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Un italiano produce stoffe in Giappone con i macchinari di un secolo fa

AGI – Sul mercato arrivano cravatte, mascherine, stoffe scelte con gusto squisitamente italiano, ma con la qualità giapponese e lavorate esclusivamente con macchinari nipponici di oltre un secolo fa.

Succede nel villaggio di Hirokawa, in una delle terre meno conosciute del Giappone, unica ancora a conservare antiche tecniche di lavorazione del cotone note come “Kurume kasuri“, con cui erano fabbricati abiti di samurai e contadini nel medioevo giapponese: qui, un italiano, Daniele Di Santo ha deciso con la sua azienda di investire nel recupero di questa tradizione riadattandola alla produzione di accessori di uso quotidiano, ispirandosi all’eccellenza italiana del design.

Da qui il brand “Kimonissimo“, che presenta cravatte, stoffe, maschere e accessori realizzati a mano, utilizzando i macchinari impiegati lo scorso secolo, gli ultimi modelli in commercio della Toyota nel 1906 prima che l’azienda puntasse il suo core business sulle automobili.

Questi macchinari, fuori produzione e di cui la tecnologia di fabbricazione è andata perduta, sono i preferiti dai produttori locali che nei decenni non hanno trovato nelle versioni moderne le stesse prestazioni.

Il progetto di Di Santo, nato appena da qualche settimana, assorbe da solo gran parte dell’indotto locale composto da aziende produttrici delle stoffe e artigiani esperti nel cucito per un totale di oltre 50 persone. Ci lavora inoltre una squadra di 8 persone tra designer e addetti al commerciale.

Il mercato principale è quello giapponese, da cui provengono la quasi totalità degli ordini. Ma l’azienda è aperta alla ricerca di partner italiani insieme ai quali distribuire i prodotti nel nostro paese, da cui per ora possono essere acquistati solamente tramite lo shop online.

“Il progetto è nato da una visita casuale a Hirokawa ad inizio 2020, nel pieno della prima ondata di coronavirus. In quel periodo molte aziende sono andate vicine alla chiusura con il rischio, per alcuni settori, di vedere perduti secoli di tradizione come nel caso della lavorazione del cotone di Kurume. Da qui è nata l’idea di riproporre con un uso attuale pensato per le mascherine, un tessuto antico, idea che dopo il primo successo iniziale si è estesa poi ad altri accessori”, ha dichiarato Di Santo.

“Il respiro sociale è centrale in questo progetto. La decisione di investire in un settore così particolare nasce innanzitutto dalla volontà di rilanciare un territorio, contribuendo a mantenere in vita una tecnica di lavorazione riconosciuta patrimonio UNESCO. La nostra mission aziendale è quella di investire in progetti, aziende e know how in grado di portare un potenziale contributo alla crescita e allo sviluppo della società e del territorio, e in questa visione trova pienamente la sua collocazione Kimonissimo”, ha aggiunto Di Santo.


Un italiano produce stoffe in Giappone con i macchinari di un secolo fa

Dal Giappone agli Usa, l’impatto choc del Covid sull’economia mondiale

AGI – Con il dato di oggi del Giappone, tutte le principali economie mondiali hanno messo nero su bianco gli effetti del coronavirus sul loro Pil. Il crollo generalizzato dell’economia mondiale ha un’intensità maggiore di quello che seguì la crisi finanziaria del 2008. Ecco, nel dettaglio, l’andamento del prodotto interno lordo delle maggiori economie mondiali.

L’Ue e l’Italia

Dopo i dati dei vari Paesi, usciti alla spicciolata, è stata Eurostat a mettere ordine e a far capire l’impatto del Coronavirus sulla zona Euro: il calo del Pil sul trimestre precedente è stato del 12,1% dopo il 3,6% del periodo gennaio marzo.

Il dato dell’Italia è sostanzialmente in linea con quello dell’Eurozona, con un calo del 12,4%; peggio della Germania (-10,1%) ma meglio di Francia e Spagna, che rispettivamente hanno perso il 13,8 e il 18,5%. Per un Paese come la Polonia il Coronavirus ha significato la prima recessione dalla caduta del Comunismo, interrompendo 30 anni di crescita ininterrotta.

Il Regno Unito e gli Usa

Non è andata meglio ai Paesi anglosassoni. La principale economia mondiale, quella statunitense, è scivolata del 9,5% nel secondo trimestre, entrando ufficialmente in recessione e interrompendo un ciclo espansivo fra i più lunghi della storia.

La Gran Bretagna è fra gli Stati che sono stati colpiti più duramente dal virus, complice anche la gestione da parte del governo di Boris Johnson: nel secondo trimestre dell’anno, il pil del Regno Unito si è contratto di oltre un quinto, con un calo del 20,4%. 

I giganti asiatici

Ovviamente la pandemia da coronavirus non ha risparmiato l’economia cinese, nel Paese che è stato di fatto la ‘culla’ dell’epidemia che da mesi sconvolge il mondo. Al tempo stesso la Cina è l’unico Paese che e’ sfuggito alla recessione: il Pil è rimbalzato dell’11,5% nel secondo trimestre, dopo essere sceso del 10% nel primo. Rispetto all’anno precedente, il calo è stato del 6,8% nel primo trimestre, con un rimbalzo del 3,2% nel secondo: si tratta di livelli di crescita molto inferiori a quelli registrati da Pechino negli ultimi decenni.

Maxi calo anche per il Giappone: il governo di Tokyo ha annunciato stamattina che il Pil è sceso del 7,8%, terzo trimestre di fila di contrazione.

La Russia e gli altri del Brics

Anche a Mosca, da dove Putin ha annunciato il primo vaccino contro il Covid-19, i morsi del coronavirus si sono fatti sentire. Il calo del prodotto interno lordo nel secondo trimestre è stato dell’8,5% anno su anno, complice anche l’impatto che lo stop dell’economia mondiale ha avuto sull’industria petrolifera.

Brasile, India e Sud Africa devono ancora fornire i dati sul secondo trimestre dell’anno ma anche per loro le previsioni non sono rosee. Per il Brasile le stime indicano una caduta del Pil fra il 5,7 e il 6,5% per il 2020, dopo un primo trimestre a -1,5%. Il Sud Africa, fra gennaio e marzo, ha registrato una contrazione dell’economia del 2%, che rappresenta il terzo trimestre di fila in calo per il Paese. Anche in India, dopo un inizio d’anno ancora in crescita, con un aumento del Pil del 3,1%, le stime per l’intero 2020 prevedono una contrazione del 4,5%. 

Agi

Il G20 in Giappone non impegnerà gli Usa a fermare la guerra dei dazi

Il G20 di Fukuoka, in Giappone, cede alle pressioni di Washington, e rinuncia a impegnare gli Stati Uniti per una pace nella guerra commerciale che sta destabilizzando l’economia mondiale.

Inaugurata dagli Stati Uniti contro la Cina, la guerra dei dazi è “la principale minaccia” alla crescita globale, ha affermato Christine Lagarde, ma la dichiarazione rilasciata dal direttore del Fondo monetario internazionale ai giornalisti dice ciò che gli sherpa dell’amministrazione Trump hanno voluto fosse eliminato nel comunicato finale del vertice, ancora non ufficiale.

Insieme a questa presa d’atto è stato censurato il riferimento “al riconoscimento della necessità di risolvere le tensioni nel commercio”, pur affermando che esse si sono “intensificate”: gli americani, osservano gli analisti, vogliono evitare di assumersi formalmente responsabilità in grado di contraddire le iniziative in corso contro Pechino.

Così, il comunicato finale ripercorrerà sostanzialmente quello diramato lo scorso dicembre al termine del G20 di Buenos Aires, dove i ministri delle Finanze e i governatori delle banche centrali invitarono Washington e Pechino a una tregua di almeno cinque mesi, poi rotta a maggio, quando entrambe le parti hanno cominciato a imporre l’una all’altra aumenti dei dazi.

I ministri del G20, afferma la bozza, “continueranno a lavorare sui rischi in corso e sono pronti a prendere ulteriori azioni”. In realtà, ha chiarito ancora Lagarde, la guerra dei dazi tra Stati Uniti e Cina potrebbe “danneggiare” le opportunità di ripresa. “Ci siamo riuniti in un momento di stabilizzazione dell’economia – ha aggiunto Lagarde – ma la rotta è precaria”.

Una convergenza, pur vaga, sembra invece essere stata trovata sulla opportunità di tassare i giganti del web, come Amazon, Google e Facebook. Il G20 si impegna a “raddoppiare” entro la fine del prossimo anno gli impegni per arrivare alla meta. L’idea, secondo le indiscrezioni circolate ieri, e’ di tassare Facebook, Google e altre multinazionali digitali non piu’ sulla presenza fisica, dove si trovano i loro uffici, ma in base a dove registrano le loro entrate.

Agi