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Sui social lo sciopero è più forte della paura del Covid

AGI –  Lo sciopero generale proclamato da Cgil e Uil, con l’assenza della Cisl, ha portato 10mila persone in Piazza del Popolo a Roma, secondo i dati di fonti vicine alla Questura. “Insieme per la giustizia” è lo slogan scelto dalle due sigle sindacali. Lavoratori pubblici e privati di diversi settori, dal trasporto ferroviario e aereo, a quello cittadino, personale delle autostrade, i corrieri, i lavoratori della logistica, i portuali e gli autotrasportatori, tutti a manifestare e protestare contro la legge di bilancio presentata dal Governo.

Assenti, invece, i lavoratori della sanità, della scuola e delle poste. Oltre alla manifestazione nazionale svoltasi a Roma, ci sono state altre iniziative analoghe a Bari, Cagliari, Milano e Palermo.

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#Bombardieri: Abbiate rispetto delle persone che sono scese in piazza: non volevano bloccare il Paese ma ottenere risposte dal Governo.⁰@PpBombardieri #TagadaLa7

— Uil Nazionale (@UILofficial) December 16, 2021

 

La comunicazione e la condivisione online non sostituiscono l’implementazione delle reti solidali, ma certamente le piattaforme digitali possono essere molto utili a costruire mobilitazioni reali nelle piazze. Con gli algoritmi di intelligenza artificiale di Kpi6* abbiamo analizzato le migliaia di conversazioni sul web, e il sentiment ossia l’andamento delle emozioni, ricavabili all’interno dei contenuti pubblicati sullo #sciopero.
Di #ScioperoGenerale si è iniziato a parlare in modo consistente già alcuni giorni prima della manifestazione nelle piazze, sin dall’inizio del mese di dicembre quando la mobilitazione è stata annunciata.

Discussioni sia sull’opportunità di scioperare, ma anche sulle varie tematiche di tipo economico, inerenti la manovra di bilancio, il lavoro e la ripresa economica. Una discussione ampia, articolata sull’effettivo valore e robustezza della crescita del prodotto interno lordo, sugli effetti del covid sull’economia e gli obiettivi concreti che lo sciopero può ottenere. Infatti le conversazioni spesso non includono menzioni alle sigle sindacali. Come se lo sciopero fosse sganciato dai promotori e in realtà sia stato il pretesto per aprire una discussione allargata, sulle azioni del Governo e le prospettive economiche.

Tra le sigle sindacali la Cgil è la più menzionata, con valori pressoché identici a quelli che caratterizzano la Uil, mentre la Cisl ha ottenuto un basso volume di visibilità all’interno delle conversazioni, nonostante il clamore provocato dalla mancata adesione allo sciopero.

Parlare tanto di un fenomeno sociale o di un protagonista politico, non necessariamente porta visibilità positiva, infatti il sentiment associato a Cgil e Uil è nettamente negativo, al 90%. In molti contestano l’opportunità di scioperare in una fase ritenuta delicata come quella attuale, anche in relazione alla possibile diffusione dei contagi e di nuovi focolai. 

Gli hashtag maggiormente associati allo sciopero, sono #CGIL e #UIL, mentre le frasi e le parole più presenti all’interno dei contenuti sono orientate alla protezione dei diritti e allo sviluppo dell’occupazione: “disaccordo Governo”, “manovra bocciata”, “chiediamo insieme giustizia” e “sciopero sacrosanto”. Ma c’è anche chi fa sentire una voce favorevole all’esecutivo, infatti tra le conversazioni emerge “manovra combatte il precariato”.

Le conversazioni sono di altro tipo quando si associano alla Cisl: “Responsabilità” e “dialogo”, sono le parole più rappresentate. Ma una parte dell’audience definisce la scelta di non partecipare allo sciopero una “scelta incomprensibile”, a conferma di come l’idea di vedere il fronte sindacale non compatto, provochi comunque disappunto.

Gli argomenti collegati allo sciopero, dei quali si parla sul web, sono raggruppabili in cinque categorie:
·         Lavoratori
·         Draghi e Governo
·         Legge di bilancio
·         Pensioni e pensionati
·         Covid e probabilità di contagi

Le categorie del rischio sanitario e di nuovo focolai è quella che ha provocato meno conversazioni, mentre il tema del lavoro e del precariato, oltre alle discussioni sul Governo, sono quelle più popolate con i contenuti degli utenti.

La prevalenza delle forze politiche, in generale, non ha sostenuto  lo sciopero, sebbene rispettandone la piena legittimità, e raccogliendo i vari spunti di riflessioni portati avanti nelle piazze.

Ancora livore da #Salvini contro i lavoratori di questo Paese e contro i sindacati.
Nessun stupore per la sua reazione: d’altronde sono i suoi consulenti ad essere orgogliosi quando riescono a licenziare gli operai e a chiudere delle fabbriche in Italia#SCIOPEROgenerale pic.twitter.com/1iOJBZMyLP

— nicola fratoianni (@NFratoianni) December 16, 2021

Uno sciopero si rispetta, sempre. Tuttavia, è meglio che i lavoratori – nel decidere se aderire o no – si basino sulle informazioni corrette, e non sulla propaganda. Ne va della qualità del nostro spazio pubblico. pic.twitter.com/zepW30icUg

— Luigi Marattin (@marattin) December 15, 2021

La politica non può ignorare lo #scioperogenerale, serve un segnale concreto per la dignità dei lavoratori. Sul #salarioMinimo chiediamo a tutti i partiti, a partire dal Pd, di rompere gli indugi. Basta perdere tempo: in Parlamento c’è la proposta del @Mov5Stelle.

— Carlo Sibilia (@carlosibilia) December 16, 2021

Osservando la geo distribuzione delle conversazioni sull’intero territorio nazionale, notiamo che in Lombardia e Lazio si è parlato molto dello sciopero; molto meno nel resto d’Italia, anche in quelle regioni dove i lavoratori hanno manifestato, a Bari, Cagliari, Palermo.

* Analisti: Gaetano Masi, Marco Mazza, Giuseppe Lo Forte, Pietro La Torre; Design: Cristina, Addonizio; Giornalista, content editor: Massimo Fellini


Sui social lo sciopero è più forte della paura del Covid

Con il Recovery l’euro è più forte

AGI – I mercati all’accordo europeo sul Recovery Fund avevano cominciato a crederci e quindi l’avevano già anticipato, da quasi una settimana e cioè da martedì 14 luglio, quando hanno iniziato a far salire l’euro al top da marzo, sopra quota 1,14 dollari. Oggi, alla fine di una maratona di 90 ore, all’annuncio del “deal”, l’euro è schizzato a 1,1470, il nuovo top da 4 mesi, un livello che secondo gli analisti è abbastanza alto, anche se in un range di medio livello, cioè l’euro è un po’ più forte, ma niente a che vedere con i movimenti tra 1,20 e 1,50 dollari di qualche anno fa. Adesso il movimento oscilla tra 1,08 e 1,14 dollari, la situazione è molto più stabile, anche perchè tutte banche centrali stanno stampando moneta, un po’ di più la Fed, ma tutte, inclusa la Bce, hanno scelto la strada del quantitative easing, che di fatto tende a mantenere i cambi valutari abbastanza equilibrati.

L’Eurozona in questa fase è più stabile degli Usa 

Al di là di chi stampa più moneta, comunque, in questa fase, come dimostrano anche i movimenti anticipatori dei mercati, che premiano l’euro c’è, come spiega Antonio Cesarano, chief global strategist di Intermonte Sim, “il discorso della percezione del vantaggio relativo dell’Europa. In questo momento, specie ora dopo l’accordo sul Recovery Fund, l’area euro è considerata più sicura degli Stati Uniti. Questo accordo consente di mettere una buona base per supportare l’area euro con piano articolato e di lungo periodo”.

Tutto cio’ va ad aggiungersi ad un’emergenza sanitaria ed economica che in questo momento sfavorisce gli Usa, con la seconda ondata di coronavirus in corso e i nuovi lockdown che li penalizzano, mentre l’Europa sembra procedere molto più spedita verso la fine del tunnel. “Inoltre – nota Cesarano – gli Usa hanno anche le elezioni presidenziali, che rappresentano un altro fattore di incertezza. L’Eurozona offre dunque meno incertezze, più garanzie e per questo gli investitori la premiano”.

Euro forte va bene a usa ma c’è incognita nuovi stimoli 

“Per ora – spiega ancora Cesarano – l’euro forte va bene agli Stati Uniti che hanno bisogno di un po’ di dollaro debole, ma molto dipenderà da come procederà la contrattazione al Congresso per il nuovo round di aiuti Usa, che in questo momento appare un negoziato molto difficile, pieno di incognite e di incertezze.

Se la trattativa procederà spedita e si arriverà a un accordo veloce, Wall Street si rafforzerà e il dollaro s’indebolirà, ma se invece lo scontro al Congresso dovesse prolungarsi per tutto agosto e si lasceranno decadere, senza prolungarli, i sussidi ai senza lavoro, che scadono a fine luglio, allora succederà il contrario: le Borse si innervosiranno e il biglietto verde finirà per apprezzarsi”. In ogni modo, come pronostica Cesarano, “difficilmente si andrà molto oltre quota 1,15. A 1,1470 siamo già nella parte altissima del range”.

Soldi del Recovery fund arriveranno solo nel ii trim. 2021

Dopo il via libera al Recovery Fund da parte dei leader europei l’Europa si è portata avanti col lavoro, ma c’è ancora molto da fare. I Parlamenti dei 27 Paesi dovranno pronunciarsi e poi ogni Stato dovrà, tra settembre e ottobre, presentare il suo Recovery Fund, con le richieste per accedere ai fondi di spesa. Questi piani dovranno poi essere vagliati entro due mesi dalla commissione Ue che dovrà approvarli, ma che non ha l’ultima parola.

I piani dovranno infatti passare all’esame dell’Ecofin, il quale ha un potenziale diritto di veto, cioè puo’ dire no ma solo se ha dietro di sè Paesi che rappresentano il 35% della popolazione europea. In pratica, tutta questa trafila assorbirà per intero il primo trimestre del 2021 e, se tutto filerà liscio, i soldi cominceranno ad arrivare e potranno essere spesi solo a partire dal secondo trimestre dell’anno prossimo. 

Agi

Petrolio chiude in forte rialzo, +8,7% a New York sopra 46 dollari

Chiusura in forte rialzo per il petrolio a New York. Al Nymex il Wti guadagna l'8,7%, il più forte rialzo da novembre 2016, a quota 46,22 dollari.  I prezzi del petrolio Usa rimbalzano, dopo essere scesi ai minimi dal 2017, per il timore di un rallentamento dell'economia globale e quindi di un indebolimento della domanda.

Agi News

Wall Street: chiude in forte calo per il caso Huawei, DJ -2,2%, Nasdaq -3,1%

Wall Street ha chiuso in calo, con gli investitori preoccupati per le tensioni commerciali con la Cina, alla luce anche delle nuove informazioni sul caso Huawei. Il Dow Jones ha perso il 2,2% a 24.388,34 punti, il Nasdaq ha segnato -3,1% a 6.968,48 punti mentre l'S&P 500 ha ceduto il 2,3% a 2.633,42.

Le forti perdite hanno segnato la fine della peggiore settimana per la borsa americana da marzo. Sulla direttrice finanziaria di Huawei, Meng Wanzhou, pende un'incriminazione per frode negli Stati Uniti, i quali hanno fatto richiesta di estradizione. Meng è accusata di "cospirazione per truffare diverse istituzioni finanziarie" e rischia, in caso di condanna, una pena a oltre 30 anni di prigione. La donna, figlia del fondatore della Huawei, è sospettata di avere mentito alle banche per aggirare le sanzioni americane contro l'Iran.

Agi News

Sui dazi Trump è pronto a dare un secondo schiaffo alla Cina (più forte del primo)

Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, si prepara a mantenere la promessa di essere duro sulle questioni commerciali, e dopo i dazi sulle importazioni di acciaio e alluminio, si appresta a sferrare una duro colpo su un altro settore che può fare male direttamente a Pechino, la proprietà intellettuale.

Le nuova misure che andrebbero a colpire le relazioni commerciali tra Cina e Stati Uniti potrebbero arrivare a breve, avvisano i funzionari di Washington che in forma anonima confermano le intenzioni di Trump e dello Us Trade Representative, Robert Lighthizer. 

Nel mirino ci sono prodotti importati dalla Cina per un valore complessivo di sessanta miliardi di dollari, 48,3 miliardi di euro, che potrebbero essere soggetti a dazi: in particolare, le tariffe andranno a colpire i settori della tecnologie e delle telecomunicazioni, ma più in generale, lo scopo delle nuove misure sarà quello di contrastare le politiche cinesi che costringono le aziende statunitensi a cedere la loro proprietà intellettuale per operare in Cina e altre pratiche ritenute ingiuste da Washington.

“La vera guerra commerciale deve ancora arrivare e non si combatterà sui metalli”, aveva avvertito nei giorni scorsi un articolo di Fortune, e il terreno del prossimo scontro potrebbe comprendere anche l’imposizione di restrizioni agli investimenti di gruppi cinesi che operano negli Usa.

Per il nuovo colpo alle politiche commerciali, gli Usa faranno ricorso alla sezione 301 dello Us Trade Act del 1974, in base al quale sono possibili indagini da parte dello Us Trade Representative per presunte negligenze nei confronti dei partner commerciali, con la possibilità di applicare sanzioni. 

Il partner commerciale sotto osservazione è la Cina, e dai primi riscontri di cui parlava il magazine Politico settimana scorsa, sono più di cento i prodotti cinesi su cui l’amministrazione Usa sta prendendo in considerazione l’ipotesi di applicare tariffe per l’importazione. Sempre secondo quanto scrive Politico, che cita un funzionario di Washington al lavoro sul dossier, lo Us Trade Representative intende utilizzare come base per l’applicazione delle tariffe il “Made in China 2025”, ovvero il gigantesco piano di coordinamento industriale e di sviluppo del manifatturiero varato dal governo cinese nel 2015. La motivazione è piuttosto semplice, secondo quanto spiegato al Washington Free Beacon da un funzionario Usa: se la Cina avrà il controllo delle industrie del futuro, a partire dai settori della robotica e dell’intelligenza artificiale, “l’America non avrà un futuro, almeno sul piano economico”.

Pechino, da parte sua, continua a promettere maggiore attenzione alle questioni relative alla proprietà intellettuale e risponde lanciando avvertimenti agli Stati Uniti, senza scendere nel dettaglio delle possibili contromisure. Il più pesante risale a settimana scorsa, quando il ministro degli Esteri di Pechino, Wang Yi, aveva detto a chiare lettere che in caso di guerra commerciale, la Cina avrebbe prodotto una “risposta legittima e necessaria”. L’ultimo, di oggi, è del suo portavoce, Lu Kang, che ha ribadito che le relazioni bilaterali “non sono un gioco a somma zero”, tornando a chiedere un approccio “costruttivo” a Washington per gestire le divergenze commerciali.

Dai lavori dell’Assemblea Nazionale del Popolo, il parlamento cinese, è arrivata nelle scorse ore anche l’ennesima promessa di una maggiore attenzione ai casi relativi alla protezione della proprietà intellettuale: a formulare è stato Shen Changyu, capo dell’Ufficio Statale per la Proprietà Intellettuale, che come molti altri ministeri e commissioni governative sarà oggetto a una forte ristrutturazione, secondo il piano per la riorganizzazione del Consiglio di Stato, il governo cinese, presentato ieri. L’impegno cinese emerge anche dagli ultimi dati presentati dalla Corte Suprema del Popolo, il massimo organo giudiziario: nel 2017, i tribunali cinesi hanno affrontato oltre duecentomila casi (213.480) riguardanti la proprietà intellettuale, con un incremento del 40,4% rispetto al 2016, e complessivamente il doppio di quelli del 2013.

Troppo poco, però, per Washington, che ad agosto scorso aveva attivato la procedura per innescare le indagini in base alla sezione 301 dello Us Trade Act (alla quale non faceva ricorso dal 1995) proprio per colpire le pratiche ingiuste rispetto alla proprietà intellettuale o i furti di tecnologia subiti dai produttori statunitensi. Secondo quanto scrivono diversi media Usa, lo US trade Representative, Robert Lighthizer, avrebbe proposto dazi per trenta miliardi di dollari, ma lo stesso Trump avrebbe chiesto di alzare la somma, poi raddoppiata, ai sessanta miliardi di dollari di cui si parla oggi: una cifra che potrebbe aiutare a riequilibrare il deficit commerciale che Washington ha nei confronti di Pechino, e che lo scorso anno ha raggiunto quota 375 miliardi di dollari, 303 miliardi di euro.

Trump avrebbe la strada spianata per agire anche grazie agli ultimi rimescolamenti nel suo staff, e in particolare dopo l’addio del suo consigliere economico, Gary Cohn – che verrà sostituito dall’economista Larry Kudrow – e dopo la rimozione decisa ieri del segretario di Stato, Rex Tillerson, colpevole, agli occhi di Trump, anche di avere mostrato scetticismo sulle mosse di politica commerciale della Casa Bianca. Non tutti, però, la pensano così, e c’è già chi, tra i lobbisti di Washington, teme che le prossime misure in campo commerciale possano colpire le famiglie americane, con in più il rischio di una rappresaglia da parte di Pechino e di ingaggiare un confronto tra le due sponde del Pacifico che potrebbe non avere vincitori. A pesare, contro Trump, è anche l’assenza di coinvolgimento nella decisone degli alleati, soprattutto Giappone e Unione Europea: allo stesso tempo, il pugno duro contro la Cina potrebbe, sostengono alcuni, fargli guadagnare consensi al Congresso, più della decisione di imporre dazi sull’acciaio e sull’alluminio. 

Agi News