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La Spagna si candida ad attrarre le aziende in fuga da Londra

Potrebbe essere la Spagna il ‘deus ex machina’ per le aziende in fuga dalla Brexit. Lo fanno intendere gli indicatori economici del Paese – crescita al di sopra del 3% per tre anni consecutivi e poi del 2,6% nel 2019 – ma anche l’aumento degli incentivi, in particolare a favore dell’innovazione tecnologica in particolare per le piccole e medie imprese.

Ma ci sono pure ulteriori segnali. “Si stanno moltiplicando le richieste di assistenza per nuovi progetti industriali da realizzare qui”, afferma Marco Bolognini, avvocato d’affari italiano in Spagna dello studio Maio Legal, specializzato nel settore corporate nonché autorevole editorialista del quotidiano economico Expansion. “E sono richieste che arrivano da aziende che prima guardavano senz’altro alla Gran Bretagna come l’hub perfetto per il mercato europeo”.

I motivi sono semplici. La Spagna nel 2020 si presenta come una “alternativa valida e più economica rispetto ad altri Paesi per delocalizzarsi”, aggiunge Bolognini. Un fenomeno a tutto campo, quello che si preannuncia, non solo per le realtà industriali e le medie imprese, ma anche le attività fintech (ossia che forniscono prodotti e servizi finanziari attraverso le più avanzate tecnologie dell’informazione e della comunicazione), come suggerisce anche uno studio dell’influente think-tank spagnolo Funcas nel suo più recente outlook. “La Spagna ha visto crescere esponenzialmente le sue aziende Fintech, e da molte di queste ci si aspetta che competano direttamente con le banche più affermate nei due settori sempre più interconnessi del finanziamento e dell’innovazione”.

Poi ci sono sintomi forse meno importanti dal punto di vista numerico, ma certamente significativi come il fatto che nei primi 10 mesi del 2019 il numero di cittadini britannici che hanno chiesto di ottenere la cittadinanza spagnola è triplicato. E ancora. “Si sta muovendo qualcosa in diversi rami d’attività gestiti a Londra che guardavano all’America latina: oggi appare sempre più probabile che queste realtà decidano di deviare verso Madrid, visto come hub naturale verso oltreoceano”, continua Bolognini.

Ci sono diversi elementi che congiurano in questo senso, spiega l’avvocato italiano con base a Madrid. “La Spagna offre in generale una prospettiva di costo del lavoro più conveniente: per il momento l’ecosistema del mercato del lavoro iberico è ancora piuttosto flessibile, le aziende hanno ancora la possibilità di contrattare ma anche di ridimensionarsi, se necessario, in modo abbastanza rapido rispetto ad altri Paesi”.

E questo è importante soprattutto nei comparti manifatturiero e dell’automotive, dove persiste ancora un grande impiego di personale, ma lo stesso vale anche per il tessile e per il settore ‘food & beverage’, che ovviamente in Spagna ha una tradizione notevole. E ancora: afferma Bolognini che “le grandi estensioni di territorio con una densità di popolazione relativamente bassa rappresentano un’attrattiva notevole per chi pianifica aperture di nuove strutture anche industriali. Per di più anche qui non a caso vengono offerti sempre più incentivi, molti amministratori accolgono l’arrivo di nuove aziende a braccia aperte”.

Un altro elemento d’attrazione può essere la fiscalità relativamente leggera in certe aree, se non altro concorrenziale rispetto a quella di altre nazioni. Come ricorda anche il ministero italiano degli Esteri, “la Spagna si presenta come uno dei mercati più attraenti con 46 milioni di consumatori potenziali e un bacino supplementare di 80 milioni di turisti che visitano il Paese ogni anno”.

Inoltre, per quello che riguarda il rapporto ‘diretto’ tra Spagna e Gran Bretagna, fino al 2016 il 38% degli investimenti iberici era destinato al Regno Unito, verso cui l’export ammontava a 18 miliardi di euro.

Sempre stando al rapporto Funcas, è vero che “la crescita spagnola dovrebbe rallentare all’1,5% nel 2020 a causa di una serie di fattori internazionali che dovrebbero cominciare a farsi sentire nella seconda metà dell’anno”, ma allo stesso si prevede di registrare una nuova ripresa “nel 2021 e nel 2022”.

In altre parole, spiega Bolognini, questo 1,5% “dovrebbe rappresentare il livello più basso, per poi ripartire verso un più solido 2%”. è in particolare Madrid a mostrare più capacità d’attrattiva per aziende che volessero delocalizzarsi dopo la Brexit. Come scrive Expansion, per la regione della capitale è prevista per il 2020 una crescita record del 2,3%, segnando una notevole distanza rispetto all’1,5 della Catalogna.

Ed è La Vanguardia a definire Madrid “la locomotiva del mercato del lavoro spagnolo”, ricordando che alla fine dell’anno su 402 mila nuovi posti di lavoro un terzo sono stati creati nella capitale. L’avvocato Bolognini è d’accordo: “Ormai appare chiaro che l’appeal di Madrid stia superando quello di Barcellona per gli investimenti. Spesso lo si dimentica, ma la capitale è il centro finanziario, oltrechè politico, del Paese, e non presenta i conflitti sociali purtroppo presenti a Barcellona. Tutto questo per dire che la Spagna è un investimento a lungo termine”.

Una prospettiva che non cambia alla luce del fatto che si è appena insediato il nuovo governo guidato da Pedro Sanchez. L’esecutivo, in cui coabitano il Psoe e Podemos, si è infatti da subito profilato con scelte molto nette dal punto di vista ambientale: “Sono previsti molti investimenti al settore green”, aggiunge Bolognini, “e qui non si tratta solo dell’eolico e del solare: ci sono tutte le collateralità del caso, dalle nuove tecnologie di riciclo, alle pulizie delle spiagge, a una maggiore efficacia energetica, ai nuovi materiali edili. Su questo fronte il governo ha fatto sapere di stanziare crediti agevolati volti ovviamente anche ad attrarre aziende europee”.

Tra le imprese italiane che intendono deviare alcuni settori di interesse dalla Gran Bretagna alla Spagna ce ne sono di attive nei sistemi integrati per l’edilizia. Altri movimenti vengono segnalati nel settore ferroviario. Domanda: non è troppo presto per le aziende pensare di muoversi verso la penisola iberica? Anche se Brexit oramai è realtà, il punto è che il periodo di transizione durante il quale si dovrà trovare un accordo che regoli definitivamente i rapporti tra la Gran Bretagna e l’Unione europea è appena all’inizio. 

Appuntamento, dunque, al 2021? Per esempio, c’è chi nota che i trasferimenti dal Regno Unito di grandi nomi come Sony, Airbus o Credit Suisse vadano a rilento. “È vero, ma il problema è che moltissime aziende soprattutto di piccole o medie dimensioni temono di trovarsi tra 6 mesi oppure tra un anno a doversi scapicollare in un modo che la loro struttura non può tollerare”, ragiona ancora Bolognini, secondo il quale “si tratta di realtà che non hanno risorse come le grandi multinazionali”. La corsa post-Brexit è appena iniziata, a sorpresa il ritmo potrebbe essere quello del flamenco. 

Agi

Perché la fuga della Norvegia da oil & gas sarà un duro colpo per l’Arabia Saudita

La banca centrale della Norvegia ha raccomandato che il fondo sovrano del Paese ceda i suoi investimenti nei combustibili fossili. L’annuncio è considerato una grande vittoria per il movimento, iniziato pochi anni fa, a favore del “divestment” da petrolio, gas e altri combustibili fossili considerati responsabili del cambiamento climatico, anche se la mossa della banca centrale è basata "esclusivamente su argomenti di carattere finanziario", specialmente quello di preservare il fondo da ribassi duraturi dei prezzi di oil & gas.

Il fondo sovrano della Norvegia è il più grande al mondo e gestisce attività per un valore di oltre 1.000 miliardi di dollari, controllando circa l’1,5% del mercato azionario mondiale. L’annuncio ha pertanto causato una discesa delle azioni delle principali aziende petrolifere europee.

L'Ipo più grande della storia

L’annuncio potrebbe danneggiare l’imminente Ipo di Aramco, il colosso energetico statale dell’Arabia Saudita che Riad intende quotare come parte di un piano, anche in questo caso, per diversificare l’economia nazionale dal petrolio e altri combustibili fossili.

La quotazione di Aramco è considerata potenzialmente la più grande della storia, con una valutazione stimata di oltre 1.000 miliardi di dollari. Il governo saudita ha infatti l’obiettivo di cedere il 5% dell’azienda per una somma pari a 100 miliardi di dollari.

L’Ipo è ambìta dalle principali borse mondiali, con i governi di Stati Uniti, Regno Unito, Cina e Giappone che si sono esposti per promuovere il proprio listino nazionale nella corsa alla quotazione internazionale di Aramco. Infatti il governo saudita intende quotare Aramco su più mercati, con almeno parte della quota collocata sul listino nazionale saudita, il Tawadul.

Leggi anche i servizi di Repubblica e del Sole 24 Ore

Le ambizioni del principe

L’iniziativa rientra nelle riforme economiche proposte dall’ambizioso principe della Corona Mohammed bin Salman, che nelle ultime settimane ha avuto un ruolo centrale nella crisi diplomatica libanese, la chiusura delle frontiere in Yemen e l’arresto di decine di oppositori interni nell’ambito di una campagna anticorruzione domestica. Tra le altre riforme, il principe 32enne ha anche annunciato a ottobre investimenti di 500 miliardi di dollari per realizzare una nuova area economica lungo il Mar Rosso, in una zona che copre 26.000 chilometri quadrati e attraversa Arabia Saudita, Giordania e Egitto.

L’assenza del maggiore investitore azionario al mondo renderà più complicato per Riad riuscire a ottenere la valutazione sperata per Aramco. Oltre all’impatto dell’assenza di un fondo che al momento ha ancora molti investimenti legati al settore energetico, l’annuncio potrebbe a cascata incentivare altri investitori a fare scelte simili.

Fino a oggi il movimento per disinvestire dai combustibili fossili era stato popolare soprattutto tra investitori di dimensioni più ridotte o aveva avuto successo nel limitare gli investimenti solo in alcune delle fonti di energia più sporche.

Agi News

I cervelli in fuga hanno (anche) i capelli grigi

Nel 2016, come ogni anno dall'inizio della crisi, gli italiani che si sono trasferiti all'estero hanno toccato un nuovo record: l'Istat ne ha stimati 115mila, ma a partire non sono solo i più giovani, studenti o neolaureati. Il gruppo  di "expat" che ha visto la crescita maggiore – rileva Repubblica – è quella tra i 40 e i 50enni.

La migrazione dai capelli grigi

Tra il 2008 e il 2014 sono raddoppiati, da 7.700 a 14.300: un esodo di professionisti, imprenditori e lavoratori meno qualificati che ormai affianca quello "classico" dei giovani talenti. Con difficoltà superiori: la famiglia da lasciare, una lingua da imparare. E destinazioni diverse. Considerate le persone in età lavorativa, una su cinque sta in quella fascia, una su tre allargando il conto agli over 50. "La nuova migrazione dai capelli grigi", commenta la Cna, che ha elaborato i dati.

Destinazioni meno 'cool', ma più redditizie

Meno Londra e Berlino, calamite per 20enni. Più geografie ad alto potenziale di crescita, come Cina o Sudamerica. O Paesi alla ricerca di competenze professionali pronte. Ai nostri medici e ingegneri sia la Germania che i Paesi del Golfo offrono stipendi molto interessanti.


Chi parte, dove va e perché

  • 115mila persone hanno lasciato l'Italia nel 2016
  • Nel 2014 sono partite 14.300 persone tra i 40 e i 50 anni
    • il 31% è laureato
  • I neolaureati scelgono Londra e Berlino
    • cercano il primo lavoro
  • I professionisti Cina, America Latina e Golfo Persico​
    • cercano stipendi più alti

Un flusso di persone istruite, il 31% è laureato, il doppio della media nazionale. Un esodo scattato con la crisi, ma che, nota la Cna, aumenta anche ora che l'Italia ha ritrovato una crescita, per quanto contenuta: "Non c'entra più la congiuntura, è il nuovo standard" conclude lo studio .

Agi News