serra, hanno già portato a un aumento nell’intensità degli uragani? Oppure la porteranno nel prossimo futuro? La risposta che danno oggi gli studi si può riassumere in modo molto semplice: è presto per dirlo, ma c’è qualche indizio che sia così. Il punto sulla questione lo fa il Laboratorio Geofisico di Fluidodinamica (GFDL) del NOAA, l’agenzia federale americana che si occupa di meteorologia.

I ricercatori scrivono che “è prematuro concludere che le attività umane – e in particolare le emissioni di gas serra che causano il riscaldamento globale – abbiano già avuto un impatto misurabile sugli uragani atlantici o i cicloni tropicali a livello globale”.

Ma se non ci sono ancora certezze sul presente, per il futuro le previsioni sono più cupe.

I danni aumenteranno del 30%

Se il riscaldamento globale continuerà al ritmo attuale, gli uragani più intensi probabilmente aumenteranno in frequenza e intensità di qui alla fine del XXI secolo, almeno in alcune aree. Queste previsioni sono state raggiunte non solo per la zona dell’Atlantico – gli uragani in senso stretto – ma per tutte le tempeste tropicali nel mondo, come ha concluso uno studio del 2010 dell’Organizzazione Meteorologica Mondiale.

Il cambiamento climatico influisce sulle tempeste tropicali, come gli uragani, in diversi modi: da un lato alza la temperatura alla superficie del mare, che favorisce la formazione e l’intensità degli uragani, mentre dall’altro riscalda la parte dell’atmosfera chiamata troposfera superiore e aumenta la variazione verticale dell’intensità e direzione del vento (un effetto chiamato wind shear). Questi ultimi due effetti contrastano la formazione di uragani.

Qual è l’effetto di queste spinte in senso contrario? Secondo i modelli elaborati dai meteorologi, nel complesso il numero degli uragani potrebbe perfino diminuire, ma diventando più intensi e con maggiori piogge. Uno studio del 2010 prevede un aumento del 30 per cento nei potenziali danni nell’area dell’Atlantico entro la fine del secolo, e un altro vede un raddoppio degli uragani di categoria 4 e 5 (le più alte) nello stesso periodo.

I "cacciatori di uragani", fegato e stomaco forte

 

“È come entrare in un autolavaggio con un gruppo di gorilla che saltano sopra la macchina”. Descrive così l’esperienza di volare dentro a un uragano Jim Hitterman, tenente colonnello dell’Air Force americana. Nel corso della sua ultraventennale carriera di pilota militare, è salito decine di volte su di un aereo speciale in dotazione a una particolare squadra di specialisti, gli Hurrican Hunters (letteralmente “cacciatori di uragani”) che portano gli strumenti di rilevazione scientifica dentro agli occhi dei cicloni per conoscerli da vicino. La loro storia è diventata un reportage di Reuters.

Anche in Italia ci sono scienziati che hanno fatto l’esperienza di Hitterman e colleghi. Uno di loro è Antonio Ricchi, ricercatore dell’Istituto di Scienze Marine (ISMAR-CNR) di Venezia. Solo qualche settimana fa ha partecipato a un training europeo congiunto a Shannon, la stessa città irlandese dove ha sede Ryanair, e per cinque giorni ha fatto voli di raccolta dati in un grande ciclone che si trova vicino all’Islanda. Volare dentro a un uragano, con venti e turbolenze fortissime non è un’esperienza per stomaci deboli e comporta alcuni rischi. “Durante uno dei voli”, racconta Antonio Ricchi, “stavamo attraversando il fenomeno a circa 30 metri di quota sul mare, con venti a circa 80 km/h e io ero addetto al doppler. Hanno vomitato tutti tranne il pilota e io ho avuto un mancamento”.

Il gioco vale la candela

Viste le difficoltà, allora, perché effettuare questo tipo di voli? Il punto fondamentale è che sull’Oceano c’è quello che in gergo tecnico viene chiamato “buco osservativo”: non ci sono che rilevazioni indirette di quello che avviene. Inoltre, durante una tempesta nessuna nave passa in quel tratto di mare. Senza gli aerei, si usano le immagini satellitari, ma non sono così precise come i dati che si possono raccogliere sul posto. Per esempio, per quanto riguarda la temperatura del mare, dal satellite si può dedurre quella dei primi millimetri di superficie, ma con un uragano che “provoca onde di 10 o 12 metri, si tratta di una misura di utilità limitata”, spiega Ricchi. “Anche la velocità del vento è calcolata indirettamente misurando dalle immagini del satellite lo spostamento delle nubi”.

Oltre a essere un limite alla conoscenza scientifica di questi fenomeni atmosferici, i dati indiretti rappresentano un problema per l’accuratezza dei modelli previsionali, le simulazioni che permettono di prevedere quando e con che intensità un uragano colpirà la terraferma. "Se ci basiamo solamente sulle immagini satellitari", spiega Ricchi, “torniamo alle previsioni meteo del colonnello Bernacca negli anni Settanta: buone per domani, ma non a più giorni. Sarebbe come continuare a osservare un fenomeno guardandolo solo in due dimensioni”, mentre i voli degli Hurricane Hunters aggiungono la terza dimensione.

L'occhio di Irma

Il 5 settembre scorso un aereo dell’Office of Marine and Aviation Operation della National Oceanic and Atmospheric Administration americana (NOAA) è volato dentro l’occhio di Irma. Le immagini del centro della tempesta, visibili soprattutto nella seconda parte di questo video, sono spettacolari: dopo aver attraversato strati di nuvole dense che provocano l’effetto autolavaggio di cui parlava Hitterman, la telecamera di bordo mostra una specie di anfiteatro bianco, con muri altissimi di nuvole che circondano un ovale di cielo azzurro. È l’occhio di Irma.

Ma oltre alle immagini spettacolari, questo tipo di missioni permette di raccogliere moltissimi dati. Non si tratta solo di informazioni dirette, di prima mano, rispetto a quelle dedotte dal satellite. Trovarsi sul posto permette di raccogliere anche altre informazioni. “Dentro all’uragano”, spiega Antonio Ricchi, “si raccolgono tutti i dati meteorologici: posizione geografica dell’occhio, elevazione sul livello del mare, altezza delle onde, pressione atmosferica, velocità del vento, temperatura”. Ma anche, per esempio, la velocità di rotazione delle particelle d’aria su scala millimetrica: “una precisione pazzesca”, che si traduce in migliori modelli di previsione del comportamento del singolo uragano.

Questi dati aiutano a migliorare anche le previsioni statistiche: con quale probabilità un certo tipo di fenomeno, con una certa energia, si verifica in un dato punto della costa? Conoscere meglio, con l’aiuto degli aerei, gli uragani aiuta a migliorare anche questi modelli previsionali di più lungo termine. “Servono anche a capire dove una centrale nucleare, per esempio, può essere costruita in sicurezza”, continua Ricchi. “Tutti ci ricordiamo di Fukushima, dove non ci si aspettava onde anomale di quelle dimensioni, ma lo stesso problema si potrebbe presentare anche con le centrali nucleari della Florida”.

Voli troppo salati

Nonostante l’utilità, questi voli di misurazione vengono usati relativamente poco perché hanno un costo molto elevato. Gli aerei impiegati sono modificati in modo da sopportare condizioni di volo estreme e spesso lunghe, perché gli uragani devono essere raggiunti in mezzo all’Atlantico. Tutto questo non fa che aumentare il costo. “Pensiamo solo alla manutenzione maniacale cui devono essere sottoposti gli aerei”, racconta Ricchi, “sia prima che dopo ogni volo per garantire la sicurezza”. Lo squadrone 53d della ricognizione meteorologica dell’aviazione americana, quella del tenente colonnello Jim Hitterman, è l’unica squadra militare operativa di questo tipo al mondo e ha una flotta di 10 aeroplani.

In Europa sono poche le realtà che si possono permettere di coprire i costi di mantenimento dei velivoli speciali che sono necessari. “Anche il training a cui ho partecipato”, specifica Ricchi, “è stato reso possibile solo dal fatto che più istituti europei hanno unito gli sforzi”. Costi elevati che limitano anche i voli dello squadrone americano, che infatti si attiva solamente quando determinati livelli di allerta vengono superati come nel caso di Irma.

Uragani & dollari, l'incerto effetto sull'economia

 

Se incommensurabile è l’impatto umano di un uragano, e il dolore che può lasciarsi dietro, misurabili e misurate sono le conseguenze di natura finanziaria, non foss’altro perché riguardano immediatamente le imprese di assicurazione e di riassicurazione, che devono quantificare i danni con la maggiore precisione possibile.

Sono immediati e misurabili, per Harvey, Irma e per simili calamità del passato, anche gli effetti sui listini di borsa: i titoli del comparto assicurativo registrano di solito sensibili variazioni negative. I prezzi di alcuni prodotti, sulle borse merci, segnalano variazioni più o meno spinte al rialzo. E’ il caso, per effetto dell’uragano Irma, dei future di novembre sul succo d’arancia, per i pesanti danni alle coltivazioni della Florida (secondo produttore mondiale di succo d’arancia e secondo produttore di arance negli Stati Uniti).

La crescita di un albero e il dilemma delle cifre

Misurabili sì, i costi di un uragano: ma bisogna avvertire che non c’è mai univocità sulle valutazioni preliminari. Cambia il 'quantum' a seconda dei criteri adoperati. La stima che farebbe di Irma l’uragano più costoso della storia americana, firmata dall’analista Barrie Cornes della Panmure Gordon, valuta il costo complessivo a 300 miliardi di dollari. Sarà solo in fase successiva che si potrà dargli o meno ragione. Più asseverabile appare il conto finale dell’uragano Harvey che ha flagellato il Texas ad agosto, attorno ai 100 miliardi di dollari. Una somma veramente enorme, ma ancora inferiore all’uragano Katrina del 2005 (se è nel giusto la stima di 176 miliardi, inclusi gli 82 sborsati dalle assicurazioni e a tanto calcolati da Swiss Re).

Ogni calcolo è tuttavia approssimazione: tornando all’esempio delle arance, i danni – rileva su “The Guardian” Alan Konn, di Price Asset Management – non sono soltanto immediati, come la devastazione di un raccolto. Se si pensa a quanto tempo ci vuole perché un albero di arancio piantato sia portato a produzione, si comprenderà, estendendo l’esempio a tutte le colture, che i danni dei cicloni risultano tenaci e più spalmati nel tempo.

E’ chiaramente fondamentale l’area dove impatta il disastro: la Federal Reserve di St. Louis, dopo Harvey, valuta (ma non quantifica) i danni sugli impianti produttivi energetici e chimici del Texas, prevedendo un rialzo dei prezzi dei carburanti maggiore di quello segnato dopo gli uragani Katrina e Rita.

Certo è che le stime economiche elaborate dalle compagnie assicurative non solo sono variabili e con ampio spread tra di loro, ma considerano solo, giustamente, i danni diretti, che impattano sul comparto: nel caso di Harvey si è assistito al balletto di cifre dai tre miliardi di dollari per le assicurazioni presunti da Hannover Re a una somma tra 10 e 20 miliardi presunta da JP Morgan.

Se l’algoritmo sbanda sui guardrail

Abbondano modelli di rischio, ma non hanno valore “profetico”: non basta stimare la velocità del vento e la quantità di acqua riversata sulla terra per ricavare un ammontare preciso dei danni. Ci sono fattori minori e circostanziali che sballano gli algoritmi, per cui tra un blocco immobiliare e il successivo, tra il tetto di un palazzo e l’altro, benché contigui, possono cambiare sostanzialmente le conseguenze.

Caso chiarificatore, l’uragano Sandy (2012), che causò costi aggiuntivi per decine di milioni di dollari perché impattò edifici che ospitavano nei piani terra server e documentazione finanziaria. Spesso – si nota su “The Atlantic” – si evidenziano costi che fanno sballare i forecast più accurati: gli analisti non si aspettavano che per sostituire i segnali stradali e i guardrail divelti dall’uragano Katrina, e che per rappezzare le strade, occorressero – quanti ce ne vollero effettivamente – ben 800 milioni di dollari.

Un capitolo a parte, e assai dibattuto, riguarda i costi indiretti delle calamità. Soprattutto gli impatti sulla macroeconomia. Gli analisti si dividono in tre categorie: chi crede – premettendo un ovvio “purtroppo” – che gli uragani abbiano un effetto propulsivo sull’economia; chi ritiene (per dirne uno, Nouriel Roubini) che i danni del dopo-Katrina siano stati sufficienti per la recessione; chi infine pensa, e questa terza categoria è forse la più numerosa, che le conseguenze positive e negative si compensino e in ogni caso non modifichino in misura significativa l’andamento economico. Si ascrive intanto alla prima scuola di pensiero il presidente della Fed di New York, William Dudley, quando dichiara che la fase di ricostruzione dopo Harvey e Irma darà una spinta al pil Usa: “Mi aspetto che tra la fine di quest’anno e la parte iniziale del 2018, i transitori effetti negativi dei cicloni saranno superati e cominceremo in realtà a vedere alcuni benefìci degli sforzi di ricostruzione in termini di stimolo dell’economia”.

La longeva parabola della “finestra rotta” 

Un’analisi svolta da First Trust (che tra l’altro sottoscrive la stima di circa 100 miliardi per i danni  di Harvey) sostiene che questi disastri non condizionino la crescita economica. Perlomeno, così non è stato finora: guardando ai grafici del pil nei periodi interessati da Katrina e Sandy, gli analisti non registrano una incidenza straordinaria. Nel primo trimestre 2006 (dopo Katrina) il prodotto interno lordo crebbe a un tasso annuo del 4,9% mentre non varcò il 3% nei primi due trimestri dopo Sandy:  “Nessuna di queste tempeste causò una recessione – notano a First Trust – e allo stesso tempo, i dati testimoniano che non vi fu una reale accelerazione della crescita in nessuno dei due casi”.

Insomma, non si sono fatti molti passi avanti dalla “parabola della finestra rotta” dell’economista francese ottocentesco Frédéric Bastiat (1801-1850), richiamato nelle sue lezioni di economia – First Trust lo cita nell’outlook – dallo studioso Henry Hazlitt (1894-1993). Se un vandalo, o un bambino, spacca il vetro di un negozio, il commerciante dovrà pagare un vetraio per sostituirlo. Il danno procurerà un guadagno al vetraio, ma lo sottrarrà magari a un sarto, da cui prima di sostenere la spesa straordinaria il negoziante progettava di andare a farsi un abito.

Agi News