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Tesla richiama oltre 500 mila veicoli negli Usa

AGI – Il produttore di auto elettriche Tesla Inc sta richiamando 578.607 veicoli negli Stati Uniti perché i pedoni potrebbero non essere in grado di sentire il suono di avvertimento richiesto per un’auto elettrica in avvicinamento a causa di musica ad alto volume o altri suoni riprodotti dalla funzione Tesla “Boombox”, ha affermato la National Highway Traffic Safety Administration (Nhtsa).

Tesla ha affermato di non essere a conoscenza di incidenti, lesioni o decessi relativi al problema che ha stimolato l’ultimo richiamo. L’azienda fondata da Elon Musk sta richiamando veicoli Model S, Model X, Model Y e Model 3 del 2020-2022 e del 2017-2022 appunto perché la “funzione boombox” consente di riprodurre i suoni attraverso un altoparlante esterno mentre il veicolo è in movimento e ciò potrebbe coprire il necessario suono di allarme avvicinamento dedicato ai pedoni.

Tesla eseguirà un aggiornamento software over-the-air che disabiliterà la funzionalità Boombox quando il veicolo è in modalità Drive, Neutral e Reverse. I veicoli elettrici sono spesso piu’ difficili da sentire a velocità inferiori rispetto ai motori a benzina.

Secondo le regole imposte dal Congresso, le case automobilistiche devono aggiungere suoni ai veicoli elettrici quando si muovono a velocità fino a 18,6 miglia orarie (30 chilometri orari) per aiutare a prevenire lesioni ai pedoni, ciclisti e non vedenti.  


Tesla richiama oltre 500 mila veicoli negli Usa

Dall’inizio della pandemia registrati 327 mila lavoratori autonomi in meno

AGI – In questi ultimi 20 mesi la crisi occupazionale provocata dal Covid non ha colpito indistintamente tutti. A pagare il conto più “salato”, purtroppo, sono stati i lavoratori indipendenti, ovvero gli autonomi e le partite Iva, che dal febbraio 2020 (mese pre Covid), al settembre 2021 (ultimo dato disponibile fornito dall’Istat), sono diminuiti di 327 mila unità (-6,3%).

Diversamente, i lavoratori dipendenti, anche se di poco, sono invece aumentati: sempre nello stesso arco temporale, lo stock complessivo degli impiegati e degli operai presenti in Italia è salito di 13 mila unità (+0,1%). A dirlo è l’Ufficio studi della Cgia di Mestre che sottolinea come il risultato positivo registrato dai lavoratori dipendenti è ascrivibile a un deciso aumento del numero dei lavoratori a tempo determinato; questi ultimi, tra febbraio 2020 e settembre di quest’anno, sono cresciuti di +108 mila unità; per contro, gli occupati a tempo indeterminato sono diminuiti di 95 mila.

Complessivamente, il gap occupazionale tra il febbraio 2020 e lo scorso mese di settembre rimane ancora negativo, anche se non ha nulla a che vedere con i picchi toccati nella primavera scorsa: l’ultimo dato disponibile, aggiunge la Cgia, ci dice che lo stock degli occupati presenti nel Paese rispetto al dato pre pandemia è più basso di 314 mila unità (-1,4 per cento).

Molti autonomi potrebbero essere tornati a fare i dipendenti  

Se analizziamo l’andamento degli occupati per fasce di età, dettaglia la Cgia di Mestre, riscontriamo che in questi ultimi 20 mesi è in calo sia il numero presente nella coorte dei giovani (15-34 anni) sia quello riconducibile alla mezza età (35-49 anni): rispettivamente di 98 mila e di 371 mila unità. Ad aumentare di numero, invece, è stata la platea degli over 50 che in questa fase di pandemia è cresciuta di 154 mila unità.

Premesso che i dati Istat non consentono di decifrare l’andamento dei flussi in entrata/uscita registrati in questo arco temporale, questo incremento potrebbe essere ascrivibile al fatto che molti autonomi e altrettanti collaboratori familiari o soci di cooperative di una certa età abbiano chiuso la propria posizione Inps; successivamente sono rientrati nel mercato del lavoro come dipendenti, sfruttando l’esperienza e la professionalità acquisita in tanti decenni di onorata carriera.

Soffrono ancora le città d’arte

Ad aver patito maggiormente gli effetti della crisi sono state le città d’arte. Anche in questi ultimi mesi di riapertura totale, in queste realtà urbane le difficoltà rimangono. L’Ufficio studi della Cgia ricorda che stiamo parlando di città che sono delle vere e proprie eccellenze nei settori della moda, del gioiello e dell’artigianato di qualità; tutti comparti che, in genere, costituiscono un’importante attrazione turistica per il nostro Paese.

Queste attività di alta gamma beneficiano dei medesimi flussi turistici che sostengono le attività ricettive, i pubblici esercizi e il trasporto pubblico locale (taxi e noleggio con conducente), con i quali spesso si sviluppano sinergie importanti. In città come Firenze e Venezia, ad esempio, il giro d’affari di queste attività commerciali-artigianali dipende, in media, almeno per il 60-70 per cento dagli acquisti dei turisti stranieri, soprattutto di provenienza extra Ue che in questi ultimi 2 anni sono mancati totalmente; pensiamo al crollo del turismo croceristico che ha messo a repentaglio migliaia e migliaia di posti di lavoro.

Pertanto, è necessario un intervento per “tappare” una crisi apparentemente infinita che sta gravemente compromettendo non solo le imprese della ricettività, del trasporto locale e dei servizi turistici, ma anche ristoranti, botteghe e negozi delle mete culturali e dei centri storici, rimasti ormai senza “fiato”. Imprese che devono essere sostenute più a lungo, con contributi a fondo perduto, ammortizzatori sociali e credito di imposta per gli affitti.

Si istituiscano i tavoli di crisi

Da almeno sei mesi la Cgia chiede sia al Governo che ai governatori di aprire un tavolo di crisi permanente a livello nazionale e regionale. Mai come in questo momento, dice l’associazione, infatti, è necessario dare una risposta ad un mondo, quello delle partite Iva, che sta vivendo una situazione particolarmente delicata. Intendiamoci, nessuno è in grado di risolvere i problemi con un semplice tocco di bacchetta magica.

Non dobbiamo nemmeno dimenticare che in questo ultimo anno e mezzo oltre ai ristori (ancorchè del tutto insufficienti), gli esecutivi che si sono succeduti hanno, tra le altre cose, approvato l’Iscro, esteso l’utilizzo dell’assegno universale per i figli a carico anche agli autonomi ed è stato introdotto il reddito di emergenza per chi è ancora in attività. Tutte misure importanti, ma insufficienti ad arginare le difficoltà emerse in questi mesi di pandemia.

A rischio la coesione sociale

È importante ribadire, conclude la Cgia, che i negozi di vicinato e le tante botteghe artigiane presenti nel Paese hanno bisogno di sostegno perchè garantiscono la coesione sociale anche del nostro sistema produttivo. Con meno serrande aperte le città e i nostri quartieri sono meno vivibili, più insicure; inoltre è a rischio la qualità del nostro made in Italy.

È necessario coinvolgere il Ministero dell’Istruzione affinchè attivi quanto prima una importante azione informativa/formativa nei confronti degli studenti delle scuole medie superiori che li sensibilizzi in particolar modo su un punto; una volta terminato il percorso scolastico, nel mercato del lavoro ci si può affermare anche come lavoratori autonomi.


Dall’inizio della pandemia registrati 327 mila lavoratori autonomi in meno

Il mercato delle criptovalute ha superato i 2 mila miliardi di dollari

AGI – Il valore totale del mercato di tutte le criptoattività ha superato i 2.000 miliardi di dollari a settembre, dieci volte di più rispetto all’inizio del 2020. I soli stablecoin hanno toccato quota 120 miliardi. quadruplicando dall’inizio dell’anno.

Il calcolo è del Fondo monetario internazionale secondo cui, insieme a “un nuovo mondo di opportunità”, crescono anche “sfide e rischi”. Finora, sottolinea il Global financial stability report, gli incidenti registrati “non hanno avuto un impatto significativo“, ma “man mano che il settore diventerà sempre più mainstream, la loro importanza in termini di implicazioni potenziali per tutta l’economia è destinata ad aumentare”.

 In particolare, l’Fmi mette in guardia sui rischi che corrono i consumatori. Di oltre 16.000 token quotati in vari scambi, soltanto 9.000 esistono ancora oggi, mentre il resto si è volatilizzato in varie forme. Ad esempio perché molti di loro non hanno più volume sufficiente o perché gli sviluppatori si sono ritirati dal progetto. O anche perché erano stati creati per mera speculazione o direttamente con intenzioni fraudolente.

Inoltre, osserva il rapporto, l’anonimato delle criptoattività crea lacune di dati per i regolatori e può aprire le porte al riciclaggio o al finanziamento del terrorismo. Per quanto le autorità siano in grado di tracciare le transazioni illecite, possono avere difficoltà a risalire alle parti coinvolte. Senza dimenticare che la differenza delle cornici regolatorie tra i vari Paesi complica il coordinamento, con molte transazioni che avvengono tra entità che operano principalmente in centri finanziari offshore. “Ciò”, avverte il Fondo, “rende la supervisione e il controllo non solo complicato, ma quasi impossibile senza collaborazione internazionale”.

A preoccupare gli economisti di Washington è anche il rapido diffondersi delle criptoattività nei Paesi emergenti e in via di sviluppo. “Guardando al futuro”, avverte il Gfsr, “un’adozione così rapida e diffusa può porre significative sfide rafforzando la dollarizzazione dell’economia – o in questo caso la criptizzazione – con i cittadini che cominciano a usare criptovalute al posto della moneta locale. E ciò può ridurre la capacità delle banche centrali di condurre con efficacia la propria politica monetaria”. Le criptoattività potrebbero inoltre favorire l’evasione fiscale e i deflussi di capitale. 

Di qui l’esortazione del Fondo ad agire in modo “deciso, rapido e ben coordinato a livello globale per consentire di mantenere i benefici ma, allo stesso tempo di ridurre le vulnerabilità”. Cinque sono i suggerimenti che arrivano da Washington. E il primo è l‘invito a regolatori e supervisori a monitorare il rapido sviluppo di questo ecosistema e i rischi che può porre, affrontando il nodo della carenza di dati.

I regolatori nazionali, inoltre, dovrebbero dare la priorità all’applicazione degli standard globali esistenti. E quanto al ruolo degli stablecoin, la regolamentazione “dovrebbe essere proporzionata ai rischi che pongono e alle funzioni che svolgono, allineandola a quella di altre entità che forniscono strumenti simili (depositi bancari o fondi monetari di mercato)”.

 Contro la ‘criptizzazione’ dei Paesi emergenti e in via di sviluppo, l’Fmi sollecita a rafforzare le politiche macroeconomiche e a considerare i benefici che deriverebbero dall’emissione di una moneta digitale garantita dalla banca centrale. Infine, a livello globale, conclude l’Fmi, le autorità dovrebbero “rendere il sistema di pagamenti transfrontaliero, più veloce, meno costoso, più trasparente e più inclusivo”. 


Il mercato delle criptovalute ha superato i 2 mila miliardi di dollari

Sono tornati al lavoro 140 mila ristoranti e agriturismi

AGI – Primo weekend di ritorno al lavoro per titolari e collaboratori di quasi centoquarantamila bar, ristoranti, pizzerie e agriturismi con attività all’aperto nelle regioni gialle dove è possibile il servizio al tavolo all’esterno ma non quello al bancone interno per i bar. È quanto emerge dall’analisi della Coldiretti diffusa in occasione della festa del primo maggio “che rappresenta per molte imprese e lavoratori un segnale di speranza dopo molti mesi di grandi difficoltà.

Nei centri urbani le maggiori difficoltà

Hanno riaperto nel fine settimana – stima la Coldiretti – circa la metà dei servizi di ristorazione totali, con i posti all’aperto dei locali che sono però, molti meno rispetto a quelli al coperto. Le maggiori difficoltà si registrano nei centri urbani stretti tra traffico ed asfalto mentre nelle campagne – sottolinea la Coldiretti – ci si è organizzati secondo Campagna Amica per offrire agli ospiti degli agriturismi la possibilità di cenare sotto gli uliveti in mezzo alle vigne che stanno germogliando oppure nell’orto con la possibilità di raccogliersi la verdura direttamente”. 

“Limitativo per tutti è invece il limite fissato per il coprifuoco alle 22 poiché – precisa la Coldiretti – gli agriturismi sono situati nelle aree rurali e ci vuole tempo per raggiungerli dalle città”.

L’impatto sulla filiera

Le riaperture del weekend rappresentano circa l’80% del fatturato settimanale tagliato dallo smart working, e dalle difficoltà del turismo ed erano attese dopo mesi di lockdown che hanno colpito pesantemente i redditi degli operatori e i livelli occupazionali. “Un beneficio che si trasferisce a cascata sull’intera filiera con 1,1 milioni di tonnellate di cibi e di vini invenduti dall’inizio della pandemia.

Complessivamente nell’attività di ristorazione – rileva la Coldiretti – sono coinvolte 70mila industrie alimentari e 740 mila aziende agricole lungo la filiera impegnate a garantire le forniture per un totale di 3,6 milioni di posti di lavoro. Si tratta di difendere la prima ricchezza del Paese con la filiera agroalimentare nazionale che – conclude Coldiretti – vale 538 miliardi pari al 25% del Pil nazionale ma è anche una realtà da primato per qualità, sicurezza e varietà a livello internazionale”.


Sono tornati al lavoro 140 mila ristoranti e agriturismi

In un anno persi 660 mila posti di lavoro, fa sapere l’Inps

 

AGI – Effetto covid sull’occupazione: in un anno sono stati persi in Italia 660 mila posti di lavoro. A riferirlo è l’Inps nell’Osservatorio sul precariato. Secondo l’Istitituto di previdenza, a dicembre 2020 si attesta una perdita di posti di lavoro rispetto al medesimo momento dell’anno precedente pari a 660.000 unità, esito di un risultato positivo per i rapporti a tempo indeterminato (+259.000) e di un risultato nettamente negativo (-919.000) per l’insieme delle restanti tipologie contrattuali, tra le quali si distingue l’intensa contrazione dei rapporti di lavoro a termine (-493.000).

Il saldo annualizzato, vale a dire la differenza tra i flussi di assunzioni e cessazioni negli ultimi dodici mesi, identifica la variazione tendenziale delle posizioni di lavoro, vale a dire la differenza tra le posizioni di lavoro in essere alla fine del mese osservato rispetto al valore analogo alla medesima data dell’anno precedente.

Il dato, spiega l’Inps, in progressiva flessione già nel corso della seconda metà del 2019, è divenuto negativo a febbraio (-27.000) ed è peggiorato a causa della caduta dell’attività produttiva conseguente all’emergenza sanitaria a marzo (-283.000) e ancor di più ad aprile (-623.000).

La dinamica negativa è proseguita, seppur con un ritmo in progressivo rallentamento, raggiungendo il valore massimo a giugno (-812.000). A luglio si è avviata un’inversione di tendenza (– 758.000) proseguita lentamente fino a fine anno. 


In un anno persi 660 mila posti di lavoro, fa sapere l’Inps

In otto anni sono spariti 77 mila negozi nelle nostre città

AGI – Tra il 2012 e il 2020 è proseguito il processo di desertificazione commerciale e, infatti, sono sparite, complessivamente, dalle città italiane oltre 77mila attivita’ di commercio al dettaglio (-14%) e quasi 14mila imprese di commercio ambulante (-14,8%).

E’ quanto rileva l’analisi dell’Ufficio Studi di Confcommercio ‘Demografia d’impresa nelle citta’ italiane‘, secondo cui per il Covid nel 2021, solo nei centri storici dei 110 capoluoghi di provincia e altre 10 città di media ampiezza, oltre ad un calo ancora maggiore per il commercio al dettaglio (-17,1%), si registrera’ per la prima volta nella storia economica degli ultimi due decenni anche la perdita di un quarto delle imprese di alloggio e ristorazione (-24,9%). 

Inoltre aumentano le imprese straniere e diminuiscono quelle a titolarità italiana e a livello territoriale, il Sud, rispetto al Centro-Nord, perde più ambulanti, ma registra una maggiore crescita per alberghi, bar e ristoranti.    

Con l’arrivo del Covid, poi, anche il commercio elettronico, che vale ormai più di 30 miliardi, registra cambiamenti: nel 2020 è in calo del 2,6% rispetto al 2019 come risultato di un boom per i beni, anche alimentari, pari a +30,7% e di un crollo dei servizi acquistati (-46,9%). Quindi, città con meno negozi, meno attività ricettive e di ristorazione e solo farmacie e informatica e comunicazioni in controtendenza col segno più.    

Per Confcommercio “il rischio di non ‘riavere’ i nostri centri storici come li abbiamo visti e vissuti prima della pandemia è, dunque, molto concreto e questo significa minore qualità della vita dei residenti e minore appeal turistico”.      

Sangalli, contro desertificazione sostenere imprese

“Per fermare la desertificazione commerciale delle nostre città, bisogna agire su due fronti – sottolinea il presidente di Confcommercio, Carlo Sangalli – da un lato, sostenere le imprese più colpite dai lockdown e introdurre finalmente una giusta web tax che risponda al principio ‘stesso mercato, stesse regole’. Dall’altro, mettere in campo un urgente piano di rigenerazione urbana per favorire la digitalizzazione delle imprese e rilanciare i valori identitari delle nostre città”.

Tutti i numeri di Confcommercio

Tra il 2012 e il 2020 – secondo l’analisi – si è verificato un cambiamento del tessuto commerciale all’interno dei centri storici che la pandemia tenderà a enfatizzare.

Per il commercio in sede fissa, tiene in una qualche misura la numerosità dei negozi di base come gli alimentari (-2,6%) e quelli che, oltre a soddisfare bisogni primari, svolgono nuove funzioni, come le tabaccherie (-2,3%).

Significativi sono invece i cambiamenti legati alle modificazioni dei consumi, come tecnologia e comunicazioni (+18,9%) e farmacie (+19,7%), queste ultime diventate ormai luoghi per sviluppare la cura del sé e non solo quindi tradizionali punti di approvvigionamento dei medicinali. 

Il resto dei settori merceologici è invece in rapida discesa: si tratta dei negozi dei beni tradizionali che si spostano nei centri commerciali o, comunque, fuori dai centri storici che registrano riduzioni che vanno dal 17% per l’abbigliamento al 25,3% per libri e giocattoli, dal 27,1% per mobili e ferramenta fino al 33% per le pompe di benzina.

La pandemia acuisce questi trend e lo fa con una precisione chirurgica: i settori che hanno tenuto o che stavano crescendo cresceranno ancora, quelli in declino rischiano di scomparire dai centri storici. Quanto alle dinamiche riguardanti ambulanti, alberghi, bar e ristoranti, a fronte di un processo di razionalizzazione dei primi (-19,5%), per alberghi e pubblici esercizi, che nel periodo registrano rispettivamente +46,9% e +10%, il futuro è molto incerto.

Ma occorre reagire per dare una prospettiva diversa alle nostre città che rappresentano un patrimonio da preservare e valorizzare. Le direttrici indicate sono tre: un progetto di rigenerazione urbana, l’innovazione delle piccole superfici di vendita e una giusta ed equa web tax per ripristinare parità di regole di mercato tra tutte le imprese.


In otto anni sono spariti 77 mila negozi nelle nostre città

Che senso ha tenere chiusi i centri commerciali? L’appello di 780 mila dipendenti

AGI – “Nei giorni festivi e prefestivi di dicembre non si possono comprare i regali di Natale nei centri commerciali. Perché? I negozi dei centri commerciali sono sicuri quanto quelli dei centri cittadini”. Inizia così l’intervento che sei tra le associazioni più rappresentative del commercio hanno pubblicato a pagamento sulle principali testate giornalistiche in edicola oggi. Un’intera pagina in cui campeggia la foto di un ingresso ai negozi con la saracinesca abbassata. E nel titolo un grosso ‘Perché’ in evidenza.

La domanda è rivolta al Governo che nell’ultimo Dpcm ha imposto, tra le nuove misure per arginare i contagi da Covid, la chiusura dei centri commerciali nei giorni festivi e prefestivi nel periodo delle feste di Natale. Misure che per Confcommercio, Coop, Ancd, Consiglio nazionale dei Centri commerciali (Cncc), Federdistribuzione e Confimprese sono “contraddittorie”.

Sottolineano le associazioni: “Per garantire la sicurezza, abbiamo investito su tutti i nostri 40.000 punti vendita, con l’aiuto e il massimo impegno di chi ci lavora. Perché, allora, si toglie alle persone il diritto di scegliere dove andare a fare i propri acquisti?”. Da qui la richiesta “con urgenza” di un intervento che modifichi le norme “per assicurare la sopravvivenza dei punti vendita presenti nei 1.300 centri commerciali in Italia che danno lavoro a 780.000 persone”.

Agi

Oltre 134 mila persone aspettano l’assegno Inps della cassa integrazione

AGI – Al 17 giugno, sono 134.358 le persone che ancora attendono di ricevere la cassa integrazione per far fronte all’emergenza legata alla pandemia. A certificarlo è l’Inps che ha pubblicato i dati relativi alle domande di integrazioni salariali Covid-19 spiegando che la maggior parte però (108.590) sono riferite a domande ricevute a giugno. In base alle domande presentate entro il 31 maggio, invece, sono 25.768 il numero dei lavoratori che, al 17 giugno, non ha mai preso almeno un pagamento. Sulla base di domande regolarmente presentate dopo il 31 di maggio, sono in attesa di essere pagati 356.939 lavoratori, che tuttavia hanno già ricevuto almeno un pagamento riferito a integrazioni mensili di periodi precedenti.
L’Inps stima inoltre che al 17 giugno ammonta a 11 milioni la quota totale dei beneficiari delle diverse prestazioni per Covid per una spesa complessiva di 15 miliardi di euro. Il conteggio comprende tutti i diversi tipi di bonus erogati dai 600 euro ai congedi parentali, dalla cassa integrazione al Reddito di emergenza.

Sulla base delle domande per le integrazioni salariali Covid-19 regolarmente presentate, il numero di lavoratori che non hanno ricevuto almeno un pagamento al 17 giugno sono 134.358. L’Inps spiega che per la maggior parte però (108.590) sono riferite a domande ricevute a giugno. Sulle domande presentate entro il 31 maggio, invece, sono 25.768 il numero dei lavoratori che, al 17 giugno, non ha mai preso almeno un pagamento. Sulla base di domande regolarmente presentate dopo il 31 di maggio, sono in attesa di essere pagati 356.939 lavoratori, che tuttavia hanno già ricevuto almeno un pagamento riferito a integrazioni mensili di periodi precedenti. 
 

Agi

Sono oltre 43 mila i contagiati sui luoghi di lavoro

Sono 43.399 i contagi da nuovo Coronavirus di origine professionale denunciati all’Inail tra la fine di febbraio e il 15 maggio, circa seimila in più rispetto ai 37.352 della rilevazione del 4 maggio. Lo rende noto l’Inail. I casi di infezione con esito mortale registrati nello stesso periodo sono 171, 42 in piu’ rispetto al monitoraggio precedente, e circa la metà riguarda il personale sanitario e socio-assistenziale, con i tecnici della salute e i medici al primo posto tra le categorie più colpite.

L’età media dei lavoratori che hanno contratto il virus è di 47 anni, sale a 59 per i casi mortali

Come evidenziato dal terzo report sui contagi sul lavoro da Covid-19 elaborato dalla Consulenza statistico attuariale dell’Istituto, l’età media dei lavoratori che hanno contratto il virus è di 47 anni per entrambi i sessi, ma sale a 59 anni (58 per le donne e 59 per gli uomini) per i casi mortali. Nove decessi su 10, in particolare, sono concentrati nelle fasce di età 50-64 anni (70,8%) e over 64 anni (19,3%). Il 71,7% dei lavoratori contagiati sono donne e il 28,3% uomini, ma il rapporto tra i generi si inverte nei casi mortali.

I morti tra gli uomini sono l’82,5% del totale, il primato negativo al Nord Ovest

I decessi degli uomini, infatti, sono pari all’82,5% del totale. L’analisi territoriale conferma il primato negativo del Nord-Ovest, con oltre la metà delle denunce complessive (55,2%) e il 57,9% dei casi mortali. Tra le regioni, invece, più di un’infezione di origine professionale su tre (34,9%) e il 43,9% dei decessi sono avvenuti in Lombardia. Rispetto alle attività produttive, il settore della Sanità e assistenza sociale, che comprende ospedali, case di cura e case di riposo, registra il 72,8% delle denunce (e il 32,3% dei casi mortali), seguito con il 9,2% dall’amministrazione pubblica, con le attività degli organi legislativi ed esecutivi centrali e locali.

Agi