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Ora anche gli influencer hanno il loro sindacato

AGI – Sono fluidi, come fluido è il loro lavoro. Si occupano di contenuti sulla Rete ma non in modo generico, utilizzano competenze e strumenti specifici. È complicato inserirli nelle caselle tradizionali del mondo del lavoro. Eppure del mondo del lavoro fanno parte, eccome: creano valore e attraggono valore (si legge investimenti).

Stiamo parlando dei professionisti dell’influencer marketing: un esercito di 350 mila influencer e content creator, che va dagli youtuber ai podcaster, dagli streamer agli instagrammer fino ai cyber atleti. Tutti protagonisti di un mercato che a oggi, solo in Italia, vale 280 milioni di euro. E che cresce: siamo a +15% rispetto al 2020 (secondo i dati di DeRev Lab). Nel mondo l’influencer marketing vale 14 miliardi  e in 5 anni la sua stima è triplicata.

Le aziende stanno investendo molti soldi sull’influencer marketing. Secondo i dati presentati nel report “Brand & Marketer” dell’Osservatorio Nazionale Influencer Marketing (Onim), oltre il 50% delle aziende italiane ha attivato campagne di influencer marketing nel 2021. E, se ancora una parte di queste non si è spinta oltre l’attivazione di 3 progetti nell’arco dei 12 mesi presi in esame, sempre nello stesso periodo si è vista una crescita del 15% delle imprese che hanno investito in 10 progetti di influencer marketing o più (più del 37%).

La professionalizzazione  

Il settore cresce e si accompagna a una sempre maggiore professionalizzazione di questa figura: il 53% degli intervistati nella ricerca dell’Osservatorio Nazionale Influencer Marketing ha dichiarato l’intenzione di aumentare la voce di budget dedicata al settore. Sempre di più le aziende sono consapevoli del valore portato da queste figure. Influencer e content creator sono di fatto una nuova categoria imprenditoriale. Di fatto molto, di diritto un po’ meno.

Il fatto che le aziende si rivolgano con sempre più frequenza a questi utenti per la realizzazione dei propri contenuti di brand è dimostrazione di come sia ormai riconosciuta agli influencer non solo la capacità di intercettare gusti e bisogni delle proprie community, ma anche e soprattutto di creare contenuti testuali, fotografici, video di qualità.

È un obiettivo in vista del quale gli influencer, almeno quelli che intendono trasformare in “mestiere” seguito e credibilità di cui godono online, spesso investono non solo in formazione ma anche in attrezzatura ad hoc (come smartphone di ultima generazione, luci, applicazioni di montaggio ed editing).

Lavoratori autonomi

Chi sono gli influencer per la legge? Lavoratori autonomi, di cui le istituzioni si sono occupate ben poco. Se escludiamo infinite tavole di discussione e il riconoscimento nel 2021 della figura del creatore di contenuti digitali da parte del Parlamento nell’emendamento Creators nella Legge sulla Concorrenza 2021, c’è poco altro.  In questo quadro giuridico poco chiaro: fisco, formazione, compensi, rappresentanza istituzionale è tutto demandato a normative preesistenti e alla contrattazione privata.

Per essere ancora più chiari per l’Amministrazione finanziaria l’attività di gestione di ecommerce, di affiliazione commerciale o di vendita di post a pagamento, all’interno di un sito web o di un social network è considerata un’attività economica di tipo abituale: è necessaria l’apertura di una partita IVA. Più o meno siamo all’anno zero. Sotto il profilo della tutela sindacale poi risulta una sola associazione: Assoinfluencer.

“Quella dell’influencer è una figura nuova e che cambia tanto rapidamente quanto il mondo dei media – ha spiegato Jacopo Ierussi, founder e presidente di Assoinfluencer – i creator possono essere artisti e imprenditori, atleti e divulgatori, ma sono sempre professionisti, capaci di produrre valore attraverso competenze e strumenti specifici”.

Che rapporto hanno con le aziende

Scambio di prodotti. La più tradizionale forma di collaborazione tra influencer e aziende è lo scambio di prodotti: le aziende inviano gratuitamente a quelli che individuano come trend setter (persone in grado di orientare il gusto) di settore all’interno di una determinata nicchia di consumatori nuovi prodotti in fase di lancio e campioni omaggio oppure li invitano a provare gratuitamente i loro servizi perché li presentino, ne parlino e li raccontino alle proprie community, procurando ai servizi e ai prodotti dell’azienda visibilità o contribuendo ad aumentare la presenza del marchio a seconda di quali siano gli obiettivi della campagna. In questo caso non c’è un guadagno economico effettivo per l’influencer, che però può guadagnarne a propria volta in visibilità e in numero di nuovi follower se l’azienda decide di ripostare o suoi contenuti sui propri canali social.

Coupon. A volte, insieme al prodotto omaggio, l’azienda fornisce all’influencer coupon e codici sconto da condividere con la propria community. In qualche occasione, poi, l’influencer può ricevere in omaggio dalle aziende prodotti e campioni con l’obbligo che li metta in palio durante contest. 

Rapporti sporadici. Le aziende possono coinvolgere sporadicamente gli influencer nella creazione di contenuti aziendali da postare su canali nuovi con linee che i team di comunicazione non padroneggiano del tutto e alla perfezione oppure coinvolgerli per intere campagne.

Eventi. Spesso brand e aziende lasciano il controllo degli account ufficiali agli influencer con cui collaborano soprattutto in occasione di presentazioni ed eventi aziendali a cui dare particolare visibilità e risonanza mediatica o una copertura in diretta altrimenti difficile da garantire. Anche a prescindere dalla necessità di creare contenuti per l’azienda o sponsorizzati dal brand, gli influencer sono spesso invitati a presenziare a eventi e occasioni aziendali, soprattutto se ormai noti anche al di fuori della Rete, perché la loro semplice presenza può far notizia e dare visibilità.

Volto delle aziende. Se la collaborazione tra influencer e azienda è di lungo corso, i primi possono trasformarsi in veri e propri testimonial del marchio e rappresentarne il volto più riconoscibile. Molte aziende nel tempo hanno investito proprio nello scegliere, tra personaggi famosi della Rete e più piccoli micro influencer e nano influencer ma con una grande credibilità presso le proprie community, i propri brand ambassador o i brand ambassador dei propri progetti, nell’ultimo caso soprattutto di responsabilità sociale o di natura green.

In qualche caso riconoscibilità, popolarità e affetto di cui godono gli influencer hanno fatto sì che le aziende li coinvolgessero anche nella creazione di merchandise o nel lancio di prodotti in edizione speciale e limitata. Per ognuna di queste azioni, almeno per quelle che non prevedono la semplice cessione gratuita di prodotti o servizi, l’influencer guadagna tramite un contratto firmato con l’azienda, previo apposito preventivo. Spesso a fare da intermediario in questa fase di contrattazione sono agenzie di influencer marketing che a propria volta guadagnano su commissione.

La regola. Se le collaborazioni con le aziende sono solo sporadiche e occasionali non ci sono in Italia precisi obblighi fiscali per gli influencer, a parte rilasciare al committente non privato una ricevuta con ritenuta d’acconto al 20% sul compenso lordo o in alternativa firmare un contratto di collaborazione occasionale. Se si intende lavorare come influencer o svolgere la professione di content creator in maniera sistematica serve invece aprire una partita IVA.

Quanto si guadagna

Sui guadagni degli influencer, ci sono le stime 2021 di DeRev. Un post su Facebook di un nano influencer (nella fascia tra i 10 mila e i 50 mila follower) può valere al massimo 150 euro, che diventano 750 se sei un Mid-Ter influencer (nella fascia tra i 300 mila e un milione di follower) e cinquemila se sei una celebrity (oltre 3 milioni di follower).

Un post su Youtube di un nano influencer (nella fascia tra i 3 mila e i 10 mila follower) può valere fino a 1.500 euro, che diventano 10 mila se sei un Mid-Ter influencer (nella fascia tra i 50 e i 100 mila follower) e fino a 80 mila se sei una celebrity (oltre 1 milione di follower).

Un post su Instagram e TikTok può valere fino a 250 euro (uguale per entrambe le piattaforme) se sei un nano influencer (nella fascia tra i 5 mila e i 10 mila follower). Che diventano rispettivamente 3.500 e 3mila euro se sei un Mid-Ter influencer (nella fascia tra i 50 e i 300 mila follower). Il post di una celebrity può valere fino a 75 mila euro su Instagram e 65 mila su TikTok.

Il caso Onlyfans

OnlyFans è un sito web di intrattenimento per adulti, sul quale i creatori possono vendere contenuti ai propri fan. A differenza dei social network tradizionali, questo sito non ha una politica restrittiva sui contenuti, per questo agli utenti è consentito condividere foto di nudo in cambio di un compenso. Tutte le transazioni di denaro devono avvenire tramite OnlyFans, che prende una quota sui guadagni (viene trattenuto circa il 20% del fatturato). i ricavi dipendono dal numero di iscritti, dal prezzo dei contenuti, dalla costanza con cui si pubblica, da quanto si sponsorizza il proprio profilo. Per esempio, con circa 50 iscritti che pagano un abbonamento mensile di circa 10 euro, e in più acquistano materiale extra nei messaggi, si guadagnano circa 400 euro al mese. Secondo Trend Online il guadagno medio su TikTok è di circa 180 dollari al mese.

Il rischio evasione

Con una crescita simile, senza una legislazione specifica sia sul piano fiscale sia dei compensi, il rischio di evasione fiscale è alto, altissimo. Certo, le cronache nostrane riportano solo le evasioni più eclatanti. A fine agosto la Guardia di Finanza di Ravenna ha denunciato tre “influencer e content creator” che nel giro di due anni avevano evaso imposte su redditi per 400 mila euro. Uno dei tre aveva pure preso 16 mila euro dal reddito di cittadinanza. Da dove venivano questi soldi: dalle piattaforme di social network ma anche da ricariche di carte prepagate.


Ora anche gli influencer hanno il loro sindacato

Perché i mercati hanno fiducia in Mattarella e Draghi

AGI – Nelle cancellerie europee tirano un sospiro di sollievo. Così come ai piani alti delle grandi istituzioni finanziarie che detengono gran parte del debito pubblico italiano. La conferma del ticket Mattarella-Draghi, infatti, è garanzia di stabilità e continuità. E soprattutto di fiducia. “La fiducia in finanza è praticamente tutto”, spiega un analista.

E l’incertezza nell’ultimo periodo si cominciava ad avvertire. Perché la partita del Quirinale, questa volta, era strettamente legata a quella del governo. Lo sapevano i cittadini comuni così come ne erano consapevoli gli investitori dei grandi fondi e delle banche d’affari che ogni giorno fanno muovere la finanza globale.

Lo spread, termometro della fiducia 

Per l’Italia lo spread rappresenta il termometro di questa fiducia. E nell’ultimo mese qualche linea di febbre si era registrata, con il differenziale passato dai 130 punti base di inizio mese fin quasi ai 150 punti base (148 pp) di giovedì 27 gennaio.

Certo ci sono in gioco anche altri fattori. Primo tra tutti la fine del programma pandemico della Bce (il Pepp, Pandemic emergency purchase programme, da 1.850 miliardi di euro), il prossimo mese di marzo. Ma nelle “stanze dei bottoni” sono pronti a scommettere che la stabilita’ politica porta anche stabilità finanziaria.

In un anno per ftse mib +21% 

A ulteriore dimostrazione di ciò – da quando  in carica il governo Draghi, l’indice principale di Piazza Affari, l’Ftse Mib ha guadagnato il 21,72%. Certo non è solo merito di mister ‘whatever it takes’. Nell’ultimo anno, il rimbalzo economico e finanziario si è registrato in tutto il mondo di pari passo con le riaperture delle attività, le vaccinazioni e la ripresa di una vita quasi ‘normale’.

La partita del Pnrr

C’è poi la partita del Recovery fund. La gara a tappe in cui l’Italia è impegnata per non perdere i 191,5 miliardi (68,88 miliardi in sovvenzioni e 122,6 miliardi in prestiti). Nel 2021 l’Italia ha raggiunto i 51 obiettivi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr) concordati con la Commissione Europea con scadenza il 31 dicembre 2021. Nel corso della conferenza stampa di fine anno, Draghi sottolineò come “occorre dimostrare che la fiducia degli altri Paesi europei, mostrata dando all’Italia questi fondi, è stata ben riposta”.

La fiducia che l’Europa dovrà avere nell’Italia. Nel 2022 infatti andranno centrati altri 102 obiettivi per assicurarsi la seconda e la terza tranche dei fondi europei, in tutto 40 miliardi.

Tagliando al governo?

Certo non tutto è definito. Nella maggioranza di governo, uno dei partiti ‘di peso’ come la Lega ha chiesto a Draghi una nuova fase di governo perché l’ultimo anno di legislatura non si trasformi in una campagna elettorale permanente. “Per affrontare questa nuova fase serve una messa a punto: il Governo con la sua maggioranza dovrebbe adottare un nuovo tipo di metodo di lavoro che ci permetta di affrontare in maniera costruttiva i tanti dossier, anche divisi, per non trasformare quest’anno in una lunghissima, dannosa campagna elettorale che non serve al paese”, ha detto il ministro dello sviluppo economico Giancarlo Giorgetti al termine di un incontro con il segretario della Lega Matteo Salvini. A dimostrazione che, pur se nella stabilità, quest’ultima settimana di votazioni per il Quirinale, qualche novità nel governo la porterà. E lunedì i mercati ricominceranno a giudicarci per vedere se la fiducia concessa è ben riposta. 


Perché i mercati hanno fiducia in Mattarella e Draghi

Microsoft e Sega hanno stretto un’alleanza strategica sui videogiochi

AGI – La società giapponese Sega ha raggiunto un’alleanza strategica con il produttore di Xbox Microsoft per sviluppare videogiochi sulla piattaforma cloud Azure del colosso americano. La partnership fa parte del progetto “Super Game” di Sega per lo sviluppo di titoli con ambizioni internazionali ad alto budget, ha affermato la società, ideatrice della famosa serie “Sonic the Hedgehog”.

“Con il mondo ora più connesso che mai a seguito dell’ampia diffusione del 5G e dei servizi cloud negli ultimi anni, i consumatori possono godere più facilmente di contenuti di intrattenimento di alta qualità in qualsiasi momento”, ha affermato il produttore di giochi giapponese in una nota.

“Lavorando con Microsoft per anticipare tali tendenze man mano che accelereranno ulteriormente in futuro, l’obiettivo è ottimizzare i processi di sviluppo e continuare a offrire esperienze di alta qualità ai giocatori che utilizzano le tecnologie cloud di Azure”. I titoli sviluppati da Sega appositamente per i server Azure potrebbero apparire nei prossimi anni su Xbox Game Pass, un servizio in abbonamento mensile che consente agli utenti di accedere a un ampio catalogo di giochi tramite la console Xbox.

Diversi giochi Sega, incluso il popolare “Yakuza”, sono già disponibili su Game Pass, altri anche tramite l’abbonamento Playstation Now di Sony o sullo store digitale di Nintendo. Le azioni di Sega sono aumentate di quasi il 6% alla Borsa di Tokyo. 


Microsoft e Sega hanno stretto un’alleanza strategica sui videogiochi

Nel 2020 dieci ministeri hanno pagato in ritardo i debiti con i fornitori 

AGI – “In una fase di difficoltà economica senza precedenti tutti si sarebbero aspettati che almeno i ministeri avessero pagato con puntualità le imprese fornitrici. Invece, le cose sono andate diversamente. Nel 2020, infatti, ben 10 ministeri su 12 lo hanno fatto in ritardo rispetto alle disposizioni previste dalla direttiva europea; in moltissimi casi peggiorando lo score registrato nel biennio precedente e confermando un trend che relega la nostra pubblica amministrazione tra le peggiori pagatrici d’Europa”. Lo afferma l’Ufficio studi della Cgia.

Nel 2020, ricorda l’associazione, “la situazione più critica relativa all’Indicatore di tempestività nei pagamenti registrato dai dicasteri italiani riguarda il ministero dell’Interno che ha saldato le fatture ricevute con un ritardo medio di oltre 62 giorni. Seguono il ministero della Difesa con oltre 36, lo Sviluppo Economico con quasi 28 e il ministero delle Infrastrutture con quasi 27.

Gli unici dicasteri che hanno anticipato il saldo fattura rispetto alle scadenze previste dalla legge sono il ministero dell’Istruzione Università e Ricerca (-7,27) e gli Affari Esteri (-20,34)”. In Italia, ricorda ancora l’Ufficio studi della Cgia, “il volume d’affari che ruota attorno alle commesse di tutta la P.a ammonta complessivamente a circa 140 miliardi di euro all’anno e il numero delle imprese fornitrici si aggirano attorno un milione”.

Secondo i dati presentati dall’Eurostat nell’ottobre scorso, spiega l’ufficio studi, negli ultimi 4 anni i debiti commerciali nel nostro Paese di sola parte corrente sono in costante aumento. Secondo le stime redatte a livello europeo, nel 2019 lo stock avrebbe toccato i 47,4 miliardi di euro. “Nonostante le promesse politiche e gli impegni di spesa presi dalle amministrazioni pubbliche – osservano gli artigiani di Mestre – le imprese fornitrici faticano a farsi pagare. Ma la cosa più inammissibile di tutta questa vicenda è che nessuno è in grado di affermare a quanto ammonta ufficialmente il debito commerciale della nostra p.a; ovverosia aggiungere ai debiti di parte corrente anche la quota riferita al conto capitale, sebbene da qualche anno le imprese che lavorano per il pubblico abbiano l’obbligo di emettere la fattura elettronica”.

Tre le principali cause per le quali le pubbliche amministrazioni non rispettano i tempi di pagamento la Cgia cita: la mancanza di liquidità da parte del committente pubblico; i ritardi intenzionali; l’inefficienza di molte amministrazioni a emettere in tempi ragionevolmente brevi i certificati di pagamento; le contestazioni che allungano la liquidazione delle fatture.

A queste cause, secondo l’organizzazione, “ne vanno aggiunte almeno altre due che, tra le altre cose, hanno indotto, nel gennaio del 2020, la Corte di Giustizia europea a condannarci: la richiesta, spesso avanzata dalla P.a nei confronti degli esecutori delle opere, di ritardare l’emissione degli stati di avanzamento dei lavori o l’invio delle fatture; l’istanza rivolta dall’amministrazione pubblica al fornitore di accettare, durante la stipula del contratto, tempi di pagamento superiori ai limiti previsti per legge senza l’applicazione degli interessi di mora in caso di ritardo”.

Secondo la Cgia, “per risolvere questa annosa questione che sta lasciando senza liquidità tantissime imprese, soprattutto di piccola dimensione, c’e’ solo una cosa da fare: nel caso di mancato pagamento, bisogna prevedere per legge la compensazione secca, diretta e universale tra i debiti della p.a verso le imprese e le passivita’ fiscali e contributive in capo a queste ultime. Grazie a questo automatismo risolveremmo un problema che ci trasciniamo da almeno 15 anni”. 


Nel 2020 dieci ministeri hanno pagato in ritardo i debiti con i fornitori 

Digitale: 11 milioni di italiani hanno attivato Spid

AGI – “Nel settembre 2019, le identità digitali attivate da Spid erano 4 milioni e 800 mila. Oggi, dopo un anno di lavoro e grazie ai cittadini, abbiamo superato gli 11 milioni“. Così su Twitter il Dipartimento per la trasformazione digitale. Un tweet rilanciato dalla ministra per l’Innovazione Paola Pisano.

 Il ministero per l’Innovazione inoltre ha lanciato un nuovo modo per ottenere l’identità digitale. Si chiama ‘audio-video’ e consente di attivare il Sistema pubblico di identità digitale direttamente dai siti dei gestori.

Con questa nuova modalità di riconoscimento il cittadino potrà attivare Spid da casa, in tre passaggi: primo dovrà registrarsi sul sito del gestore prescelto; poi realizzare col proprio smartphone o computer di un video in cui mostra il suo documento di riconoscimento italiano, menzionando nello stesso un codice fornito dal gestore; infine effettuare un bonifico simbolico – anche pochi centesimi – da un conto corrente intestato indicando nella causale il codice ricevuto. L’operatore verificherà nel giro di pochi giorni le informazioni ricevute dal cittadino per effettuare i controlli antifone, quindi rilascerà l’identità digitale.

 

Agi

Le aziende italiane hanno già perso 18 miliardi di ricavi

Le aziende italiane sono ormai senza liquidità: il lockdown disposto per contenere i contagi ha portato a una caduta dei ricavi quantificabile in circa 18 miliardi di euro, di cui 11,5 miliardi a carico delle imprese del commercio, del turismo e della ristorazione. Per arginare questo shock è necessario agire sulla leva del credito, ma i meccanismi di agevolazione ai prestiti messi in campo dal Cura Italia non stanno funzionando. A lanciare l’allarme è Confesercenti.

L’emergenza sanitaria da coronavirus, si legge in una nota, è arrivata in una situazione già difficile: solo lo scorso anno, lo stock dei prestiti alle imprese è diminuito di circa 16 miliardi di euro. E il prosciugamento della liquidità causato dal lockdown è destinato a peggiorare: già adesso, su base annua, è plausibile attendersi una contrazione dei consumi delle famiglie di circa 30 miliardi di euro. 

Il problema del credito

“La sospensione delle attività è necessaria per vincere il contagio, e la salute pubblica rimane la priorità”, commenta la presidente di Confesercenti, Patrizia De Luise. “Occorre però sostenere le imprese con un’iniezione rilevante di liquidità, per permettere loro di far fronte all’azzeramento dei ricavi e agli obblighi nei confronti di fornitori e dipendenti. Purtroppo, nonostante il Cura Italia abbia messo a disposizione misure per favorire l’accesso ai prestiti, troppe imprese non riescono ad ottenere risposte positive dagli istituti di credito. E anche le banche disponibili si stanno scontrando con un eccesso di burocrazia che, di fatto, impedisce loro di utilizzare gli strumenti messi a disposizione con il decreto. Imprese ed autonomi sono allo stremo. Bisogna dare fiato alle imprese per aiutare anche chi lavora”, osserva ancora De Luise.

“Servono soluzioni concrete: chiediamo all’Abi un impegno per sbloccare la situazione. Al governo chiediamo invece di garantire l’attuazione delle misure adottate, ma anche di trovare ulteriori soluzioni per facilitare e velocizzare l’accesso alla liquidità delle imprese. A partire dalle garanzie: è urgente sbloccare subito la piena potenzialità del Fondo Centrale, superando i limiti imposti dal regolamento europeo ‘de minimis’ sugli aiuti di Stato. L’Unione europea si è già pronunciata favorevolmente sulla possibilità: l’esecutivo deve solo notificare la decisione. È un intervento necessario, altrimenti molte imprese saranno tagliate fuori dai benefici introdotti con il Cura Italia”, conclude la presidente di Confesercenti.

Agi

Le guerre familiari che hanno segnato l’industria italiana

Il tessuto economico italiano è ricco di piccole e medie imprese a controllo familiare, che spesso hanno sofferto i passaggi generazionali; tante volte, tuttavia, anche nelle principali famiglie del capitalismo italiano, come ricorda lo scontro sul futuro del gruppo Espresso (Gedi) fra l’ingegner Carlo De Benedetti e i figli, questi passaggi hanno portato a vere e proprie rotture. Ecco alcuni esempi.

AGNELLI – È il 24 gennaio 2003 quando Giovanni Agnelli muore nella sua casa sulla collina torinese. Per la sua successione da tempo è stato lui stesso a scegliere il nipote John Elkann, dopo la prematura scomparsa di Giovanni Alberto Agnelli, figlio di Umberto, nel 1997. La scelta di John Elkann, allora ventunenne, viene condivisa dalla famiglia, che lo accompagna fino all’ascesa al vertice di Exor e Fca ed anche ora riconosce gli importanti risultati realizzati sotto la sua guida. I dissidi principali, in quella che è una delle più importanti dinastie italiane, si manifestano dopo la morte dell’avvocato ma riguardano la sua eredità. Una battaglia giudiziaria viene intrapresa dalla figlia di Gianni, Margherita, che fa causa alla madre Marella, a Gianluigi Gabetti, a Franzo Grande Stevens e a Siegfried Maron. Margherita, pur avendo già raggiunto un accordo sull’asse ereditario del padre, chiede un nuovo quadro chiaro e completo del patrimonio che ha lasciato. La prima udienza in tribunale si svolge nel 2008, ma un anno dopo i giudici di Torino dichiareranno inammissibili tutti i 48 capitoli di prova presentati da Margherita. Con la definitiva parola della Corte di Cassazione, del 2015, la battaglia per l’eredità dell’Avvocato è definitivamente chiusa e i rapporti della figlia dell’Avvocato, inizialmente freddi con il resto della famiglia, a poco a poco si normalizzano.

CAPROTTI – Bernardo Caprotti contro il figlio Giuseppe, e poi contro quest’ultimo e la sorella Violetta, entrambi frutto del primo matrimonio del fondatore dell’Esselunga. Uno scontro decennale che ha visto come teatro le aule del tribunale, e che si è protratto anche dopo la morte nel settembre del 2016 di Bernardo tra i figli di primo letto e Marina Sylvia, la figlia nata dall’unione con la seconda moglie, Giuliana. Il motivo e’ sempre stato lo stesso: la visione sul futuro dell’Esselunga e il controllo di un impero da oltre 7 miliardi di euro e piu’ di 22 mila dipendenti, il primo gruppo italiano della grande distribuzione, un marchio-icona per la spesa di milioni di consumatori soprattutto del Nord Italia. La dynasty della famiglia Caprotti è al tempo stesso epopea e sofferenza che incarna uno dei caratteri distintivi dell’imprenditoria a carattere familiare tipica dell’Italia, con al vertice quello che spesso è un autentico ‘genio’ creativo e a valle le generazioni successive, schiacciate dal peso di chi non si rassegna a tramandare agli eredi ciò che eleva a rango di figlio, oltre che da una sensazione di inadeguatezza che affonda la spiegazione nei miti della Grecia classica.

La prima pagina della soap opera caprottiana risale al 1996 quando, con lo scopo di preparare la successione, Bernardo cede le proprie quote a Giuseppe, Violetta e Marina Sylvia, conservando l’usufrutto sulla metà delle azioni e il diritto di voto in assemblea, in modo da continuare a comandare. Dopo 15 anni il colpo di scena: Bernardo ci ripensa e, senza neanche avvertirli, si riprende le quote societarie assegnate a Giuseppe e Violetta. Il padre accusa Giuseppe di essere circondato da “un ciarpame manageriale” infedele e inadeguato a gestire l’azienda, e soprattutto di voler vendere a colossi internazionali la sua creatura. Giuseppe si difende, respinge al mittente le accuse, sospetta che alla base di tutto ci siano le trame per “dare tutto” alla seconda moglie e alla figlia Marina Sylvia. Al dramma dell’impero perduto, si aggiunge il trauma del figlio ‘rifiutato’: “La sua opera di demolizione psicologica mi ha paralizzato per anni”, afferma in una rara intervista di repertorio Giuseppe che non può dimenticare come fu messo alla porta, in modo che a distanza di anni ancora l’offende: “Se non esci da qui, chiamo le guardie”. Come un ladro qualunque, non come un figlio destinato a subentrare al padre.

Sta di fatto che parte una causa civile lunga anni e anni, su cui si abbatte, come un condono tombale, la morte stessa di Bernardo. Con il corpo ancora caldo del fondatore dell’Esselunga, inizia una triste e tanto tesa processione allo studio del notaio Marchetti, custode delle più delicate vicissitudini familiari e imprenditoriali della finanza milanese che conta. Puntuali arrivano i ricorsi, le comunicazioni affidate ai principali studi legali del capoluogo lombardo, le notizie fatte filtrare attraverso i mezzi di informazioni, perché inevitabilmente il testamento non accontenta i figli di primo letto: il 66,7% della holding che controlla il gruppo, infatti, va all’asse ereditario Giuliana-Marina. Nei mesi successivi un accordo tra le parti si concluderà con l’ulteriore rafforzamento nella società della moglie e di Marina Sylvia e la liquidazione di Giuseppe e Violetta delle loro restanti quote, sancendo la loro definitiva uscita di scena e la loro definitiva, ma forse non più amara, sconfitta.

MARZOTTO – All’apice della sua storia fu un gruppo da oltre 1 miliardo e mezzo di fatturato, con un cognome, Marzotto, che voleva dire moda, jet set e molto altro. L’impero tessile di Valdagno (Vicenza) è un chiaro esempio di cosa si rischia con il passare delle generazioni, quando famiglie già numerose si allargano ed emergono visioni e sensibilità diverse. Oggi il gruppo, che controllava marchi come Valentino e Hugo Boss, è diviso e i vari componenti della famiglia si occupano di attività nei settori più disparati. A Valdagno c’è ancora l’azienda dei filati, guidato dal ramo che fa capo ad Andrea Donà delle Rose e ale figlie di Giannino, di Umberto e di Marta Marzotto; a Fossalta di Portogruaro (Venezia) ci sono Paolo Marzotto e i suoi discendenti, con la loro Zignago Vetro e le cantine Santa Margherita. Matteo Marzotto, figlio di Marta e uno degli esponenti più in vista della famiglia, ha rilanciato la maison Vionnet per poi rivenderla ed è entrato in Dondup, oltre a essere sempre presente nella holding che controlla il gruppo di Valdagno.

BENETTON – Anche un’altra delle grandi dinastie venete, quella dei Benetton, ha vissuto passaggi turbolenti e, prima delle discussioni dell’ultimo anno, momenti tesi ci sono stati quando Alessandro Benetton, figlio del patriarca Luciano, decise di rilanciare il gruppo di moda che porta il nome della famiglia e che è stato alla base delle sue fortune. La scelta, presa nel 2012, fu accompagnata dalla consapevolezza, espressa chiaramente, di “aver fatto per la prima volta qualcosa che non gli conveniva”, e portò a scontri con lo zio Gilberto e Gianni Mion, lo storico manager di famiglia ora tornato alla guida della holding edizione. La rottura arrivo’ dopo poco: formalmente Alessandro è stato a capo della United Colors of Benetton per appena 2 anni.

TABACCHI – Minore fortuna hanno avuto i Tabacchi: il loro impero nel mondo degli occhiali si è sfaldato, con il ramo di Vittorio che è uscito dalla Safilo, ceduta al fondo olandese Hal, e quello di Dino che ha ceduto la catena Salmoiraghi Viganò a Luxottica. All’origine della perdita dell’azienda la scelta da parte di Vittorio di liquidare oltre a Dino (com’era noto a tutti, anche se si chiamava Ermenegildo) e all’altro fratello Giuliano le loro quote in Safilo, dopo alcune divergenze sul futuro e soprattutto sul ruolo dei figli. Al tempo stesso il debito fatto per portare avanti la liquidazione dei due rami appesantirà per lunghi anni la struttura finanziaria del gruppo, fino alla necessità di una ricapitalizzazione che manderà i Tabacchi dal 40 al 10%; in mezzo un paio di cambi di management, compreso un passaggio al timone del gruppo da parte di Massimiliano, figlio di Vittorio.

COIN – Simile sorte è toccata ai Coin, eredi di un impero della grande distribuzione: anche qui c’è un Vittorio, che però si scontra con Piergiorgio. Ci sono gli anni della crescita impetuosa, alla fine del secolo scorso: prima viene comprato il ramo abbigliamento della Standa, poi arriva la quotazione, infine l’acquisizione di Kaufhalle in Germania. Una mossa, quest’ultima, che non dà i frutti sperati e che acuisce i dissapori all’interno dei due rami della famiglia veneziana, con Piergiorgio che viene estromesso dall’azienda, controllata da una holding in cui i due gruppi sono rappresentati pariteticamente. Nel 2005, dopo alcuni tentativi di rimetterlo in carreggiata compresa la cessione di una minoranza della controllata Ovs, la quota di controllo del gruppo, che aveva toccato 1,2 miliardi di fatturato ma era finito in rosso, viene rilevata per 181 milioni dal fondo Pai Partners.

DEL VECCHIO – Anche il patron del gigante dell’occhialeria, Leonardo Del Vecchio, ha avuto i suoi motivi di preoccupazione, anche se in questo caso la partita ha riguardato più i rapporti con le mogli che con i figli direttamente. L’imprenditore, noto per aver detto che “i figli devono restare lontani dall’azienda, dato che non si possono licenziare”, ha dovuto ridisegnare l’assetto del gruppo proprio in virtù della necessità di bilanciare le pretese delle diverse parti e di garantire un futuro unitario all’azienda. Il 25% della holding Delfin è stato destinato all’ultima moglie Nicoletta Zampillo, il 75% invece è diviso fra i 6 figli. Tre di questi – Claudio, Marisa e Paola, sono frutto delle prime nozze, con Luciana Nervo; Leonardo Maria è figlio della Zampillo, con cui il magnate si è poi risposato; ci sono poi Luca e Clemente, nati dalla relazione con Sabina Grossi.

MERLONI – Ma non sono solo gli imprenditori del Nord ad aver avuto difficoltà nel passaggio generazionale: anche in casa Merloni, la famiglia marchigiana a cui faceva capo il gruppo degli elettrodomestici Indesit, i contrasti, a lungo sopiti, sono esplosi con la malattia di Vittorio, figlio di Aristide Merloni. Con il passaggio generazionale, avvenuto nel 2010, ci furono diversi scontri fra i quattro figli e nel 2014 l’azienda è stata venduta agli americani di Whirpool. 

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Quante persone hanno già chiesto il reddito di cittadinanza?

Nel primo mese di avvio sono arrivate 853.521 domande di reddito di cittadinanza a Caf, Uffici postali e Online. Lo rende noto il ministero del Lavoro: 853.521 nuclei familiari il 68% dei potenziali aventi diritto alla misura ha presentato la domanda nel primo mese di avvio del reddito di cittadinanza, oltre 2,8 milioni di persone coinvolte. 600.000 le domande arrivate ai Centri di Assistenza Fiscale e 253.521 a Poste Spa e online.

“La capillare rete organizzativa messa in campo da Ministero del Lavoro, Inps, Caf e Poste Spa ha gestito l’afflusso di quasi un milione di persone senza creare disagi e garantendo ai cittadini assistenza per presentare la domanda”, si legge in una nota.

Questo il dettaglio delle domande per singola regione per uffici postali e online: Lombardia 36.538, Campania 32.513, Sicilia 26.692, Piemonte 24.115, Lazio 23.832, Sardegna 16.967, Puglia 16.657, Emilia Romagna 14.769, Toscana, 13.489, Veneto 10.105, Calabria 9.753, Liguria 7.826, Abruzzo 4.734, Friuli Venezia Giulia 4.111, Marche 3.799, Umbria 2.774, Basilicata 2.310, Molise 1.154, Trentino Alto Adige 881, Valle D’Aosta 500.

“È un dato importante che rispecchia appieno quanto fosse necessaria e attesa questa misura, abbiamo ascoltato il paese e abbiamo risposto ad una necessità reale dei cittadini. Per 853.521 famiglie si avvia un percorso di dignità sociale e di costruzione di un percorso di politica attiva per il lavoro”, commenta il Ministro del Lavoro e dello Sviluppo Economico, Luigi Di Maio, “ricordo che questi sono solo i dati del primo mese è che quindi la percentuale di adesioni sicuramente crescerà ancora”.

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Cosa hanno chiesto i sindacati in piazza al governo giallo-verde 

Cgil, Cisl e Uil hanno riempito piazza san Giovanni a Roma e ora chiedono al governo di ascoltare le loro richieste. Dal palco nessuno ha fornito cifre sui partecipanti ma i tre segretari generali hanno invitato l’esecutivo a contare i manifestanti e a rendersi conto che rappresentano 12 milioni di persone con idee e proposte per il Paese. “A chi governa questo Paese e va a incontrare chi protesta in altri Paesi diciamo che se hanno un briciolo di intelligenza ascoltino questa piazza e aprano il confronto: noi siamo il cambiamento”, ha dichiarato il leader della Cgil Maurizio Landini

“Qui oggi c’è l’Italia reale, lavoratori in carne ed ossa, persone che hanno fatto crescere e mandano avanti concretamente questo paese passo dopo passo. Niente a che vedere con gli slogan lanciati con i tweet e le dirette facebook. Ai professionisti della realtà virtuale diciamo: uscite dalla finzione, guardate queste bandiere”, ha detto la segretaria generale della Cisl Annamaria Furlan.

 “Mandate una foto” agli esponenti di governo – ha detto il leader della Uil, Carmelo Barbagallo – e vediamo se riusciranno a contarci. Abbiamo chiesto un confronto, stiamo aspettando che ci chiamino. Non possono essere autoreferenziali, questa piazza la devono ascoltare”. E se l’esecutivo giallo-verde non darà risposte, i tre leader assicurano che la mobilitazione proseguirà: “Dopo questa giornata, se il governo ha un minimo di saggezza, dovrebbe aprire un tavolo di trattativa, ma se non dovesse succedere sappia che noi ci non fermeremo e andremo avanti finché non porteremo a casa quello che abbiamo chiesto”, ha affermato Landini. 

“Siamo determinati e diventeremo determinanti”, ha sottolineato Barbagallo. “​Il governo si fermi e cambi la sua linea economica”, ha avvertito Furlan. I sindacati chiedono investimenti per rilanciare l’economia, politiche per il Mezzogiorno, una riforma fiscale che appiani le disuguaglianze, una riforma vera delle pensioni, la garanzia degli ammortizzatori sociali, più risorse per sanità, welfare, istruzione, scuola. In una parola, dare “futuro al lavoro”, come recita lo slogan scelto per la giornata. 

Il vicepremier Luigi Di Maio ha risposto alle critiche definendo “un po’ singolare” che si scenda in piazza contro quota 100 quando non lo si era fatto contro la legge Fornero; osservazione già contestata da Cgil, Cisl e Uil, che hanno indetto scioperi e – ha detto oggi Barbagallo – fatto picchetti sotto Montecitorio. Quanto alla realtà virtuale, per Di Maio era “quella dei governi precedenti che hanno massacrato tutto quello che gli italiani avevano sull’altare dell’austerity: risparmi, lavoro, imprese”.

A nome del M5s Maria Pallini, capogruppo alla Commissione Lavoro alla Camera, ha affermato che la manifestazione non era “contro il governo, ma contro i cittadini italiani che lo scorso 4 marzo hanno votato per il cambiamento. Un cambiamento che deve necessariamente coinvolgere anche i sindacati che ormai difendono un sistema marcio di privilegi”. 

A sostegno di Cgil, Cisl e Uil hanno partecipato al corteo numerosi esponenti del Pd e di Leu: “In piazza contro un governo che sta devastando il Paese”, ha spiegato il candidato alla segreteria del Partito democratico, Maurizio Martina. “Giustamente l’Italia si sta mobilitando”, ha osservato l’altro candidato Nicola Zingaretti

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Nel 2017 le Rinnovabili hanno coperto un quinto dei consumi di energia

Nel 2017 in Italia le fonti rinnovabili hanno coperto quasi un quinto di tutti i consumi energetici. Ciò significa che ogni 100 kWh consumati complessivamente nei settori elettrico, termico e dei trasporti, quasi 18 sono verdi. Per fare un paragone, basti pensare che i soli consumi da fonti rinnovabili dell’Italia (circa 22 Mtep nel 2017) corrispondono ai consumi complessivi della Svizzera.

È quanto emerge dalla presentazione delle attività del 2017 del Gse. Per raggiungere questi obiettivi, che pongono l’Italia tra i primi Paesi in Europa per fonti rinnovabili, il Gestore dei Servizi Energetici ha erogato nel solo settore elettrico 14,2 miliardi di euro di incentivi, recuperandone 1,7 miliardi dalla vendita di energia ritirata, per un netto di incentivi in bolletta di 12,5 miliardi di euro (nel 2016 erano stati 14,4 miliardi).

Per quanto riguarda le ricadute occupazionali, si stima che gli occupati permanenti nella fase di esercizio e manutenzione degli impianti siano circa 38.000 nel settore delle rinnovabili elettriche e circa 34.000 nel settore delle rinnovabili termiche. Per quanto riguarda, invece, i lavoratori temporanei, quelli che sono stati impiegati nel corso del 2017 per l’installazione di nuovi impianti, si stima che siano 16.000 nel settore elettrico e 31.000 per il settore termico (installazione di pompe di calore, stufe e termocamini e solare termico).

“Gli obiettivi di sviluppo sostenibile fissati dalle Nazioni Unite sono sentiti oggi dal nostro Paese come non era mai successo in passato e l’Italia deve essere orgogliosa dei risultati raggiunti”, ha detto il presidente del Gse, Francesco Sperandini, ricordando non solo “che il nostro Paese ha superato gli obiettivi europei al 2020 con sei anni di anticipo, ma anche che a questo percorso virtuoso si è aggiunto un altro elemento importante, che è l’approvazione della Strategia Energetica Nazionale. Nella costruzione di questo simbolico ponte verso il futuro – ha concluso Sperandini – il ruolo del Gse non può che essere quello di promotore di tale aspirazione intergenerazionale al cambiamento”.

Nel settore dell’efficienza energetica nel 2017 il Gse, a fronte di 5.695 richieste, ha riconosciuto 5,8 milioni di Certificati Bianchi, dei quali il 62% in ambito industriale e il 31% in ambito civile, consentendo così un risparmio di quasi 5 milioni di tonnellate equivalenti di petrolio. Per quanto riguarda la riqualificazione energetica degli edifici pubblici e privati, con il Conto termico il Gse ha ricevuto 43.227 richieste, che corrispondono a circa 180 milioni di euro di incentivi, dei quali 62 milioni di euro relativi a interventi di efficienza energetica della Pubblica Amministrazione. Risultati che riflettono gli sforzi compiuti dal Gse che nell’ultimo anno ha messo a disposizione di oltre 800 Comuni la propria esperienza, per indirizzare gli investimenti degli enti locali verso una crescita ecocompatibile.

Sul fronte della lotta ai cambiamenti climatici inoltre il Gse, in qualità di responsabile del collocamento delle quote di CO2 italiane, ha messo all’asta sulla piattaforma comune europea circa 95 milioni di quote di emissione, con un ricavo totale destinato al bilancio dello Stato di 550 milioni di euro. Infine, anche nel 2017, il Gse ha dedicato il massimo impegno nell’attività di controllo degli impianti incentivati. Lo scorso anno sono stati condotti 5.260 accertamenti (il 37% con sopralluoghi e il 63% documentali), con un incremento del 19% rispetto al 2016.

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