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Descalzi: “Dall’idrogeno soluzioni per l’industria e la mobilità pesante”

AGI – Dall’idrogeno possono arrivare molte soluzioni per decarbonizzare settori industriali come raffinazione, chimica, cementifici e cartiere ma questa fonte di energia potrà avere un ruolo anche nella mobilità, in particolare quella pesante. Lo ha detto l’ad di Eni, Claudio Descalzi, partecipando all’evento ‘La strategia sull’idrogeno e la transizione energetica’ organizzato da Il Sole 24 Ore.

“Si parla di idrogeno da circa 30 anni”, negli ultimi anni “ci sono stati dei miglioramenti tecnologici” ma su questo fronte c’è “soprattutto la necessità di un mix energetico che ha bisogno di diversi vettori energetici e anche di diverse risorse primarie”, ha spiegato il manager. 

“Siamo in un mondo in cui ancora nella parte elettrica” la fonte principale è il carbone da cui provengono “circa il 72% delle emissioni. Si tratta quindi di un mondo energetico molto variegato. Abbiamo il gas e poi abbiamo la parte rinnovabile che sta salendo soprattutto in Europa ma con cui non riusciamo a coprire tutto perché i bisogni energetici stanno crescendo sempre di più soprattutto nei paesi in via di sviluppo”. Alla luce di tutto questo, ha osservato Descalzi, “abbiamo bisogno di altri vettori energetici e l’idrogeno è un vettore energetico che può dare grosse soluzioni in campo industriale ma anche nella mobilità, in particolare quella pesante e che insieme all’elettrico può contribuire alla decarbonizzazione”. 

Mobilità a idrogeno per mezzi pesanti

“Noi ci siamo attrezzati e incominceremo da vere stazioni di servizio multifunzionali con elettrico, biogas e idrogeno, in maniera più limitata perché gli investimenti si fanno in funzione della domanda e a questo punto non ci sono molti trasporti a idrogeno. In futuro come è accaduto per l’elettrico ci sarà una crescita partendo dalla parte più pesante”, ha aggiunto l’ad di Eni. 

L’idrogeno, ha spiegato, per la “mobilità più leggera è meno efficiente ma il pieno di idrogeno della macchina si fa in qualche minuto, c’è una certa facilità di caricamento”. La prospettiva è comunque quella rappresentata dalla mobilità pesante: “Si può andare sulla parte camion ma anche sulla parte navale e dove si usa il gasolio per i treni, l’idrogeno potrebbe, in modo limitato, far muovere i treni”. 

Nessuna contrapposizione tra idrogeno verde e blu

“Nell’industria dove c’è bisogno di energia e si vuole decarbonizzare ogni volta che si cerca una contrapposizione si rallenta il sistema. Il sistema energetico non è un sistema ideologico ma è un sistema tecnologico. Dobbiamo essere neutri e lavorare in funzione dei costi del mix e soprattutto individuare gli scopi e gli obiettivi”, ha evidenziato Descalzi. 

“Il nostro obiettivo è togliere la CO2 catturandola e quindi parliamo di un idrogeno decarbonizzato per far funzionare le nostre raffinerie che non possiamo chiudere. Se non lo facciamo la CO2 continuerà ad essere emessa. Si tratta di una soluzione per decarbonizzare le raffinerie, gli impianti chimici, power plant”, ha spiegato Descalzi.  “Guardando al 2050 vediamo che ci sarà una quadruplicazione della produzione di idrogeno. Il 43% sarà idrogeno blu e il 48% sarà verde. Quindi c’è un piano ben definito a livello Europeo e mondiale”, ha aggiunto.  

Cattura CO2 importante per decarbonizzazione

Il processo di decarbonizzazione vede nella cattura e stoccaggio della CO2 un tassello importante. Si tratta, ha aggiunto Descalzi, di un processo “molto consolidato in Europa e negli Stati Uniti. Noi iniettiamo CO2 con Equinor da almeno 8-9 anni nei campi che condividiamo. Siamo stati selezionati dalla Gran Bretagna per i campi esausti nella baia di Liverpool per decarbonizzare la loro industria pesante. Un processo che parte anche in Olanda”.

Lo stoccaggio della CO2 “è un processo che, in giro per il mondo, viene incentivato perche è il metodo piu efficiente per decarbonizzare sistemi energivori importanti come raffinazione, chimica, cementifici, vetro, cartiere, ammoniaca. Tutte cose di cui abbiamo bisogno ma che devono essere decarbonizzate”, ha concluso l’ad di Eni. 


Descalzi: “Dall’idrogeno soluzioni per l’industria e la mobilità pesante”

Le guerre familiari che hanno segnato l’industria italiana

Il tessuto economico italiano è ricco di piccole e medie imprese a controllo familiare, che spesso hanno sofferto i passaggi generazionali; tante volte, tuttavia, anche nelle principali famiglie del capitalismo italiano, come ricorda lo scontro sul futuro del gruppo Espresso (Gedi) fra l’ingegner Carlo De Benedetti e i figli, questi passaggi hanno portato a vere e proprie rotture. Ecco alcuni esempi.

AGNELLI – È il 24 gennaio 2003 quando Giovanni Agnelli muore nella sua casa sulla collina torinese. Per la sua successione da tempo è stato lui stesso a scegliere il nipote John Elkann, dopo la prematura scomparsa di Giovanni Alberto Agnelli, figlio di Umberto, nel 1997. La scelta di John Elkann, allora ventunenne, viene condivisa dalla famiglia, che lo accompagna fino all’ascesa al vertice di Exor e Fca ed anche ora riconosce gli importanti risultati realizzati sotto la sua guida. I dissidi principali, in quella che è una delle più importanti dinastie italiane, si manifestano dopo la morte dell’avvocato ma riguardano la sua eredità. Una battaglia giudiziaria viene intrapresa dalla figlia di Gianni, Margherita, che fa causa alla madre Marella, a Gianluigi Gabetti, a Franzo Grande Stevens e a Siegfried Maron. Margherita, pur avendo già raggiunto un accordo sull’asse ereditario del padre, chiede un nuovo quadro chiaro e completo del patrimonio che ha lasciato. La prima udienza in tribunale si svolge nel 2008, ma un anno dopo i giudici di Torino dichiareranno inammissibili tutti i 48 capitoli di prova presentati da Margherita. Con la definitiva parola della Corte di Cassazione, del 2015, la battaglia per l’eredità dell’Avvocato è definitivamente chiusa e i rapporti della figlia dell’Avvocato, inizialmente freddi con il resto della famiglia, a poco a poco si normalizzano.

CAPROTTI – Bernardo Caprotti contro il figlio Giuseppe, e poi contro quest’ultimo e la sorella Violetta, entrambi frutto del primo matrimonio del fondatore dell’Esselunga. Uno scontro decennale che ha visto come teatro le aule del tribunale, e che si è protratto anche dopo la morte nel settembre del 2016 di Bernardo tra i figli di primo letto e Marina Sylvia, la figlia nata dall’unione con la seconda moglie, Giuliana. Il motivo e’ sempre stato lo stesso: la visione sul futuro dell’Esselunga e il controllo di un impero da oltre 7 miliardi di euro e piu’ di 22 mila dipendenti, il primo gruppo italiano della grande distribuzione, un marchio-icona per la spesa di milioni di consumatori soprattutto del Nord Italia. La dynasty della famiglia Caprotti è al tempo stesso epopea e sofferenza che incarna uno dei caratteri distintivi dell’imprenditoria a carattere familiare tipica dell’Italia, con al vertice quello che spesso è un autentico ‘genio’ creativo e a valle le generazioni successive, schiacciate dal peso di chi non si rassegna a tramandare agli eredi ciò che eleva a rango di figlio, oltre che da una sensazione di inadeguatezza che affonda la spiegazione nei miti della Grecia classica.

La prima pagina della soap opera caprottiana risale al 1996 quando, con lo scopo di preparare la successione, Bernardo cede le proprie quote a Giuseppe, Violetta e Marina Sylvia, conservando l’usufrutto sulla metà delle azioni e il diritto di voto in assemblea, in modo da continuare a comandare. Dopo 15 anni il colpo di scena: Bernardo ci ripensa e, senza neanche avvertirli, si riprende le quote societarie assegnate a Giuseppe e Violetta. Il padre accusa Giuseppe di essere circondato da “un ciarpame manageriale” infedele e inadeguato a gestire l’azienda, e soprattutto di voler vendere a colossi internazionali la sua creatura. Giuseppe si difende, respinge al mittente le accuse, sospetta che alla base di tutto ci siano le trame per “dare tutto” alla seconda moglie e alla figlia Marina Sylvia. Al dramma dell’impero perduto, si aggiunge il trauma del figlio ‘rifiutato’: “La sua opera di demolizione psicologica mi ha paralizzato per anni”, afferma in una rara intervista di repertorio Giuseppe che non può dimenticare come fu messo alla porta, in modo che a distanza di anni ancora l’offende: “Se non esci da qui, chiamo le guardie”. Come un ladro qualunque, non come un figlio destinato a subentrare al padre.

Sta di fatto che parte una causa civile lunga anni e anni, su cui si abbatte, come un condono tombale, la morte stessa di Bernardo. Con il corpo ancora caldo del fondatore dell’Esselunga, inizia una triste e tanto tesa processione allo studio del notaio Marchetti, custode delle più delicate vicissitudini familiari e imprenditoriali della finanza milanese che conta. Puntuali arrivano i ricorsi, le comunicazioni affidate ai principali studi legali del capoluogo lombardo, le notizie fatte filtrare attraverso i mezzi di informazioni, perché inevitabilmente il testamento non accontenta i figli di primo letto: il 66,7% della holding che controlla il gruppo, infatti, va all’asse ereditario Giuliana-Marina. Nei mesi successivi un accordo tra le parti si concluderà con l’ulteriore rafforzamento nella società della moglie e di Marina Sylvia e la liquidazione di Giuseppe e Violetta delle loro restanti quote, sancendo la loro definitiva uscita di scena e la loro definitiva, ma forse non più amara, sconfitta.

MARZOTTO – All’apice della sua storia fu un gruppo da oltre 1 miliardo e mezzo di fatturato, con un cognome, Marzotto, che voleva dire moda, jet set e molto altro. L’impero tessile di Valdagno (Vicenza) è un chiaro esempio di cosa si rischia con il passare delle generazioni, quando famiglie già numerose si allargano ed emergono visioni e sensibilità diverse. Oggi il gruppo, che controllava marchi come Valentino e Hugo Boss, è diviso e i vari componenti della famiglia si occupano di attività nei settori più disparati. A Valdagno c’è ancora l’azienda dei filati, guidato dal ramo che fa capo ad Andrea Donà delle Rose e ale figlie di Giannino, di Umberto e di Marta Marzotto; a Fossalta di Portogruaro (Venezia) ci sono Paolo Marzotto e i suoi discendenti, con la loro Zignago Vetro e le cantine Santa Margherita. Matteo Marzotto, figlio di Marta e uno degli esponenti più in vista della famiglia, ha rilanciato la maison Vionnet per poi rivenderla ed è entrato in Dondup, oltre a essere sempre presente nella holding che controlla il gruppo di Valdagno.

BENETTON – Anche un’altra delle grandi dinastie venete, quella dei Benetton, ha vissuto passaggi turbolenti e, prima delle discussioni dell’ultimo anno, momenti tesi ci sono stati quando Alessandro Benetton, figlio del patriarca Luciano, decise di rilanciare il gruppo di moda che porta il nome della famiglia e che è stato alla base delle sue fortune. La scelta, presa nel 2012, fu accompagnata dalla consapevolezza, espressa chiaramente, di “aver fatto per la prima volta qualcosa che non gli conveniva”, e portò a scontri con lo zio Gilberto e Gianni Mion, lo storico manager di famiglia ora tornato alla guida della holding edizione. La rottura arrivo’ dopo poco: formalmente Alessandro è stato a capo della United Colors of Benetton per appena 2 anni.

TABACCHI – Minore fortuna hanno avuto i Tabacchi: il loro impero nel mondo degli occhiali si è sfaldato, con il ramo di Vittorio che è uscito dalla Safilo, ceduta al fondo olandese Hal, e quello di Dino che ha ceduto la catena Salmoiraghi Viganò a Luxottica. All’origine della perdita dell’azienda la scelta da parte di Vittorio di liquidare oltre a Dino (com’era noto a tutti, anche se si chiamava Ermenegildo) e all’altro fratello Giuliano le loro quote in Safilo, dopo alcune divergenze sul futuro e soprattutto sul ruolo dei figli. Al tempo stesso il debito fatto per portare avanti la liquidazione dei due rami appesantirà per lunghi anni la struttura finanziaria del gruppo, fino alla necessità di una ricapitalizzazione che manderà i Tabacchi dal 40 al 10%; in mezzo un paio di cambi di management, compreso un passaggio al timone del gruppo da parte di Massimiliano, figlio di Vittorio.

COIN – Simile sorte è toccata ai Coin, eredi di un impero della grande distribuzione: anche qui c’è un Vittorio, che però si scontra con Piergiorgio. Ci sono gli anni della crescita impetuosa, alla fine del secolo scorso: prima viene comprato il ramo abbigliamento della Standa, poi arriva la quotazione, infine l’acquisizione di Kaufhalle in Germania. Una mossa, quest’ultima, che non dà i frutti sperati e che acuisce i dissapori all’interno dei due rami della famiglia veneziana, con Piergiorgio che viene estromesso dall’azienda, controllata da una holding in cui i due gruppi sono rappresentati pariteticamente. Nel 2005, dopo alcuni tentativi di rimetterlo in carreggiata compresa la cessione di una minoranza della controllata Ovs, la quota di controllo del gruppo, che aveva toccato 1,2 miliardi di fatturato ma era finito in rosso, viene rilevata per 181 milioni dal fondo Pai Partners.

DEL VECCHIO – Anche il patron del gigante dell’occhialeria, Leonardo Del Vecchio, ha avuto i suoi motivi di preoccupazione, anche se in questo caso la partita ha riguardato più i rapporti con le mogli che con i figli direttamente. L’imprenditore, noto per aver detto che “i figli devono restare lontani dall’azienda, dato che non si possono licenziare”, ha dovuto ridisegnare l’assetto del gruppo proprio in virtù della necessità di bilanciare le pretese delle diverse parti e di garantire un futuro unitario all’azienda. Il 25% della holding Delfin è stato destinato all’ultima moglie Nicoletta Zampillo, il 75% invece è diviso fra i 6 figli. Tre di questi – Claudio, Marisa e Paola, sono frutto delle prime nozze, con Luciana Nervo; Leonardo Maria è figlio della Zampillo, con cui il magnate si è poi risposato; ci sono poi Luca e Clemente, nati dalla relazione con Sabina Grossi.

MERLONI – Ma non sono solo gli imprenditori del Nord ad aver avuto difficoltà nel passaggio generazionale: anche in casa Merloni, la famiglia marchigiana a cui faceva capo il gruppo degli elettrodomestici Indesit, i contrasti, a lungo sopiti, sono esplosi con la malattia di Vittorio, figlio di Aristide Merloni. Con il passaggio generazionale, avvenuto nel 2010, ci furono diversi scontri fra i quattro figli e nel 2014 l’azienda è stata venduta agli americani di Whirpool. 

Agi

L’industria dei videogiochi combatte la disoccupazione. Ma l’Italia non lo ha capito

Sono lontani i tempi in cui i videogiochi erano solo un passatempo per bambini e adolescenti che trascorrevano le ore chiusi in camera. “Oggi il videogame è una cosa seria. Lo dicono i numeri: il settore genera un fatturato globale di circa 100 miliardi di euro. Ma l’Italia – che si attesta sul miliardo all’anno – non ne ha ancora compreso le potenzialità”.

Ne è convinto Raffaele Galante, co-fondatore, insieme a suo fratello Abramo, di Digital Bros: il gruppo multinazionale “nato e cresciuto” in Italia, ma che opera nel settore dei videogiochi a 360 gradi. L’ultimo colpo messo a segno è “Last day of June” di Ovosonico, il videogioco romantico che tocca temi come dolore e morte e che fa commuovere.  “In fatto di idee e creatività noi italiani non siamo secondi a nessuno”, commenta Galante.

“Se riuscissimo a creare un’industria di produzione – e non solo di consumo – potremmo dare un contributo notevole alla lotta alla disoccupazione giovanile”. Fantascienza? Niente affatto, sostiene Galante, che lavora quotidianamente con il mercato estero attraverso i suoi vari uffici. “Le società di sviluppo, le startup non sono sostenute dalle istituzioni come accade ad esempio in Canada, in Scandinavia, in Israele. Ma anche in Polonia”. Eppure molte di loro sono destinate ad acquisire un valore enorme, senza contare si tratta di realtà che “danno occupazione a centinaia di migliaia di giovani”.

Supercell deve fare scuola

A testimonianza della sua tesi, Galante cita come esempio virtuoso Supercell, azienda finlandese produttrice di videogiochi, fondata nel 2010 ad Helsinki, in Finlandia. E se il nome non vi dice nulla, vi basti sapere che è la casa madre di “Clash of Clans”, “Hay Day”, “Boom Beach” e “Clash Royale”. Prodotti che hanno riscosso un notevole successo, consentendo all'azienda di ricavare circa 3 milioni di dollari  al giorno nel 2014. A ottobre 2013 la compagnia giapponese GungHo Online Entertainment e la SoftBlank, fiutando il potenziale di Supercell, hanno acquistato il 51% dell'azienda investendo 2,1 miliardi di dollari. Nel 2016, la società è stata acquisita dai cinesi di Tencent Holdings, (già proprietaria di WeChat) per 8,6 miliardi di dollari.

Digital Bros, una storia di successo

Quella di Digital Bros è una storia di successo tutta italiana. Il gruppo nasce come Halifax nel 1989, impegnato unicamente nella distribuzione in Italia dei titoli di alcuni dei principali publisher al mondo. “Piano piano ci siamo evoluti, rappresentando alcuni dei più prestigiosi editori al mondo”. Se gli italiani hanno conosciuto e si sono appassionati a “Tomb Raider”, “Pro Evolution Soccer” e “Resident Evil”, il merito è della Digital Bros. “Abbiamo portato in Italia tre grandi brand che hanno fatto la storia dei videogame”.

Se riuscissimo a creare un’industria di produzione – e non solo di consumo – potremmo dare un contributo notevole alla lotta alla disoccupazione giovanile

Il vero balzo per la società è arrivato nel 2000 quando si è quotata in Borsa. “Avevamo un intento ben preciso: trasformarci da distributori a società che rappresenta sviluppatori, e addirittura fare noi stessi da editori a livello nazionale e internazionale”. Da dove iniziare? “Abbiamo aperto il primo ufficio in Inghilterra che allora rappresentava il crocevia europeo del mercato dei videogame”. Poi sono arrivati gli altri uffici.

Nel 2007 il gruppo fa un altro salto: “Era nato il digitale e noi ci siamo preparati allo switch. Tre anni dopo abbiamo adottato la strategia del ‘retail+digitaliazzazione’. In pratica, il consumatore entrava in un sistema che gli permetteva di aggiornare il gioco in continuazione con contenuti aggiuntivi. Si entrava in un rapporto costante con ii videogame e con i giocatori che entravano a far parte di una community”

Oggi Digital Bros opera nel settore a 360 gradi, diventando un Gruppo globale – con uffici in Cina, Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Spagna e Germania e oltre 260 dipendenti al mondo – ed è impegnato nella creazione, produzione e distribuzione di contenuti di intrattenimento digitale. Da qualche tempo Digital Bros stringe partnership importanti con alcuni tra i principali studi di sviluppatori italiani, come Ovosonico o Kunos Simulazioni, che il Gruppo ha acquisito alcuni mesi fa, ed esporta all’estero le sue proprietà Intellettuali, giochi originali creati e sviluppati in Italia. “Entrambi ci hanno colpito moltissimo. Il primo per la loro creatività e talento, il secondo per le competenze nell’automotive e nel settore delle simulazioni”.

In aggiunta, Digital Bros ha anche lanciato una scuola di formazione per quanti vogliono entrare nel mercato dei videogiochi, la Digital Bros Game Academy. Con sede a Milano, l’Academy unisce alla formazione teorica testimonianze di esponenti del settore, project work pratici e anche supporto. In questo senso, “lavoriamo come talent scout. L’Accademia ha l’obiettivo di formare i talenti del futuro”. E magari evitare che fuggano all’estero dove “trovano incarichi importanti nelle società più importanti”.

“Abbiamo una richiesta elevatissima, ma possiamo ammetterne solo una settantina per problemi legati alla capienza dell’edificio”. “Cosa cerchiamo? Quella persona in gradi di lavorare in team, fare squadra, ma anche andare oltre e lasciarsi andare all’intuito”. Agli studenti suggeriamo di essere “coraggiosi e creativi”. Dalla loro, i ragazzi hanno un background culturale di tutto rispetto: “Il nostro Dna gioca un ruolo fondamentale anche nell’industria dei videogiochi. La storia, la cultura possono dare un grossissimo apporto. Le idee possono venire anche da li e, in fatto di idee non siamo secondi a nessuno”.  

Il mercato dei videogiochi in Italia, in numeri

Quanto vale il mercato dei videogiochi in Italia? E quanti sono i consumatori? Ecco tutti i dati pubblicati nel rapporto annuale dell’Associazione editori sviluppatori videogiochi italiani (Aesvi).

Mercato

  • Fatturato del Mercato Videogiochi in Italia 2016: oltre 1 Miliardo di Euro (€ 1.029.928.287) +8,2% rispetto all’anno precedente
  • Incremento vendite software: +11,9% rispetto all’anno precedente
  • Percentuale vendite software su fatturato complessivo: 61,8% oltre 600 milioni di Euro (€ 636.908.554)
  • Software fisico: 54% -1,1% rispetto all’anno precedente (€ 346.222.859)
  • Software digitale: 46% +32,8% rispetto all’anno precedente (€ 290.685.694)
  • Incremento vendite console: +2,3% rispetto all’anno precedente
  • Incremento vendite accessori (pad, T2L, VR devices, etc) : +3,7%

Consumatori

Distribuzione per genere: 50% Maschi – 50% Femmine

Distribuzione per età:

14-17 anni :7,2%

18-24 anni: 12,9%

25-34 anni: 18,4%

35-44 anni: 22,4%

45-54 anni: 20,6%

55-64 anni: 10,7 %

Over 65: 7,9 %

Segmento età predominante: Tra i 25 e 55 anni (61,4%)

 

 

 

 

 

Agi News

Quali settori hanno portato l’industria alla crescita massima dal 2010

Energia, trasporti ed elettronica sono il nuovo volto del Made in Italy. Questi i comparti che hanno portato la produzione industriale a segnare a dicembre un inatteso rialzo del 6,6% rispetto allo stesso mese del 2015, ovvero il migliore dato del 2010 (rispetto a novembre, la crescita è invece pari all’1,4%). Numerose le ragioni di questo balzo, dall’euro debole all’aumento dei consumi interni fino alla ripresa del prezzo del petrolio. 

Il ritorno del barile sopra 50 dollari, grazie all’accordo tra i Paesi dell’Opec per un taglio congiunto della produzione, ha fatto sì che il comparto energetico fosse il settore di attività economica che ha registrato l’aumento più consistente dell’output: l’11,9%, percentuale che sale al 14,9% considerando nello specifico la fornitura di energia elettrica, gas, vapore ed aria. Seguono la fabbricazione di mezzi di trasporto (+12,2%) e la fabbricazione di computer, prodotti di elettronica e ottica, apparecchi elettromedicali, apparecchi di misurazione e orologi (+11,9%).

A frenare, a sorpresa, è l'abbigliamento

Quest’ultimo è un dato molto interessante, soprattutto se si considera che il settore tessile e la pelletteria sono l’unico comparto, insieme alla fabbricazione di coke e prodotti petroliferi raffinati, che registra un calo della produzione, accusando una flessione del 4,1%, legata in parte alla frenata dalla Cina. Ciò significa iniziare a scacciare lo spettro di un’Italia che produce solo scarpe e cinture e importa dall’Asia tutta l’elettronica da consumo. Soprattutto ora che venti di protezionismo soffiano sull’economia globale, emanciparsi in parte dalla dipendenza dall’estero per l’approvvigionamento di queste categorie di beni consentirebbe di attutire meglio la frenata impressa alla globalizzazione, oltre che costituire un volano incomparabile per il mondo della ricerca.

Cresce la domanda interna

Le spie del cambiamento erano comunque già nell’aria. Il mese scorso l’indice che misura la fiducia degli industriali era salito ai massimi da un anno e già a novembre i dati su ordini e fatturato avevano segnato un significativo aumento, salendo rispettivamente dell’1,5% e del 2,4% rispetto al mese precedente. A fare la differenza erano stati l’incremento degli investimenti interni e la crescita delle produzioni rivolte verso l’economia domestica, che avevano mostrato un andamento migliore rispetto a quelle verso l’estero. Quest’ultimo è un segnale assai incoraggiante, da una parte perché testimonia una crescita dei consumi degli italiani, dall’altra una minore dipendenza della nostra industria dalla domanda esterna. In tempi di rigurgiti protezionisti, occorrerà sapersi attrezzare e i presupposti per essere ottimisti sembrano esserci.

Agi News