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Dire che gli iPhone resistono all’acqua non è proprio vero. E l’Antitrust multa Apple

Agi – L’authority per la Concorrenza ha sanzionato per 10 milioni di euro Apple International e Apple Italia per due distinte pratiche commerciali scorrette. La prima – spiega una nota dell’Antitrust – riguarda la diffusione di messaggi promozionali di diversi modelli di iPhone – iPhone 8, iPhone 8 Plus, iPhone XR, iPhone XS, iPhone XS Max, iPhone 11, iPhone 11pro e iPhone 11 pro Max – in cui veniva esaltata, per ciascuno dei prodotti pubblicizzati, la caratteristica di risultare resistenti all’acqua per una profondità massima variabile tra 4 metri e 1 metro a seconda dei modelli e fino a 30 minuti.

Secondo l’Autorità, però, nei messaggi non si chiariva che questa proprietà è riscontrabile solo in presenza di specifiche condizioni, per esempio durante specifici e controllati test di laboratorio con utilizzo di acqua statica e pura, e non nelle normali condizioni d’uso dei dispositivi da parte dei consumatori.

“La contestuale indicazione del disclaimer ‘La garanzia non copre i danni provocati da liquidi’, dati gli enfatici vanti pubblicitari di resistenza all’acqua – fa notare l’Autorità – è stata ritenuta idonea a ingannare i consumatori non chiarendo a quale tipo di garanzia si riferisse (garanzia convenzionale o garanzia legale), né è stata ritenuta in grado di contestualizzare in maniera adeguata le condizioni e le limitazioni dei claim assertivi di resistenza all’acqua”.

L’Antitrust ha inoltre ritenuto idoneo a integrare una pratica commerciale aggressiva il rifiuto da parte di Apple, nella fase post-vendita, di prestare assistenza in garanzia quando quei modelli di iPhone risultavano danneggiati a causa dell’introduzione di acqua o di altri liquidi, ostacolando in tal modo l’esercizio dei diritti ad essi riconosciuti dalla legge in materia di garanzia ossia dal Codice del Consumo. (AGI)Ing

Agi

Google avrebbe raggiunto la “supremazia quantistica”. Cos’è e cosa vuol dire

Google ha annunciato di aver costruito un computer quantistico in grado di risolvere calcoli più velocemente del più potente computer oggi in commercio. È la prima volta che accade. Chi ha avuto modo di leggere un documento apparso venerdì e poi rimosso dal blog ufficiale del motore di ricerca, ha letto che il processore sviluppato dei ricercatori di Mountain View avrebbe risolto in 3 minuti un calcolo che il Summit di Ibm, attualmente la macchina più potente al mondo, avrebbe potuto risolvere in non meno di 10.000 anni.

La società avrebbe così ottenuto per la prima volta quella viene chiamata la “supremazia quantistica”, cioè la capacità di un processore quantistico di risolvere problemi altrimenti non risolvibili se non con calcoli che necessitano tempi di elaborazione enormi: “Questo esperimento rappresenta il primo calcolo computazionale che può essere risolto solo da un processore quantistico”, si leggeva nel documento.

Google a distanza di 24 ore dalla messa online del documento non ha smentito la notizia che il Financial Times è riuscito a dare prima il documento fosse rimosso. Ma che la società fosse vicina alla supremazia quantistica era qualcosa di cui molti erano già piuttosto certi. Ora manca ancora l’ufficialità, come manca la validazione della comunità scientifica. Ma oggi è lecito pensare che quello che fino a qualche anno fa era poco più di un progetto teorico, cioè che fosse possibile creare un computer con la logica della fisica quantistica e non con quella della fisica classica, oggi sia una realtà.

“La notizia è da accogliere con cauto ottimismo. Quello che lascia intendere però è che ci sono le condizioni per la supremazia quantistica”, commenta ad Agi Raffaele Mauro, managing director di Endeavor Italia. “Da quello che risulta dal paper di Google, sembra che il il computer quantistico sia stato in grado di risolvere un problema di complessità enorme in duecento secondi. Questo però non vuol dire che possa risolvere tutte le tipologie di problemi. E ovviamente nemmeno che a breve avremo personal computer quantistici”.

 

Cos’è un computer quantistico e come funziona

Un computer quantistico usa le leggi della meccanica quantistica per fare i calcoli e risolvere problemi. Se i computer classici hanno come unità fondamentale il bit e la logica binaria (fatta di successioni di 0 e 1), i computer quantistici hanno il qubit, che grazie alla sovrapposizione di strati quantistici possono ‘essere’ 0 e 1 contemporaneamente, in strati diversi. Il numero di stati che può rappresentare un qubit è enormemente superiore ai due stati 0 e 1. Mettendo insieme più qubit il numero di stati possibili elaborati nel tempo aumenta enormemente.

Un esempio: immaginate di cercare la parola ‘quantistico’ in un documento. Anche se non ce ne accorgiamo, il computer classico procede riga per riga a cercare quella parola. E la trova un numero x di volte in un’unità di tempo. Il computer quantistico è come se avesse davanti tutte le pagine del documento contemporaneamente, su ‘strati’ diversi, riducendo di molto i tempi di risoluzione dell’operazione richiesta. Questa capacità, che può risultare non fondamentale nella ricerca di una parola nel testo, può esserlo se il problema da risolvere è molto più grande. Come il calcolo risolto dal computer di Google.

Un altro modo per immaginare un qubit – secondo un fisico intervistato da Wired – è la sfera: se i bit classici possono essere in due posizioni della sfera, i poli opposti, un qubit è come se rappresentasse tutti gli stati della la superfice della sfera nel suo complesso contemporaneamente. 

 

Storia dell’idea di un computer quantistico

“L’idea di un computer quantistico nasce negli anni 80. Alcuni fisici e matematici hanno cominciato a chiedersi: siamo nell’era dell’informazione, ma come sarebbe un computer in grado di seguire le logiche della fisica quantistica invece che quelle della fisica classica?”, ricorda Mauro, che al tema ha dedicato alcune pubblicazioni. Cominciano i primi esperimenti. “Negli anni 90 vengono scritti i primi algoritmi che potrebbero essere risolti sfruttando logica e potenza di computer quantistici”. Siamo ancora nel campo delle ipotesi. “Poi nel 2000 comincia la competizione vera dei gruppi di ricerca, pubblici e privati. Nascono le prime startup che costruiscono i circuiti quantistici. I qubit non sono più roba teorica. Nell’ultimo decennio i primi computer e una sfida che ora coinvolge le più grosse società informatiche al mondo. L’annuncio di Google sembra aver posto fine a questa sfida. E aperto una nuova era”.
 

Cosa succede ora?

Ma cosa può succedere ora? “Il problema che hanno risolto potrebbe avere nell’immediato qualche implicazione nei processi di ottimizzazione e nella crittografia. I problemi di ottimizzazione sono molto diffusi nell’industria e nella finanza, dalla logistica all’analisi dei dati. Immagino implicazioni nel lungo periodo nel machine learning (apprendimento delle macchine). Ma nel breve termine potrebbero essere risolti problemi complessi di chimica, o simulare nuovi materiali, farlo coi computer quantistici sarebbe interessante perché simulano sistemi quantistici loro stessi. Potrebbero arrivare da queste ricerche nuovi farmaci, per esempio”, ipotizza Mauro

Eppure difficile pensare che domani avremo un computer quantistico in casa: “La cosa più verosimile è che questi servizi per ora saranno accessibili nel cloud. Amazon, Google e Microsoft nel prossimo periodo potrebbero erogarli da lì”. In che modo? “Magari un’azienda ha bisogno di trovare un materiale per costruire qualcosa. Sarebbe un caso di problema complesso da risolvere: trovare il materiale perfetto per un compito particolare. L’azienda potrebbe non avere un computer quantistico suo ma allacciarsi al cloud, immettere i dati e fare in modo che il cloud computing li elabori. Ma per i consumatori diretti al momento non vedo molte possibilità di averne uno”, continua Mauro. “Anche perché si tratta di tecnologie costosissime, che lavorano a temperature vicine allo zero assoluto”. Insomma, c’è da aspettare.

 

Il contributo dell’Italia

Stati Uniti, Cina e Europa hanno già da qualche anno cominciato a creare delle istituzioni dedicate al quantum computing. E l’Italia sta facendo la sua parte: “Il nostro paese in questo momento ha molti svantaggi, ma note di primo livello: una scuola di fisica molto buona, con il primo centro italiano di quantum computing creato dalla collaborazione tra ICPT, Sissa e Università di Trieste, oppure le ricerche condotte da alcuni ricercatori del Cnr di Milano. Ma anche manager di primo livello, come Simone Severini che è il capo del Quantum computing di Amazon”, conclude.

Agi

“Vi racconto cosa vuol dire investire in una società di Elon Musk”

Chi ha investito nelle società di Elon Musk deve badare alle prospettive, ai fondamentali finanziari e a quelli delle proprie coronarie. “È un genio, anche se alcune sue uscite possono essere non adeguate”. Marco Valta sa cosa vuol dire perché ha puntato su Space X. Come ha fatto anche con Lime, AirBnB, la fintech Revolut, Snap prima che si quotasse.

Da BravoAvia ad AirBnB

Laureato in economia e commercio, un master a Berkeley, Valta è partito da imprenditore, fondando BravoAvia e vendendola a Bravofly. Poi è passato agli investimenti, puntando su circa 80 società e realizzato 17 exit negli ultimi sei anni. Ha creato un portafoglio fatto di early stage (cioè di investimenti su startup ai primissimi passi) e round più maturi. I primi sono più rischiosi, ma hanno ritorni potenzialmente molto maggiori. “Serve più intuito”. I secondi tendono ad avere rischio minore, ma richiedono una “quota d’ingresso” più onerosa, come quella sborsata per entrare in AirBnB quattro anni fa. In entrambi i casi, “sono fondamentali il network e il passaparola”.

Space X: investire su Elon Musk

Il miliardario americano, specie quando si è parlato di Tesla, ha regalato agli investitori gioie e sudori freddi. È stato più cauto, fino a ora, su Space X: “Se si guardano i pro e i contro di una società di Musk – spiega Valta – credo lui possa essere inserito in entrambi. È l’imprenditore più geniale del nostro tempo ma implica anche degli inconvenienti”. Non solo per le sue uscite social poco ortodosse o per le promesse che sparano in alto. Un investitore, spiega Valta, deve chiedersi: “E se succedesse qualcosa a Musk?”.

In società così legate alla figura di chi le guida, “perdere la sua vision potrebbe essere un fattore di rischio”. Meglio, allora, scavare e andare oltre Musk. “Ho puntato su Space X perché credo nel progetto. Ho avuto modo di conoscere ex founder di Paypal e altri investitori che stavano scommettendo sulla società e mi hanno fatto appassionare. I manager stanno costruendo un’azienda che si basi su diversi canali di revenue (dall’esplorazione spaziale ai satelliti) e si autosostenga”.

Lime e il futuro dei monopattini

Tra le scommesse di Valta in corso c’è quella in Lime, una delle società – assieme a Bird – che ha smosso il mercato dei monopattini elettrici in condivisione. Da Uber a Lyft fino a Ford: sono molte le società accorse per intercettare la spinta di quelli che in Usa chiamano “scooter”. Settore ad alto potenziale o bolla? “Credo che ci sarà una regolamentazione, perché i monopattini non possono essere lasciati ovunque. Dal punto di vista del business, mi spaventa il fatto che non c’è bisogno di grossi asset. Chiunque oggi raccolga capitale può lanciare una flotta con il suo software e arrivare sulle strade. Diventerà un gioco di acquisizioni. Reggerà chi si muoverà in modo più veloce, mentre chi non raccoglierà capitale sparirà”.

Da Snapchat ai nuovi social privati

Un altro investimento, più maturo, di Valta è stato quello in Snap, la società che ha portato in borsa Snapchat. Arrivata a Wall Street con promesse esorbitanti, dopo un’Ipo trionfale è colata a picco, un po’ per l’incapacità di generare profitti e un po’ perché Instagram e Facebook hanno importato la sua principale innovazione: i messaggi a scomparsa, le Storie. Valta ha evitato il tracollo post-Ipo perché ha venduto prima. “Da investitore il rischio del mercato non rientra nelle nostre competenze. Quando una società si quota o viene acquisita, creiamo liquidità”. Snap, quindi, è stato un affare: “Abbiamo realizzato un ottimo ritorno”.

Oggi il mercato è tornato a scommettere sul social guidato da Evan Spiegel, non si sa se più attratto da un conto economico non più così rosso o ingolosito dal prezzo di saldo. Snapchat è stato schiacciato da Zuckerberg, ma Valta è convinto che “ci sarà altro che farà diventare vecchio anche Instagram. Se me lo avessero chiesto quattro o cinque anni fa non avrei rinunciato a Facebook, oggi credo che potrei farlo. Zuckerberg ha detto che i social saranno sempre più ‘privati’. E questo vuol dire meno condivisione. È ancora presto per dire se diventeranno dei trend, ma negli Usa ci sono app che vogliono creare delle piccole community, costituite dai propri familiari o da un gruppo di amici”.

La presenza di un attore dominante, come Facebook nei social, non sarebbe un limite per un investitore. Tutt’altro. In un panorama in cui poche grandi società si espandono fino a includere settori lontani da quello originario (basti pensare ad Amazon con il food delivery o AirBnB con i viaggi), ci sono “grandi opportunità, perché – sottolinea Valta – se crei un servizio fatto bene e specifico che possa essere integrato, per le grandi società è meno costoso comprarlo che svilupparlo internamente. Anche perché non si acquisisce solo il servizio, ma anche le competenze, il team e gli utenti”.  

Investire è (anche) questione d’età

Metà del portafoglio di Valta è investito negli Stati Uniti e circa un terzo in Europa. Due universi che restano distanti: “In Silicon Valley c’è una propensione al rischio diversa. Il mercato statunitense è gigantesco, con una sola lingua e un marketing unico fatto per cinquanta Stati. Trovi fondi e startup che ti propongono moltissimi servizi, ci sono distretti dove trovi le professionalità capaci di farle crescere. La controparte è nei costi e nella maggiore concorrenza. Dal punto di vista delle competenze, ad esempio, l’Italia è uno dei mercati più interessanti”.

La distanza non è solo questione di risorse: “Spesso si vedono idee anche molto buone che però devono scontrarsi con la dimensione del mercato. Se è destinato solo all’Italia, quanto potrà crescere? Questo limita tantissimo gli investimenti”. Nel nostro Paese, poi, si aggiunge un altro fattore: “Credo ci sia una grossa differenza generazionale”, afferma Valta, che è un under 40. “Chi oggi ha le mani sul capitale appartiene a una generazione che, nella maggior parte dei casi, non ha propensione sufficiente a investire nel digitale. Se poi non lo fa in maniera professionale, c’è il rischio di essere attratti da chi fa un pitch migliore anche se sotto non c’è sostanza. È vero che il digital ti permette di scalare più velocemente, ma bisogna pur sempre creare un’azienda”.

Le nuove tendenze

La sfida di un investitore, come sempre, è quella di intercettare le tendenze prima che si consolidino. Quali sono quelle all’orizzonte? “Computer vision e realtà aumentata saranno un grosso trend”, afferma Valta. “Oggi se guardiamo le applicazioni di mappe, vengono fatte in 2D. Siamo ancora dei punti sulla cartina. Ci sarà una grossa innovazione con l’utilizzo della fotocamera che permetterà di collocarti in un luogo con la realtà aumentata in 3D. Oppure potrò fotografare delle scarpe e vedere subito il link per comprarle. L’altro grande trend è tutto quello che è analisi dei dati. È fondamentale per ogni azienda. Sapere cosa vuole un consumatore e cosa posso offrirgli permette di canalizzare tutto in modo vincente”.

Agi

I due veri motivi per i quali Elon Musk vuole dire addio a Wall Street

Elon Musk non è certo famoso per i suoi modi felpati. E sa usare bene i social network, a volte al limite della liceità. Lo ha fatto anche questa volta: si è presentato su Twitter, martedì 7 agosto, ha scritto “buongiorno” con una faccina accanto. E l'ha sparata: “Sto considerando la possibilità di rendere Tesla privata”. Cioè di ritirarla da Wall Street. E ha fatto anche il prezzo: chi vorrà ricomprare una fetta della casa automobilistica e tenersela al riparo dalle fluttuazioni di borsa, dovrà mettere sul piatto 420 dollari per azioni. A questa cifra, Musk valuta Tesla 71,3 miliardi di dollari, 82 miliardi incluso il debito. Cioè con un premio del 20% all'ultima chiusura precedente alle parole del fondatore. 

Musk è sempre divisivo: c'è chi indica la sua mossa come geniale e chi la declassa a irrealizzabile. Intanto però, dopo il tweet e la conferma ufficiale tramite una lettera ai dipendenti (spedita mezz'ora dopo il cinguettio), il titolo ha avuto un'impennata. Ma quali sarebbero i vantaggi di avere Tesla fuori da Wall Street? Ed è davvero una strada percorribile?

Il vantaggi: crescere nell'ombra

In una serie di tweet successivi a quello dell'annuncio, Musk ha spiegato che la volontà di privatizzare non deriva da disaccordi tra gli attuali azionisti. Anzi, ha affermato che si augura che tutti restino in Tesla anche in caso di addio (anzi, di arrivederci) alla Borsa. I motivi di questa mossa a sorpresa sono stati chiariti nella lettera e, forse in modo ancor più incisivo, in un paio di precisazioni social. Il fondatore della società ha parlato di “grande opportunità” e di un modo per evitare “distrazioni” imposte dalle fluttuazioni del titolo.

Su Twitter ha scritto che essere una compagnia privata consentirebbe manovre “più agevoli e meno dirompenti”. E porrebbe fine alla “propaganda negativa” degli short seller. Cioè di chi investe scommettendo sul ribasso di Tesla. Già in passato Musk se l'è presa con questa "propaganda negativa". Anche se lui stesso ha utilizzato (in direzione opposta) la stessa arma. E anche se lo scontro con gli speculatori è stato a volte mescolato con le legittime critiche degli analisti.

Muoversi in maniera più “agevole” significa soprattutto due cose. Primo: non preoccuparsi dell'accoglienza del mercato in un momento in cui la guardia è alta. Nel bene e nel male, al riparo da eccessivi entusiasmi e pessimismi (oltre che dalla speculazione).

Secondo: ridurre i lacci imposti dalla quotazione, soprattutto in tema di comunicazione e trasparenza. Non vuole dire necessariamente che Tesla abbia qualcosa da nascondere. Vuol dire che potrà evitare di svelare, e quindi rincorrere, obiettivi di trimestre in trimestre (come nel caso delle Model 3 prodotte ogni settimana). In questo periodo all'ombra, Tesla potrebbe consolidarsi, superando questa fase di (auspicata) transizione, da nicchia a produttore di massa. E, quando sarà il momento, tornare a riscuotere con una nuova quotazione e un'azienda più matura.

Leggi anche gli articoli di Foglio, Sole 24 Ore e SkyTg24 

Realtà o fantasia? 

Il Financial Times si è mostrato critico. Non tanto per le intenzioni quanto per la fattibilità del progetto. Musk ha scritto (sempre su Twitter) di avere “garanzie finanziarie” e ha “confermato il supporto degli investitori”. Il via libera non dipende tanto dai soldi (che ci sarebbero) ma “dal voto degli azionisti”. Ma il quotidiano finanziario sostiene che solo “una manciata di investitori nel mondo” potrebbero reggere una spesa del genere. Oltre ai grandi azionisti (T Rowe Price, Fidelity e Baillie Gifford detengono circa un quarto del capitale e Musk un altro 20%), ci sono fondi che non possono muoversi fuori dalla borsa. E saranno quindi costretti a vendere. A questi si aggiungerà chi non vorrà aderire. Questo farà lievitare la quantità di risorse che Musk dovrà raccogliere per l'operazione.

Per il fondatore della compagnia, però, la manovra è possibile. E come esempio di successo cita Dell, il produttore di pc americano privatizzato nel 2013. Tuttavia, sottolinea il Financial Times, il quadro è molto diverso. Dell si è finanziato con un debito imponente, garantito dai solidi flussi derivanti dalla vendita dei pc. Tesla, invece, continua a bruciare cassa. E le risorse che ha in questo momento sono, secondo molti analisti, insufficienti per garantire anche gli attuali piani di sviluppo (tra i quali la costruzione di un mega-impianto in Cina). Tradotto: servono molti soldi. E tra coloro che possono fornirli ci sono pochi grandi soci (attuali o potenziali) e alcuni fondi sovrani. Il Public Investment Fund è tra questi. Il fondo sovrano saudita sarebbe pronto a rilevare una quota tra il 3 e il 5%.

Intanto, da lunedì, Musk dovrà occuparsi delle due denunce per aggiotaggio che sono state presentate proprio in relazione ai tweet con cui martedì aveva annunciato la  possibile uscita del gruppo dal listino di Borsa per privatizzarlo. In una delle denunce, Kalman Isaacs sostiene che i tweet erano falsi e fuorvianti per gonfiare il valore del titolo (+13% in poche ore) e il fatto che non siano stati subito corretti ha rappresentato "un attacco nucleare" destinato a decimare i venditori allo scoperto. L'altro ricorrente, William Chamberlain, sostiene invece che Musk ha violato le leggi federali. Le denunce sono state presentate al tribunale di San Francisco. La Tesla non ha voluto commentare la possibile class action a cui va incontro 
ma Musk aveva più volte criticato anche su Twitter le vendite allo scoperto che a suo dire hanno penalizzato il titolo.

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