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Ecco perché una sede Amazon fa gola a molte città (non solo italiane)

E’ stato inaugurato ufficialmente il 18 settembre il terzo centro di distribuzione italiano di Amazon. Jeff Bezos ha scelto Larizzate in provincia di Vercelli come luogo di smistamento dei migliaia di articoli che finiranno nei prossimi mesi dentro le case degli italiani. Per il momento l’hub è operativo e i circa 200 dipendenti hanno iniziato a stoccare il materiale sugli scaffali, ancora non si conosce però il periodo in cui prenderà il via l’attività di smistamento.

In Italia Amazon già distribuisce da Caste San Giovanni in provincia di Piacenza e da Passo Corese in provincia di Rieti. 

Tutto quello che c’è da sapere sul polo di Vercelli

Il polo logistico da 107.000 metri quadrati – si legge su La Stampa – è sorto in pochi mesi alle porte di Vercelli. Il logo scelto per il capannone è un airone cinerino, uccello tipico delle campagne vercellesi. Migrando dall’Asia e dall’Africa, il volatile dal becco e dalle zampe di forma curiosa ha trovato nelle risaie il suo habitat: “Anche Amazon viene da lontano, dall’America – sottolineano dal colosso mondiale dell’e-commerce – ma proprio come l’airone, vogliamo diventare parte integrante del territorio”. Ed è anche per questo motivo che tutte le sale riunioni del centro di distribuzione sono state intitolate alle diverse tipologie di riso, elemento d’identità della zona. Quindi c’è la sala Carnaroli, la Arborio, la Sant’Andrea e così via.  

Inoltre quello di Vercelli sarà un centro di distribuzione di categoria 'Non Sort' ('Non Sortable'), a differenza ad esempio di quello di Piacenza, che è invece 'Sort'. Questi si occupano della gestione di tutti i prodotti che, per dimensioni e peso, sono al di sotto dei 13 chili di peso e non devono essere alti più di 25 centimetri e lunghi più di 45. In questi magazzini gli articoli vengono stoccati in scaffalature di media grandezza, e non servono mezzi per movimentare la merce, bastano dei semplici carrelli. Tutti gli altri articoli che superano queste dimensioni sono definiti «Non Sortable», e saranno quelli custoditi nel polo di Larizzate. La procedura, in questo caso, è differente: in base al peso dell’articolo, vengono utilizzati carrelli più grandi rispetto a quelli tradizionali, ma anche dei mezzi che permettono di stoccare i prodotti in scaffalature che si sviluppano in altezza.

Le prossime aperture italiane

Il prossimo 3 ottobre – scrive Diariodelweb –  un magazzino di 8mila metri quadrati sorgerà a Crespellano, alle porte di Bologna. Lo stesso vale per Casirate d’Adda (Bergamo), dove dovrebbe sorgere un capannone ultra-tecnologico di 40mila metri quadrati, per il quale sarebbero previste ben 400 assunzioni. Piano piano anche in Italia sta nascendo una serie di magazzini pronti a distribuire merce on-demand in qualsiasi momento, il più in fretta possibile. Le logiche del colosso di Jeff Bezos sono sempre state chiare: rapidità e una customer experience soddisfacente.

Negli Stati Uniti è scattata la gara per aggiudicarsi la sede Amazon

E’ bastato un annuncio per scatenare la fantasia e la frenesia di molte città americane che vogliono aggiudicarsi la seconda sede americana – in ordine di grandezza – di Amazon.

D’altra parte non possono essere biasimate, visto che la seconda casa di Amazon porterebbe 50.000 posti di lavoro e un investimento di 5 miliardi di dollari, oltre che una popolarità senza precedenti, considerando che si tratta dalla sede dell’Internet company più grande al mondo. Ogni città ha cercato di farsi notare in vari modi – scrive Mashable -, ad esempio Tucson in Arizona ha deciso di tagliare un cactus di 21 metri e di inviarlo come dono a Jeff Bezos.

Anche il sindaco di Pittsburgh, Bill Peduto, ha corteggiato su Twitter il gigante dell’e-commerce e quello di Kansas City, Sly James, ha elencato tutti gli aspetti positivi della città scrivendo un editoriale sul Kansas City Star.

Con un post su Facebook si è fatta notare Huntsville, in Alabama. La città ospita già la sede Nasa e altre grandi aziende di ingegneria.L’interesse è arrivato anche da parte di grandi città come Houston, New York e Boston.

 

 

 

Agi News

Ecco come Apple farà concorrenza alle major di Hollywood (e sfiderà Amazon)

Apple è pronta a investire un miliardo di dollari, a partire dal 2018, per realizzare e produrre contenuti media originali, in concorrenza con i grandi studio di Hollywood. Lo rivela il Wall Street Journal, secondo il quale si tratta di una cifra considerevole, pari a quanto ha speso nel 2013 Amazon nell'annunciare il suo ingresso nel campo della programmazione video e la metà di quanto ha speso l'anno scorso Time Warner per la tv ad alta qualità Hbo. Secondo fonti vicine all'operazione, Apple si appresterebbe a produrre in proprio almeno dieci grandi programmi televisivi, tipo "Game of Thrones" della Hbo. Gli show verrebbero trasmessi sul servizio di streaming musicale, oppure su un nuovo servizio di video che verrebbe creato ad hoc.

Progetto 'visionario' di Eddy Cue

Il progetto va incontro ai piano di programmazione video più volte annunciato da uno dei leader più visionari del gruppo, Eddy Cue. Il budget del progetto verrebbe gestito da due veterani di Hollywod, Jamie Erlichet e Zack Van Amburg, ingaggiati nel giugno scorso dalla Sony, proprio in vista di una futura programmazione video a livello globale della Apple. I due riportano direttamente a Cue, il quale gestisce il budget da 24 miliardi di dollari dei servizi Apple, nel quale è incluso iTunes.

Il business dei contenuti media negli Usa, si va facendo molto affollato, poichè oltre alle tv tradizionali e alle major di Hollywood, in pista ci sono Amazon, Netflix e, ora, anche Apple. Nella stagione 2016 almeno 17 grandi catene televisive, che trasmettono da diverse piattaforme, hanno realizzato 500 nuovi show di grande rilievo, il doppio rispetto rispetto a quelli prodotti nel 2011.

Le risorse illimitate di Apple

Apple, affacciandosi per ultima sulla scena, ha bisogno un grande 'hit', ciò di un grande colpo televisivo, per guadagnare visibilità. A giugno Apple ha lanciato su Apple Music "Planet of Apes", la nuova versione del "Pianeta delle Scimmie", e la scorsa settimana ha immesso sul mercato "Carpool Karaoke", ma entrambi i video hanno subito forti critiche. Tuttavia con i suoi 260 miliardi di dollari di liquidità e ricavi che nel 2016 hanno raggiunto di 215 miliardi di dollari, Apple dispone di risorse praticamente illimitate per il suo debutto sulla scena dei contenuti media.

Agi News

Ecco perché il ddl concorrenza non aiuterà le farmacie. Anzi…

Fino a 15, 20 anni fa acquistare una farmacia significava assicurarsi un ottimo lavoro, a contatto con il pubblico, con orari abbastanza comodi e guadagni sostanziosi. Un investimento per sé stessi e per le generazioni a seguire. Nessuno immaginava che da lì a una ventina d'anni quella 'casta' se la sarebbe passata malissimo e che anche i farmacisti si sarebbero ritrovati a stringere la cinghia e, in molti casi, ad abbassare per sempre la saracinesca. Come hanno fatto, ad esempio, già oltre 30 professionisti l'anno scorso a Roma. O i 25 titolari di Milano che da inizio anno fino ad aprile hanno detto addio alla loro attività. Ad oggi si contano in Italia 18.549 farmacie, tra private e comunali. Di queste, secondo i dati Sose, 4.000 versano in condizioni economiche gravissime e sono a rischio fallimento. E il timore, condiviso da farmacisti, commercialisti, legali e associazioni, è che il ddl Concorrenza – in discussione dal 20 febbraio 2015, poi passato al Senato e ora in attesa dell'approvazione della Camera – rappresenti per molti esercizi la pietra tombale.

Il ddl Concorrenza apre le porte alle società di capitali

Dopo un iter di oltre 800 giorni, il cosiddetto "ddl Concorrenza" ha incassato la fiducia del Senato lo scorso 3 maggio. Ora il testo è tornato alla Camera per la terza – e con ogni probabilità – definitiva valutazione. Intanto il testo ha già provocato una vera e propria bufera nel mondo farmaceutico. Agli articoli 58, 59 e 60, il ddl introduce nuove misure per incrementare la concorrenza nella distribuzione farmaceutica. La novità riguarda l'apertura del mercato alle società di capitali che potranno essere titolari dell'esercizio della farmacia privata. Finora la partecipazione è concessa solo alle persone fisiche, iscritte all'albo dei farmacisti e che abbiano conseguito, in un concorso per assegnazione di sedi farmaceutiche, una titolarità o l'idoneità, o che abbiano effettuato almeno due anni di pratica professionale. La misura stabilisce anche che le società di capitali potranno avere un controllo massimo regionale del 20%. Il tetto però non si riferisce alla quota destinata al settore delle società di capitale, ma al massimo che ognuna di esse può detenere nelle proprie mani.

Cittadini senza servizi: lo scenario più nero

Così come è accaduto con l'avvento delle grandi catene di distribuzione nel settore dell'high tech, dell'alimentare e dell'abbigliamento, anche le farmacie rischiano di ritrovarsi schiacciate dai big dei farmaci e dai loro stessi fornitori. Un rischio tanto più alto quanto più la farmacia si trova in zona appetibile: "Sono convinto che qualora il ddl passi senza alcuna modifica rispetto al testo originario l'interesse delle società di capitale sarà rivolto alle sole farmacie con fatturati rilevanti o ad alto potenziale, ad esempio con una posizione economicamente appetibile, generando per le altre sedi presenti sul territorio un danno economico", spiega all'Agi Stefano Vescovi, presidente di Farmed: gruppo di professionisti dei settori fiscale e tributario che da 30 anni curano la contabilità di oltre 800 farmacie in tutta Italia. Le strategie di marketing e i prezzi concorrenziali che potrebbe adottare una società di capitale, spiega ancora Vescovi, segnerebbero la fine di molte farmacie tradizionali che non potrebbero permettersi né prezzi al ribasso, seppur di poco, né – magari – orari di lavoro più lunghi. 

In questo contesto, poi, paradossalmente, sarebbero le farmacie rurali (presenti in comuni con meno di 3.000 abitanti e che oggi rappresentano io 32% degli esercizi totali) quelle che se la passerebbero meglio, semplicemente perché le società di capitale potrebbero non essere interessate affatto a investire in zone meno centrali. 

"E se questo scenario andrà ad aumentare il numero delle farmacie in crisi, chi andrà a garantire un servizio capillare che è tuttora lo scopo principale?", si chiede Vescovi che continua: "Garantiscono occupazione, ma in che modo? Conterà principalmente la logica del profitto. Questa non è un ddl "concorrenza" a garanzia di un pubblico servizio. Tutt'altro". 

Un'opportunità per i fornitori

Se il ddl venisse approvato di sicuro aprirebbe nuove strade ai fornitori. Sono loro, infatti, quelli che vantano un credito maggiore nei confronti dei farmacisti sempre più in difficoltà. La riduzione del fatturato, e conseguentemente degli utili, unita alle difficoltà di accesso al credito delle aziende in ragione del credit crunch, ha generato il ritardo nel pagamento dei fornitori che, di contro, hanno rallentato le forniture non consentendo così alla farmacia di rispondere alle richieste del mercato. Un'ipotesi realtistica è, dunque, quella che vede un ingresso dei fornitori nella compagine sociale delle aziende farmaceutiche: in questo modo diverrebbero titolari di quelle stesse farmacie che nella maggior parte dei casi sono loro debitrici.

Una crisi lunga 15 anni, ecco a cosa è dovuta 

Tre sono le cause principali che hanno determinato la crisi delle farmacie: 

  • un calo del prezzo dei farmaci che ha visto scendere il valore della 'ricetta rossa' dai 28 euro di un tempo agli attuali 12-13 euro
  • l'allungamento dei tempi di pagamento delle Asl
  • l'aumento del numero delle farmacie (e quindi della concorrenza)

 A queste ragioni si sommano poi:

  • l'avvento delle parafarmacie 
  • liberalizzazione dei farmaci di fascia C, quindi non "salvavita"

Negli ultimi 20 anni i farmacisti si sono ritrovati a fare i conti con un crollo del prezzo dei medicinali che ha innescato un altro problema: il calo dei ricavi. Ed è così per tutto il Sistema nazionale sanitario, che ha registrato una contrazione del 50%. Dall'altra parte però, spiega Vescovi, "non è possibile per i titolari fare a meno del personale, perché le vendite non sono scese". Il risultato è che "i farmacisti si ritrovano nella condizione di sostenere un modello vecchio ma con minore capacità rispetto al passato".  

Ma non è il solo motivo: "A partire dal 2010 – spiega all'Agi l'avvocato Francesco Saltelli, socio cofondatore dello Studio Legale S.T.V. specializzato nell'ambito della crisi di impresa – le Aziende Sanitarie Locali hanno allungato notevolmente i tempi di pagamento dei corrispettivi dei farmaci a carico del servizio sanitario nazionale, e ciò a causa della situazione di crisi finanziaria degli enti regionali". Ciò ha fatto sì che molti farmacisti "messi alle strette dalla contrazione dei ricavi, da un lato, e dal ritardo dei pagamenti, dall'altro, sono stati costretti a chiedere prestiti bancari per poter mantenere un livello di liquidità che garantisse loro una corretta continuità aziendale". 

 Al crollo dei guadagni e l'aumento dei debiti, va aggiunto poi il terzo elemento che ha scatenato la tempesta perfetta: l'aumento del numero di esercizi: "In passato – spiega ancora Saltelli – il rapporto tra la farmacia e il numero degli abitanti era di 1 a 5000 (nei comuni con popolazione fino a 12.500 abitanti) e di 1 a 4.000 negli altri comuni (art. 1, L. n. 475/68). Tale rigida regolamentazione limitava in circa 16.000 il numero delle farmacie distribuite nel territorio nazionale". Poi con le liberalizzazioni previste dal Decreto Monti, è cambiato il quadro normativo di riferimento, e il rapporto ad oggi (secondo l’ultimo rapporto di Federfarma – Federazione nazionale che rappresenta le oltre 16.000 farmacie private convenzionate con il Servizio sanitario nazionale) è sceso così a 1 ogni 3.200 abitanti. Tali politiche hanno evidentemente determinato una contrazione dei fatturati molto rilevante.

Agi News

Ecco come funzionerà (in breve) il nuovo Reddito di inclusione

Primo giro di boa per il decreto legislativo che introduce una misura unica a livello nazionale di contrasto alla povertà e all'esclusione sociale, ossia il Reddito di inclusione (chiamato REI). Dopo il via libera del Consiglio dei ministri  (che attua la delega), dovrà ora acquisire i pareri delle commissioni parlamentari competenti. Quindi quello di ieri è stato un primo passo verso l'entrata in vigore definitiva.

QUANDO SCATTA
La nuova misura entrerà in vigore dal prossimo primo gennaio.

CHI NE HA DIRITTO 
Viene riconosciuto alle famiglie con un reddito (vale l'ISEE), non superiore a 6.000 euro e un valore del patrimonio immobiliare, diverso dalla casa di abitazione, non superiore a 20.000 euro (in questo si permette l'accesso anche a chi è proprietario della casa in cui abita, ma versa in uno stato di povertà). In prima applicazione sono prioritariamente ammessi i nuclei con figli minorenni o disabili, donne in stato di gravidanza o disoccupati ultra cinquantacinquenni. Secondo stime del governo, si rivolgerà a 660 mila famiglie, 560 mila con figli minori. Fermo restando il possesso dei requisiti economici, il REI è compatibile con lo svolgimento di un'attività lavorativa.

A CHI NON SPETTA
La misura non è compatibile con la contemporanea fruizione, da parte di qualsiasi componente il nucleo familiare, della NASpI o di altro ammortizzatore sociale per la disoccupazione involontaria. Non potranno accedere alla misura anche coloro che nei due anni precedenti la richiesta hanno acquistato auto, moto o barche.

A QUANTO AMMONTA
Si tratta di un beneficio economico erogato su dodici mensilità, con un importo che andrà da circa 190 euro mensili per una persona sola, fino a quasi 490 euro per un nucleo con 5 o più componenti.

DURATA
Il ReI sarà concesso per un periodo continuativo non superiore a 18 mesi e sarà necessario che trascorrano almeno 6 mesi dall'ultima erogazione prima di poterlo richiedere nuovamente.

COME RICHIEDERLO
Al ReI si accederà attraverso una dichiarazione a fini ISEE "precompilata". E' un'importante innovazione di sistema, che caratterizzerà l'accesso a tutte le prestazioni sociali agevolate migliorando la fedeltà delle dichiarazioni da un lato e semplificando gli adempimenti per i cittadini dall'altro.

 

 

Spiega il ministro del lavoro Poletti: "Il beneficio del reddito di inclusione nella prima fase sarà destinato a 660 mila famiglie e andrà da un minimo di 190 euro a un massimo di 485 euro". Le risorse per il reddito di inclusione saranno pari a circa "2 miliardi di euro l'anno nei prossimi anni. Noi stiamo lavorando su diverse materie in una logica molto forte di integrazione tra strumenti che esistono per promuovere politiche di inclusione: è un'opera non semplice perchè significa far collaborare uffici diversi, modelli diversi. Abbiamo presentato il reddito di inclusione che è uno strumento universale che fa riferimento a tutti i soggetti ma in una continuita'", ha aggiunto il ministro.

Leggi anche il servizio sul Sole 24 ore e l'articolo sul Messaggero

Poletti: "Ecco le nostre priorità"

Nel bilancio dello Stato, ha ricordato Poletti, "c'è il Fondo per la poverta' che vale 1,7 miliardi che si deve incrementare con un riordino delle misure in campo e con la decisione di destinare una quota rilevante del Fondo di inclusione al potenziamento dei servizi che devono prendere in carico le persone che avranno diritto al sostegno al reddito". Il 15% del Fondo sarà destinato al potenziamento dei servizi nel territorio e alle politiche attive. Le presenze nei centri per l'impiego verranno incrementate con 600 unità. La priorità nel riconoscimento del beneficio verrà data ai nuclei "con almeno un figlio minorenne o con disabilità anche se maggiorenne, a quelle con una donna in stato di gravidanza o a un over50 in disoccupazione".

 

Agi News

Niente orari, uffici e cartellini. Ecco il bello dello smart working

Il lavoro si trasforma, è tempo di dire addio agli uffici, agli orari, ai cartellini. Tutto sta andando verso una direzione più ‘agile’ e flessibile, in una parola (inglese) smart. In sostanza, gli smart worker non hanno bisogno di un poso di lavoro fisso, anche inteso come luogo fisico, ma lavorano 'da remoto', a casa o anche in spazi di coworking. Dopo l’approvazione in Senato, il 10 maggio 2017, della legge sullo smart working, non manca più niente. L’Italia, anche dal punto di vista legislativo, è pronta per la nuova sfida.

Leggi anche: Cosa è lo smart working e come funziona

Gli smart worker sono più soddisfatti e sereni

Da un’indagine su oltre 1000 persone, condotta dall’Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano in collaborazione con Doxa, in Italia gli smart worker sono più soddisfatti rispetto alla media dei lavoratori. Il 35% è più sereno, grazie all’opportunità di conciliare vita privata e lavorativa. Il 41% è più soddisfatto dei risultati raggiunti, rispetto al 16% dei lavoratori tradizionali. Il 46% è entusiasta, mentre lo sono solo il 20%, meno della metà, degli altri lavoratori.

In soli tre anni, dal 2013 al 2016, i lavoratori ‘agili’ sono cresciuti del 40%. Anche se si parla ancora di cifre molto basse. In totale in tutta Italia ci sono, al momento, 250mila smart worker, tra impiegati, quadri e manager. Il 7% del totale, contro un 5% del 2013. Quindi il trend è in crescita, ma la strada è ancora lunga.

Per ora, più uomini che donne 

Attualmente sono principalmente uomini (69%) e hanno un’età media di 41 anni. Si tratta di dipendenti inseriti già in una realtà lavorativa aziendale. Ecco le loro caratteristiche principali:

  • il 46% è altruista, nel senso di fornire il supporto che viene richiesto;
  • il 43% conosce i referenti sui vari temi;
  • il 50% si assume responsabilità in più rispetto ai compiti dati;
  • il 42% è resiliente;
  • il 42% riesce ad integrare lavoro e vita privata;
  • Il 35% sa scegliere gli strumenti giusti, digitali e collaborativi, per capitalizzare e condividere la conoscenza.

I consigli di chi lo fa

E’ stato chiesto ai dipendenti di Abbot, una delle prime multinazionali del settore healthcare ad aver attivato forme di lavoro agile in Italia, quali fossero le loro reali esigenze. Gli aspetti più rilevanti da tenere in considerazione – secondo i dipendenti –  per cambiare l’approccio al lavoro sono:

  • Lo stile di leadership per il 25%;
  • Le opportunità di formazione e sviluppo per il 23%;
  • L’ambiente organizzativo per il 21%;
  • La chiarezza della strategia aziendale per il 13%.

Gli strumenti più efficaci

  • Il telelavoro (44%);
  • L’ambiente e orari flessibili (33%);
  • Servizi di welfare aziendale (22%).

Cosa stanno facendo le imprese

Il 17% delle grandi imprese italiane nel 2015 – in base ad un’indagine Doxa – aveva in atto progetti strutturati di smart working, un +9% rispetto al 2014. E un’impresa su due aveva adottato iniziative per creare più flessibilità, come policy su orari e spazi di lavoro, dotazione tecnologica a supporto, revisione del layout degli uffici o interventi sugli stili di leadership. Tra le Pmi la diffusione, due anni fa, risultava ancora molto limitata.

Anche i dipendenti pubblici possono diventare smart worker?

La risposta è sì. Il 25 maggio è stata approvata in conferenza unificata Stato-Regioni una direttiva del dipartimento di funzione pubblica che fissa modalità e criteri di utilizzo del lavoro ‘agile’ per i dipendenti della pubblica amministrazione.

Leggi anche: i 12 trend del lavoro digitale in Italia

Lo smart working è un'innovazione potente, figlia dello spirito del nostro tempo, che usa la tecnologia per rinnovare l'organizzazione del lavoro, migliorare i risultati e questo vale anche nella pubblica amministrazione, dove si va ad aumentare efficacia ed efficienza. Spero che tutto questo, alla luce anche della nostra direttiva specifica, venga supportato dai dati. Abbiamo deciso in parallelo di misurare come i primi casi di smart working incidano sulla qualità dei servizi ai cittadini: sono certa che presto avremo elementi che indicheranno una migliore qualità", ha dichiarato il ministro della Semplificazione e della Pubblica Amministrazione, Marianna Madia, durante il convegno ‘Smart work, better life’, organizzato dal Centro Europeo di Studi Manageriali (Cesma).

Agi News

Governo debole e rischi populisti, ecco perché Fitch taglia rating Italia a BBB

Fitch ha tagliato il rating dell'Italia da 'BBB+' a 'BBB'. L'outlook è stabile. Lo comunica l'Agenzia di rating spiegando che i rischi politici "sono aumentati" in Italia e sottolineando che i "rischi di un governo debole o instabile sono aumentati così come la possibilità che aumenti l'influenza politica di partiti populisti ed euroscettici". Secondo Fitch, la crescita del populismo in Italia "può smorzare l'appetito della politica per le riforme, aumentare la pressione per un allentamento fiscale e pesare sulla fiducia degli investitori". Gli attuali sondaggi, spiega l'agenzia di rating, indicano un'ulteriore perdita di terreno dei partiti più centristi e un panorama politico frammentato che potrebbe tradursi in un governo di minoranza. 

Il governo presieduto da Paolo Gentiloni giura al Quirinale


Come scrive Repubblica, sul piano economico, l'agenzia parla di "fallimento" sul fronte della riduzione dell'elevatissimo livello del debito pubblico, il che "espone maggiormente il Paese a potenziali shock sfavorevoli", e prevede un aumento del Pil dello 0,9% nel 2017 e dell'1,0% nel 2018. 

Necessario nuovo sostegno pubblico per le banche

L'agenzia cita anche "le debolezze delle banche" italiane che accrescono i rischi al ribasso per l'economia e le finanze pubbliche e spiega che l'outlook per il settore bancario è negativo e riflette soprattutto il peso dei crediti deteriorati e della bassa redditività e generazione di capitale. Un ulteriore sostegno pubblico al settore "potrebbe essere necessario in assenza di più ampi sforzi di ristrutturazione", scrive ancora l'agenzia di rating Fitch .

Da ottobre 2016 Italia nel mirino delle agenzie di rating

  • FITCH – A ottobre 2016 l'agenzia di rating aver rivisto a negativo l'outlook per i rischi di incertezza politica legati al referendum che si sarebbe tenuto a dicembre. 
  • MOODY'S – A febbraio 2017 dopo il referendum istituzionale e le dimissioni del premier Matteo Renzi, aveva abbassato da stabile a negativo l'outlook sul debito dell'Italia e aveva lasciato capire che il rating poteva essere rivisto da 'Baa2' a valori inferiori.
  • S&P – Per ora prende invece tempo e ha lasciato il merito di credito dell'Italia a 'Bbb-' con prospettive stabili.
  • DDRS – Anche l'agenzia di rating canadese, la quarta al mondo, ha tagliato lo scorso gennaio il giudizio sull'Italia da 'A' a 'BBB' con outlook stabile. 

Agi News

Ecco le nomine per Enel, Eni, Enav, Poste e Leonardo

I ministero dell'Economia ha reso note le nomine ai vertici di Enav, Enel, Eni, Leonardo (Finmeccanica) e Poste Italiane

Ecco nel dettaglio le proposte che saranno votate dalle assemblee degli azionisti:

Enav

Asseblea convocata per il 28 aprile 2017. Il Ministero è titolare del 53,37% del capitale,

  • Roberto Scaramella – Presidente  
  • Roberta Neri – Amministratore delegato

Cda: Giuseppe Acierno, Maria Teresa Di Matteo, Nicola Maione e Mario Vinzia

Enel

Assemblea convocata per il 4 maggio 2017. Il Ministero è titolare del 23,58% del capitale

  • Patrizia Grieco – Presidente
  • Francesco Starace – Amministratore delegato

Cda:  Alfredo Antoniozzi, Alberto Bianchi, Paola Girdinio e Alberto Pera

Eni

Assemblea convocata per il 13 aprile 2017. Il Ministero è titolare del 4,34% del capitale e per il tramite di Cassa Depositi e Prestiti (partecipata al 82,77% dal MEF) di un ulteriore 25,76%.

  • Emma Marcegaglia – Presidente
  • Claudio Descalzi – Amministratore delegato

Cda: Andrea Gemma, Diva Moriani, Fabrizio Pagani e Domenico Trombone

Collegio Sindacale: Paola Camagni (Sindaco effettivo), Andrea Parolini (Sindaco effettivo), Marco Seracini (Sindaco effettivo), Stefania Bettoni (Sindaco supplente), Stefano Sarubbi (Sindaco supplente)

Leonardo (Finmeccanica)

Assemblea convocata per il 2 e 16 maggio in sede ordinaria e il 2, 3 e 16 maggio in sede straordinaria. Il Ministero è titolare del 30,20% del capitale.

  • Giovanni De Gennaro – Presidente
  • Alessandro Profumo – Amministratore delegato

Cda: Guido Alpa,·Luca Bader, Marina Calderone, Marta Dassù, Fabrizio Landi

Poste Italiane

Assemblea convocata per il 27 aprile 2017. Il Ministero è titolare del 29,30% del capitale e attraverso Cassa Depositi e Prestiti di una ulteriore quota del 35%,

  • Bianca Maria Farina – Presidente
  • Matteo Del Fante – Amministratore delegato

Cda: Carlo Cerami,  Antonella Guglielmetti, Francesca Isgrò e Roberto Rao 

Agi News

Call center: Almaviva, ecco qual è la posta in gioco

Roma – E' di nuovo bufera sui call center di Almaviva. Al ministero, l'azienda toglie dal tavolo la proposta su cui si era trovato l'accordo solo due mesi fa e dà la colpa al siindacato. In ballo, alcune migliaia di posti di lavoro, e la chiusura delle sedi di Napoli e Roma.

Almaviva Contact prende atto "della totale indisponibilità" dei sindacati al percorso industriale presentato dall'azienda, e dunque "non può che considerare superata la propria proposta".

La società lo annuncia con una nota al termine del tavolo al ministero dello Sviluppo Economico con le organizzazioni sindacali. L'azienda dice "no alla cultura del sussidio inadeguata e impropria". "Dopo mesi di sostanziale indifferenza, di rifiuto a dar seguito ad impegni formalmente convenuti, di deformate rappresentazioni ai lavoratori delle proposte aziendali, – afferma l'azienda – la risposta delle Organizzazioni Sindacali è stata una pregiudiziale e assoluta indisponibilità anche al confronto, nonostante ben altre posizioni assunte nel tempo con società concorrenti, accompagnata dalla sola rivendicazione di una gestione assistenziale della crisi".

Almaviva: Giovanni al call center per 1.150 euro al mese stress incluso

Al mese di settembre 2016, Almaviva Contact ha registrato un fatturato ridotto del 50% negli ultimi quattro anni, pari a 100 milioni di euro, avendo mantenuto invariata una forza lavoro in Italia di 9000 persone, delle quali 8000 a tempo indeterminato. "Ciò a fronte di una crisi del settore che ha comportato la chiusura di almeno 15 aziende negli ultimi 18 mesi. Le perdite medie mensili afferenti ai soli siti produttivi di Roma e Napoli nel periodo successivo all'intesa, ammontano a 1,2 milioni di euro su ricavi pari a 2,3 milioni, pur in presenza di ammortizzatori sociali".

 

 

Agi News

Si sblocca il contratto degli statali, ecco i 4 punti chiave dell’accordo

Roma – Dopo sette anni di attesa i 3,2 milioni di dipendenti statali vedono finalmente avviato il processo per il rinnovo del loro contratto. I leader di Cgil, Cisl e Uil, con una maratona finale di 8 ore, hanno siglato con il ministro della P.a., Marianna Madia, l'accordo politico che permetterà di inviare all'Aran (Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni) l'atto di indirizzo per il rinnovo. 

I punti salienti dell'accordo: 

  • Amento salariale di 85 euro medi mensili, con la logica della piramide rovesciata: valorizzare chi ha più sofferto della crisi ed evitare di penalizzare chi ha già diritto al bonus di 80 euro.
  • Incentivi legati al tasso di presenze.
  • Lotta all'assenteismo e al precariato.
  •  La contrattazione ritorna al centro con il superamento della Legge Brunetta.
  • L'accordo quadro varrà per tutti i comparti pubblici, compresa la scuola come chiesto dai sindacati, e sulla parte normativa prima dovrà essere raggiunta un'intesa con le Regioni, come stabilito dalla sentenza della Consulta di venerdì scorso. 

 

 

L'accordo politico per lo sblocco del rinnovo dei contratti del pubblico impiego è composto da 4 capitoli. Ecco le principali novità: 

  • Lavoratori motore p.a. e  accordo esteso a tutti i settori

I lavoratori sono il motore del buon funzionamento della Pubblica amministrazione. Il settore pubblico ha bisogno di una profonda innovazione, bisogna mettersi al fianco e non al di sopra di cittadini e imprese. Le amministrazioni devono porsi obiettivi trasparenti e che migliorino concretamente la qualità dei servizi. Serve un percorso condiviso che segni una discontinuità con il passato. Il Governo si impegna ad attuare l'accordo in tutti i settori pubblici e a raggiungere un'intesa con le Regioni.

  • Relazioni sindacali, più potere alla contrattazione 

Il Governo si impegna alla definizione di un intervento legislativo volto a promuovere il riequilibrio, a favore della contrattazione (modifica della Legge Brunetta e della Buona Scuola ndr). L'esecutivo si impegna a rivedere il rapporto tra legge e contrattazione, privilegiando la fonte contrattuale come luogo naturale per la disciplina del rapporto di lavoro. Il ricorso all'atto unilaterale da parte della P.a sarà limitato ai casi in cui ci sia stallo nelle trattative con conseguente pregiudizio all'azione amministrativa. Dunque le parti sono chiamate a trovare ulteriori ambiti di esercizio della partecipazione sindacale.

  • Parte normativa, premi legati alle presenze 

Le parti si impegnano ad individuare, con cadenza annuale, criteri per misurare l'efficacia delle prestazioni delle amministrazioni e la loro produttività collettiva con misure contrattuali che incentivino più elevati tassi medi di presenza. Introdurre strumenti di monitoraggio delle carenze, superamento della spesa produttiva, del precariato. Miglioramento della conciliazione vita-lavoro. Il Governo si impegna inoltre a sostenere l'introduzione di forme di welfare contrattuale, di fiscalità di vantaggio per la produttività.

  •  Parte economica, aumento medio non sotto 85 euro 

Il fondo per la P.a previsto in manovra destinerà la quota prevalente" al rinnovo dei contratti, per incrementi contrattuali in linea a quelli riconosciuti mediamente ai lavoratori privati e comunque non inferiori a 85 euro mensili medi. Le parti, nella contrattazione, nell'intento di ridurre la forbice retributiva, valorizzeranno i livelli retributivi che maggiormente hanno sofferto la crisi economica e il blocco della contrattazione. Saranno evitate penalizzazioni per chi ha già diritto al bonus di 80 euro, una platea che per la Madia ammonta a circa 200 mila persone.

  • Monitoraggio riforma p.a., osservatorio e lotta precariato 

Le parti promuovono un osservatorio della riforma della pubblica amministrazione che ne monitori gli effetti e contribuisca alla sua attuazione. Grande attenzione sarà dedicata al reclutamento del personale e a eliminare forme di precariato.

Agi News

Call center, ecco le nuove regole

Roma – Stop ai call center che vincono le gare a prezzi stracciati comprimendo i costi del personale, freno alla delocalizzazione e obbligo di dichiarare da dove chiama e da dove risponde l'operatore. Sono le principali novità introdotte da una norma contenuta nella legge di Bilancio approvata dalla Camera. Apprezzamento è stato espresso dai sindacati che però ora temono il passaggio al Senato dove la norma potrebbe venire annacquata dietro pressione delle lobby. Cgil, Cisl e Uil si preparano a difenderla e chiedono inoltre l'ampliamento delle garanzie, con l'introduzione di ammortizzatori sociali per la categoria. 

Delocalizzazione selvaggia addio

La richiesta è appoggiata anche dalle associazioni di settore, come Asstel, e dal presidente della Commissione Lavoro Cesare Damiano, che però pensa di affrontare il tema in un apposito ddl, difendendo quanto approvato alla Camera "da ogni tentativo di manomissione". In dettaglio, l'articolo 35-bis della legge di Bilancio introduce l'obbligo di comunicazione della localizzazione del call center e prevede che la delocalizzazione dell'attività sia comunicata 30 giorni (anziché 120) prima del trasferimento, oltre che al ministero del Lavoro e al Garante della Privacy, all'Ispettorato nazionale del lavoro e al ministero dello Sviluppo economico (indicando al Mise le numerazioni messe a disposizione del pubblico per il servizio delocalizzato).

Stop ai benefici per chi esce dall'Ue

La norma stabilisce una sanzione di 150.000 euro per ciascuna comunicazione omessa o tardiva, mentre sono confermati i 10mila euro di multa, per ciascun giorno di violazione, per chi ha già delocalizzato. Quanto a coloro che spostano le attività di call center in Paesi extra-Ue, successivamente all'entrata in vigore della legge, il divieto di erogazione viene esteso a qualsiasi beneficio, anche fiscale o previdenziale. Inoltre, viene garantito che la chiamata ricevuta venga da un operatore collocato nel territorio nazionale o dell'Unione europea, pena una sanzione amministrativa pari a 50.000 euro per ogni giorno di violazione. Infine, nel definire l'offerta migliore, le amministrazioni dovranno valutarle al netto delle spese del personale. Tra gli obblighi, anche l'iscrizione al Registro degli operatori di comunicazione.

Verso il rientro in Italia

Secondo la Uilcom, l'emendamento approvato favorisce la rilocalizzazione delle attività di call center in Italia e "sancisce un importante principio che riguarda il cambio d'appalto, efficace per combattere la pratica del 'prezzo più bassò che oggi è, di fatto, pratica diffusissima in un settore dove il costo del personale incide per almeno il 75% dei costi totali". Ma ora, avverte il sindacato, prima dell'approvazione finale "l'emendamento dovrà superare l'attacco al Senato di alcune lobby che ancora remano contro. Ci batteremo affinché questo non accada". Pronta non solo a difendere il lavoro della Camera ma a migliorare ulteriormente il testo la Slc Cgil: le novità rappresentano "un passo in avanti nella lotta alle delocalizzazioni dei call center, seppur non esaustivo".

I sindacati temono il Senato

L'emendamento è infatti un "avanzamento" rispetto alla situazione attuale, ma "nel corso dei prossimi lavori parlamentari deve essere integrato meglio precisando sia il concetto di 'costo del personale' ai fini della valutazione dell'offerta migliore, sia la necessità di prevedere l'introduzione per questo settore di ammortizzatori sociali (cassa integrazione guadagni)". L'impegno della Cgil è "vigilare con attenzione affinché questo emendamento non venga depotenziato nel passaggio al Senato e lavorare perché, nel corso dell'iter parlamentare, vengano introdotti adeguati provvedimenti per dotare il settore di ammortizzatori sociali strutturali".

Anche la Fistel Cisl plaude all'emendamento che "stabilisce finalmente le sanzioni, dando seguito all'articolo 24 bis del decreto legge 83 del 2012 rimasto inapplicato", ma teme il passaggio al Senato. La preoccupazioni delle organizzazioni sindacali è che facciano breccia le tesi di alcune aziende, secondo cui l'emendamento non aiuterebbe realmente il ritorno in Italia delle attività ma sposterebbe i call center da paesi extra Ue ad altri dell'Europa dell'Est come la Romania. Inoltre, i sindacati ipotizzano che, nel secondo passaggio, alcune forze politiche provino a ridimensionare l'emendamento ricorrendo alla argomentazione che il mercato vada lasciato libero.

Basta gare a massimo ribasso

Pronto a difendere le nuove norme sui call center anche il presidente della commissione Lavoro della Camera, Cesare Damiano, secondo cui però ulteriori norme per il settore andranno introdotte con una apposita proposta di legge. "L'emendamento che abbiamo voluto – fa notare l'ex ministro del Lavoro – è un po' il compendio della battaglia condotta in questi anni contro le gare a massimo ribasso e contro le delocalizzazioni. Queste scelte, condivise dal ministero dello Sviluppo economico, vanno difese al Senato nel caso ci fosse qualche tentativo di manomissione". Per Damiano, dopo "le stabilizzazioni effettuate al tempo del governo Prodi, è nuovamente prevalsa la logica del Far west" e per questo è importante che "il Senato confermi il risultato" ottenuto alla Camera.

"In un secondo momento – spiega Damiano – bisognerà procedere a un'ulteriore iniziativa, al di là della legge di Bilancio, per sconfiggere definitivamente la logica del massimo ribasso con l'offerta economicamente più vantaggiosa. Vorremmo inoltre promuovere una proposta di legge che, utilizzando i 30 milioni di euro stanziati da un altro emendamento che finanzia misure di sostegno al reddito per i lavoratori dei call center, facesse diventare questa cifra un innesco per costruire la cassa integrazione per il settore". 

Agi News