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Il gigante del legno

* Davide Tabarelli

Con il cambiamento climatico diventato emergenza globale, la politica internazionale si fa carico di impegni di riduzione delle emissioni di CO2 con trattati come quello di Kyoto del 1997 o quello di Parigi del 2015. A loro volta, i governi dei singoli Stati annunciano obiettivi altrettanto ambiziosi, seguiti spesso dalle amministrazioni delle singole città. Gli obiettivi sono a lungo termine, oltre i venti o trent’anni, molto più lontano della scadenza degli incarichi che i politici hanno ricevuto con le elezioni.

Sono passati 22 anni dall’accordo di Kyoto, oggi un po’ dimenticato, anche perché sostituito da quello di Parigi, ma l’obiettivo di allora è stato completamente mancato, in quanto le emissioni, invece di diminuire secondo le intenzioni, sono aumentate di quasi il 50 percento. Nonostante siano passati solo 4 anni dall’accordo di Parigi, il trend è sempre di crescita ed evidenzia tutte le difficoltà nel fare conciliare le grandi parole della politica con azioni più efficaci. Una maggiore consapevolezza di tale distacco fa sì che le politiche si facciano più evolute, con gli obiettivi che da semplice riduzione si spostano sui bilanciamenti, sulla neutralità. In sostanza, una volta che le emissioni di CO2, se inevitabili, vengono compensate da assorbimenti, allora l’obiettivo è comunque raggiunto. 

Le tecniche per assorbire le emissioni, un work​ in progress

Le tecniche per assorbire dall’atmosfera la CO2 non sono semplici. Da decenni si prova con la cattura e lo stoccaggio sotterraneo, attraverso filtri dell’aria o dei fumi dei camini delle centrali elettriche, con successiva iniezione nel sottosuolo, in una sorta di circolo che rimette il carbonio là dove era stato prelevato con l’estrazione delle fonti fossili. Il processo, però, è tanto facile da descrivere quanto difficile da attuare.

La CO2 è troppo dispersa in atmosfera e conta, come dicono le statistiche, per 420 parti per milione, vale a dire lo 0,042 percento dell’aria. Catturare una sostanza con tale bassa densità è molto costoso. Anche se si riuscisse a catturare con strumenti più efficaci grazie alle nuove tecnologie, rimane il fatto che, in alte concentrazioni, la CO2 è pericolosa da trasportare e diventa anche un prodotto tossico.

Iniettarla nel sottosuolo equivale a stoccare una sostanza pericolosa, in pratica un rifiuto speciale, che richiederebbe una sorta di presidio permanente del giacimento, con vincoli di controllo che dovrebbero durare per decenni. Constatata la difficoltà della cattura e dello stoccaggio, la ricerca ha intrapreso la via del riuso della CO2, attraverso la sperimentazione, sulle superfici degli edifici, di cementi in grado di assorbirla dall’atmosfera. Altrettanto interessante è la coltivazione di alghe, dove la fotosintesi, il processo chimico alla base di tutta la vita sulla terra, usa la CO2 per produrre clorofilla. La fotosintesi sintetica, realizzata in laboratorio, potrebbe presto guidare il processo verso la crescita di piante particolari in grado di assorbire CO2 in grandi quantità e ovunque, contribuendo allo stesso tempo a risolvere il problema della scarsità di cibo per la crescente popolazione mondiale.

Il contributo delle foreste, i numeri

In attesa che la ricerca dia risultati più efficaci, si riscoprono le potenzialità offerte dall’espansione delle foreste dove l’uomo ha vissuto per millenni, raccogliendone i frutti, usando il legno come materiale per costruire case e utensili e per fare il fuoco, la sua prima e più grande innovazione tecnologica. Puntare sugli assorbimenti delle piante obbliga però a fare riflessioni sui bilanci di carbonio e sui suoi cicli in atmosfera, per comprendere meglio la complessità della questione. Le emissioni da combustibili fossili antropiche, in forte crescita, sono dell’ordine dei 32 miliardi di tonnellate all’anno, mentre quello che assorbono le piante con la fotosintesi è stimato intorno ai 225 miliardi, compensato da emissioni per decadimento delle stesse piante per 220 miliardi, con un effetto netto positivo di cattura di 5 miliardi, circa un sesto delle emissioni umane da combustibili.

È inevitabile che ogni sforzo sull’aumento della superficie risulta positivo in termini di assorbimenti. La Food and Agriculture Organization (FAO) dell’ONU stima che la deforestazione globale stia rallentando. Mentre prosegue nelle aree dove maggiore è la popolazione povera, che vive nelle foreste, in particolare nell’Africa Subsahariana o nell’Amazzonia, si è invertita la tendenza in alcune aree ricche, in particolare in Europa.  Qui, da un po’ di tempo si parla di economia circolare, volta a ridurre l’impatto sullo sfruttamento delle risorse. Quello della cura delle foreste è da sempre modello di economia circolare che tiene conto della rigenerazione e dell’uso complessivo della materia, con effetti positivi correlati quali il mantenimento della biodiversità, la protezione del suolo, la purificazione dell’acqua, il sostegno a comunità locali in aree periferiche rurali, in territori difficili, deboli economicamente.

Le recenti visioni dell’Unione europea, contenute nel pacchetto clima ed energia verso la totale decarbonizzazione nel 2050, fanno proprio riferimento alle comunità dell’energia, dove i consumatori si producono la loro energia anche con biomasse, ovvero con legno, per impieghi tradizionali di riscaldamento o per la produzione di biogas da cui estrarre biometano. Sarà un ritorno a comportamenti di millenaria tradizione delle comunità che vivono presso i boschi, dove il legno diventa la principale fonte di energia e anche materiale da costruzione. Al di là delle suggestioni, la coltivazione del legno attraverso la riforestazione si adatta bene a questo modello, lo rafforza e lo potenzia.

I casi di Italia e Finlandia, modelli a confronto

In Europa, dopo secoli di disboscamento per far spazio all’agricoltura e all’allevamento, le foreste si stanno ampliando velocemente, notizia positiva nella speranza che anche nel resto del mondo possa accadere lo stesso.

Tale miglioramento non libera l’Europa dal paradosso che la vede oggi fortemente critica verso la deforestazione in paesi dove si è obbligati a ricorrervi per espandere l’agricoltura. Le regole dello sviluppo sono molto chiare e insegnano che il passaggio da un’agricoltura rurale di sostentamento ad una intensiva è il primo passo dello sviluppo. Ciò serve anche a rallentare il processo, comunque inevitabile, del passaggio di miliardi di persone dalle campagne alle città. Peraltro, in Europa, il ritorno dei boschi non è così virtuoso come sembra, ma è originato dall’abbandono dell’agricoltura perché non più profittevole, a volte perché si importano derrate da quei paesi che stanno uscendo lentamente dalla povertà assoluta.

Le statistiche evidenziano che dal 1990 al 2015 le aree boschive europee sono aumentate di 8 milioni di ettari, un’area pari all’intera Scozia. Chi più ha contribuito è l’Italia, paese relativamente piccolo, che in 25 anni ha visto aumentare le sue foreste di 2 milioni di ettari ad oltre 11 milioni, più di un terzo della sua intera superficie di quasi 30 milioni di ettari.  In media, le foreste italiane hanno assorbito circa 30 milioni di tonnellate di CO2 all’anno, il 7 percento delle emissioni totali.

Come in tutta Europa, anche in Italia il ritorno dei boschi è l’effetto dell’abbandono dell’agricoltura, la conseguenza di un processo di impoverimento, che porta ad un incremento disordinato con l’emergere di altri problemi. La crisi dell’agricoltura è anche la crisi della selvicoltura e dell’economia montana, che soffre di spopolamento e di disoccupazione. L’incuria facilita gli incendi, in quanto i rami caduti non vengono più raccolti, nel sottobosco cresce la sterpaglia, più soggetta ad incendiarsi, mentre improvvise piogge intense vanno a intasare i corsi d’acqua e peggiorano il dissesto idrogeologico. L’abbondanza di legno in altri paesi europei, in particolare in quelli dell’est, ha originato il paradosso che la produzione in Italia cala a favore delle importazioni, mentre i boschi vengono lasciati sempre di più in stato di abbandono.

Chi, invece, in Europa ha conosciuto un processo virtuoso nella gestione delle proprie foreste è la Finlandia, paese che vive da sempre in simbiosi con il legno prodotto e coltivato nei suoi boschi. La Finlandia è il terzo paese per estensione delle foreste in Europa, dopo Svezia e Spagna, e, nonostante la costante crescita della produzione di legno, in gran parte esportato, la superficie dei suoi boschi aumenta. È il paese di riferimento per le politiche forestali per tutto il mondo, sia per gli aspetti più tradizionali, che per quelli collegati all’innovazione tecnologica.

L’economia del legno

Lo sfruttamento del bosco da sempre è condotto in forma di cooperative a beneficio delle comunità rurali che vivono in paesi che, senza l’economia del legno, non potrebbero sopravvivere. Äänekoski è una piccola cittadina di 20 mila abitanti a 300 chilometri a nord di Helsinki ed è la sede di uno dei più grandi stabilimenti al mondo per la lavorazione di alberi, per lo più conifere, tagliati nelle vicine foreste. La società Metsä ha la proprietà dello stabilimento e ha appena completato una ristrutturazione con  1,3 miliardi di euro di investimento. La Metsä a sua volta è  posseduta da una cooperativa di 103 mila soci che sono anche i piccoli proprietari dei terreni nelle foreste dove si taglia il legno.

Nel 2018 ha fatturato, con stabilimenti in 15 paesi, 2,5 miliardi di euro. Il nuovo stabilimento è quello più avanzato, dove fanno profitti e aiutano la foresta a crescere. Per ogni albero che viene tagliato, ne vengono piantati 4, poi, con il trascorrere degli anni, quelli meno rigogliosi vengono tagliati e solo i più forti vengono lasciati crescere, fino a quando hanno fra i 60 e i 70 anni. Quelli che vengono tagliati finiscono in fabbrica per fare truciolato e polpa di cellulosa per la carta. Nella fabbrica nulla viene sprecato. La parte più ricca sono le assi da destinare agli edifici e all’industria del mobile, ma poi ci sono le potature e la segatura che finiscono nei compensati.

Il calore e l’elettricità che usa lo stabilimento vengono prodotti dalla combustione di altri scarti. La fabbrica ha un reparto ricerca che già ha messo in produzione nuovi fogli, fatti con scarti, particolarmente adatti per stampe di alta qualità. Gli sviluppi più interessanti sono sul versante dei nuovi impieghi, a cominciare dalla sostituzione del cemento e dell’acciaio negli edifici di grande dimensione. In questi casi, non solo il legno stocca il carbonio assorbito nella crescita, ma permette anche di sostituire due dei materiali che più emettono CO2 nei processi di loro produzione.

L’ambizione è addirittura quella di sostituire la plastica negli imballaggi, con materiale da legno sviluppato in modo da essere completamente asettico, come richiesto dalla normativa sulla conservazione degli alimenti. Questo permetterebbe ai contenitori di liberarsi della plastica, oggi combinata con il legno, e di riciclarle interamente senza doverle bruciare. Ancora più innovativa è la ricerca sullo sviluppo di nuove fibre tessili, capaci di competere con quelle derivate dal petrolio e, soprattutto, con il cotone, che necessita di vaste aree agricole e di enormi volumi d’acqua.

Alla fabbrica non mancano le critiche, che arrivano dalla parte della comunità locale più attenta all’ambiente e che vorrebbe un minor uso di sostanze chimiche e di gasolio diesel, mentre altri, più integralisti, vorrebbero che le foreste fossero lasciate intatte, completamente vergini. Si tratta di critiche che alimentano la discussione e impongono la diretta partecipazione delle famiglie socie della cooperativa. Gli investimenti che ne conseguono consolidano un’avanguardia mondiale nell’economia del legno che si estende, in maniera spontanea all’ambiente circostante, in un circolo virtuoso che dura da millenni.

 

* Davide Tabarelli è presidente e cofondatore di Nomisma Energia, società indipendente di ricerca sull’energia e l’ambiente con sede a Bologna. Ha sempre lavorato come consulente per il settore energetico in Italia e all’estero, occupandosi di tutti i principali aspetti di questo mercato. Pubblica sulle principali riviste dedicate ai temi energetici.

** Questo articolo è apparso sul numero di dicembre 2019 della rivista World Energy

Agi

Quante tasse paga una piccola impresa rispetto a un gigante del web

Se le nostre piccole e medie imprese (Pmi) hanno un carico fiscale complessivo che si attesta al 59,1 per cento dei profitti le multinazionali del web presenti in Italia, o meglio le controllate di questi giganti economici ubicate nel nostro Paese, registrano un tax rate del 33,1 per cento. Lo afferma la Cgia di Mestre, spiegando che entrambi i dati si riferiscono al 2018.

Tra i Paesi dell’Area dell’euro, infatti, i dati della Banca Mondiale ci dicono che solo la Francia (con il 60,7 per cento) registra una pressione fiscale sui profitti delle imprese superiore alla nostra, contro una media dei 19 Paesi che utilizzano la moneta unica pari al 42,8 per cento. Un dato, quest’ultimo, di oltre 16 punti percentuali inferiore al dato medio presente in Italia.

Tornando alla comparazione iniziale, quali sono le ragioni per cui le controllate italiane delle principali multinazionali del web possono beneficiare di un tax rate del 33,1 per cento ? Per il semplice motivo che la metà dell’utile ante imposte è tassato in Paesi a fiscalità agevolata che procura un risparmio fiscale che, nel periodo 2014-2018, ha sfiorato complessivamente i 50 miliardi di euro. Poi oltre ad avere la pressione fiscale sulle imprese tra le più elevate d’Europa, l’Italia è il Paese, assieme al Portogallo, dove pagare le tasse è più difficile.

Sempre dai dati presentati recentemente dalla Banca Mondiale (Doing Business 2020), da noi sono necessari 30 giorni all’anno (pari a 238 ore) per raccogliere tutte le informazioni necessarie per calcolare le imposte dovute; per completare tutte le dichiarazioni dei redditi e per presentarle all’Amministrazione finanziaria; per effettuare il pagamento on line o presso le autorità preposte.

Il coordinatore dell’Uffici studi Paolo Zabeo sottolinea che “è comunque verosimile ritenere che sulle piccole imprese il carico fiscale sia quasi doppio rispetto a quello che grava sui giganti tecnologici presenti in Italia. Un’ingiustizia che grida vendetta, non tanto perché su questi ultimi grava un peso fiscale relativamente contenuto, ma per il fatto che sulle nostre Pmi il peso delle tasse e dei contributi è tra i più elevati d’Europa”.

Agi

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Perché la quotazione del gigante dell’energia Aramco è così importante

L’Arabia Saudita ultra-conservatrice sta subendo una grande trasformazione sotto il principe ereditario Mohammed bin Salman, che intende porre fine alla dipendenza del regno dai proventi del petrolio. Mentre il paese si apre sul fronte economico, ci sono state anche alcune riforme sociali, tra cui una maggiore libertà per le donne, ma i progressi sono al momento molto lenti e piuttosto deboli. L’iniziativa economica più ambiziosa del principe ereditario è stata finora quella di spingere il gigante dell’energia statale Aramco verso un debutto in borsa. Dopo anni di ritardi, la luce verde è stata annunciata oggi.

PERCHE’ L’IPO E’ COSI’ IMPORTANTE? La vendita di una parte di Aramco costituisce la base del piano di trasformazione del principe Mohammed per l’Arabia Saudita. La dimensione della quotazione rimane nell’aria, ma in origine si sperava che potesse generare fino a 100 miliardi di dollari. Questa cifra, basata su una valutazione di 2.000 miliardi di dollari della società ormai considerata irrealistica, potrebbe non essere raggiunta, ma anche così è probabile che sia la più grande offerta di mercato azionario di tutti i tempi.

Queste risorse sono necessarie per finanziare megaprogetti come NEOM, una mega città futuristica da 500 miliardi di dollari pianificata sulla costa settentrionale del Mar Rosso, che secondo i funzionari avranno taxi volanti e robot parlanti. Visto che al momento non è prevista una quotazione sui mercati esteri, il principe ereditario si affiderà principalmente ai miliardari sauditi per sostenere l’offerta.

SARA’ UN SUCCESSO? Come sempre in questi casi, lo scetticismo abbonda e i livelli di attenzione sulla borsa saudita sarà ai massimi nelle prossime settimane. Secondo alcuni analisti interpellati da France Press, se le azioni dovessero diminuire drasticamente dopo l’inizio delle negoziazioni, sarebbe un colpo molto visibile alla credibilità delle riforme economiche così strettamente associate a Mohammed bin Salman. Non solo, ma gli investitori internazionali presteranno molta attenzione a come Aramco si comporterà sul mercato interno, soprattutto in assenza di qualsiasi dettaglio sull’ipotesi di un suo debutto internazionale.

PERCHE’ ARAMCO E’ COSI’ IMPORTANTE? Aramco pompa circa il 10% del petrolio del mondo dai suoi pozzi sotto le sabbie del deserto, soprattutto a est del regno, ma anche nel suggestivo “Quartiere Vuoto” a sud. Ci sono anche alcuni importanti giacimenti petroliferi offshore. Il colosso dell’energia ha generato l’anno scorso i più importanti risultati rispetto a qualsiasi alta società, con un utile netto di 111 miliardi di dollari, per intenderci più di Apple. Peraltro, il destino di Aramco è fondamentale per l’approvvigionamento energetico mondiale.

MBS COME STA RICOSTRUENDO L’ECONOMIA? Anche prima di diventare principe ereditario nel giugno 2017, il figlio di Re Salman – spesso conosciuto con le sue iniziali MBS – aveva annunciato un piano per diversificare l’economia e allontanarla dalla sua lunga dipendenza dal petrolio. Da allora, il regno è stato testimone di una serie di iniziative mai viste prima, per lo più legate al divertimento e al turismo, tra cui vasti progetti di destinazioni di lusso. Le donne sono state più coinvolte rispetto al passato nel mondo del lavoro, i concerti sono stati aperti ai sauditi, gli eventi sportivi internazionali hanno avuto il via libera e sono stati rilasciati i primi visti turistici.

Nonostante i bassi prezzi del petrolio, il regno ha anche aumentato i prezzi del carburante e dell’elettricità, ha imposto un’imposta sul valore aggiunto (IVA) del 5% e ha imposto dazi su 11 milioni di beni di esportazione nel tentativo di generare entrate aggiuntive.

ORGOGLIO E PAURA PER LA VENDITA DEI GIOIELLI DI FAMIGLIA. L’IPO di Aramco ha generato un sentimento di orgoglio tra i sauditi, e sono in molti ad essere preoccupati di condividere il “gioiello di famiglia” con gli stranieri. Soprattutto i dipendenti vivono completamente immersi nella realtà dell’azienda, in un paese dove le città offrono finora poche attrazioni, e l’Ipo ha esposto Aramco alla visibilità mondiale. Temono quindi un cambiamento sostanziale dell’azienda, e quindi della loro vita. 

Agi

Le tre ragioni per cui Airbus riduce la produzione del suo gigante dei cieli

Il sogno, e non solo commerciale, era che ne volassero nei cieli del mondo 1.300 per il 2030. Sogno infranto invece, perché con l'annuncio di ulteriori tagli alla produzione, gli Airbus A380 si vedranno sempre meno. Il gigante dell'aviazione commerciale non ha resistito a mutamenti così rapidi che solo dieci anni fa, quando il primo modello si alzò da terra coi colori della Singapore Airlines diretto a Sydney, risultavano impensabili.

Solo otto nuovi aerei nel 2019

Sono 317 gli ordini che Airbus ha finora ricevuto per l'A380 e ammontano a 213 quelli finalizzati, ma con una veloce regressione che i numeri fissano meglio: 27 modelli in produzione nel 2015, che diventeranno 12 nel 2018 e appena otto nel 2019.

Un sogno che sfuma. "Dream" è il sostantivo più impiegato nei titoli della stampa estera per spiegare i destini dell'Airbus A380, che potrebbe riecheggiare la fine del mitico – come tutto ciò che se n'è andato – Concorde, l'aereo supersonico la cui epopea s'iniziò nel 1976 e terminò nel 2003. Per il Concorde era il sogno della velocità, la fretta di collegare New York e il Vecchio Continente per gente che non voleva o poteva perdere qualche ora in più. Per l'A380 è stata la mole, il numero di passeggeri – cinquecento sul colosso a due piani – che si sarebbero spostati sulle rotte del Pianeta.

L'assalto delle low-cost, il petrolio e il terrorismo

E invece: ecco l'arrembaggio sempre più aggressivo delle compagnie low-cost, ecco la crescita delle rotte tracciate fra i piccoli aeroporti invece dei grandi hub dove i giganti atterrano e decollano. Ecco le minacce degli attentati terroristici, il calo dei prezzi del petrolio, le restrizioni americane sui viaggi, con effetti che hanno colpito i maggiori clienti degli A380 come la Emirates.

Il ceo di Airbus, Thomas Enders, presentando i conti nei giorni scorsi ha rassicurato circa il futuro dell'A380, spiegando che il calo della produzione sarà una congiuntura utilizzata per rendere il velivolo ancora più attraente per i nuovi clienti. Ci sarà un nuovo boom, nel domani? Ci sarà veramente o finirà come l'atteso – o forse non tanto – rilancio del vecchio Concorde? La cosa certa è che non sarà la prima volta, come ha scritto il "Financial Times", che "l'ingenuità tecnica" dell'industria aeronautica cadrà vittima delle difficoltà economiche del settore".

Agi News

Come nasce un gigante: Luxottica-Essilor, vale 50 miliardi

Roma – Il re degli occhiali (Luxottica) e i pionieri delle lenti (Essilor) fanno nascere un colosso da 50 miliardi di euro. Quanto tre leggi finanziarie italiane, oltre il triplo del crac Parmalat, il Pil della Bulgaria oppure quelli di Bosnia, Congo e Brunei messi insieme. E' l'ennesima tappa della vita di un uomo che si è fatto da solo, partendo da un garage. Molto prima che andassero di moda i garage, quando Steve Jobs e Bill Gates andavano in prima elementare.

Perché Leonardo Del Vecchio, all'inizio degli anni '60, approfittò dell'occasione offerta dalla Comunità montana di Agordo che aveva offerto  terreno gratis alle fabbriche che si fossero trasferite lì.

Lo ha raccontato lui stesso in questo video del 2011, in occasione dei 50 anni di Luxottica.

Oggi il mercato ha avuto la notizia dell'"Integrazione di due player globali e complementari nel settore dell'eyewear per rispondere ai crescenti bisogni di cura della vista e alla domanda dei consumatori per marchi di alta gamma".

Un colosso da 140.000 dipendenti

"Il nuovo gruppo si troverebbe in una posizione di primo piano per proporre un'offerta completa con ricavi aggregati di oltre 15 miliardi di euro, circa 140.000 dipendenti e vendite in oltre 150 Paesi, la nuova realtà "rappresenterebbe una piattaforma di crescita posizionata per cogliere opportunita' future".

Nel dettaglio, Delfin si impegna "irrevocabilmente" ad apportare le proprie azioni Luxottica ad Essilor sulla base di un concambio di 0,461 azioni Essilor per 1 azione Luxottica. Insieme, Essilor e Luxottica saranno in una posizione migliore per offrire una risposta ai bisogni relativi alla vista di 7,2 miliardi di persone, 2,5 miliardi delle quali non hanno ancora accesso a una correzione visiva. La chiusura dell'operazione è prevista per il secondo semestre del 2017 e sarebbe seguito dall'offerta pubblica obbligatoria sulla totalità delle rimanenti azioni di Luxottica in circolazione.

Del Vecchio, si realizza un sogno

"Con questa operazione si concretizza il mio sogno di dare vita ad un campione nel settore dell'ottica totalmente integrato ed eccellente in ogni sua parte. Sapevamo da tempo che questa era la soluzione giusta ma solo ora sono maturate le condizioni che l'hanno resa possibile", ha detto Leonardo Del Vecchio, presidente di Delfin e presidente esecutivo di Luxottica Group, commentando l'accordo con Essilor. "Il matrimonio tra due aziende leader nei rispettivi settori – ha aggiunto – porterà grandi vantaggi per il mercato, per i dipendenti e principalmente per tutti i nostri consumatori. Finalmente, dopo cinquanta anni di attesa, due parti naturalmente complementari, montature e lenti, verranno progettate, realizzate e distribuite sotto lo stesso tetto".

"Il nostro progetto – ha affermato Hubert Sagnieres, presidente e ceo di Essilor – si basa su una motivazione semplice: rispondere meglio ai bisogni di un'immensa popolazione mondiale relativi alla correzione e alla protezione della vista, unendo due grandi società, una dedicata alle lenti e l'altra alle montature. Con straordinario successo, Luxottica – ha continuato Sagnieres – ha creato marchi prestigiosi, supportati da una catena di approvvigionamento e da una rete distributiva all'avanguardia nel settore. Essilor porta 168 anni di innovazione ed eccellenza industriale nella progettazione, fabbricazione e distribuzione di lenti oftalmiche e da sole. Unendo oggi le loro forze, questi due player internazionali possono adesso accelerare la loro espansione globale, a beneficio di clienti, dipendenti e azionisti, e dell'intero settore". 

Agi News