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“Il reddito di cittadinanza può finire come la social card di Tremonti”

Il reddito di cittadinanza “è una straordinaria occasione per ripensare le politiche attive del lavoro. È però ad altissimo rischio lo scivolamento verso una social card di tremontiana memoria: l’abbiamo già vista e l’abbiamo già vista fallire più volte”. Giorgio De Rita, segretario generale del Censis, riconosce alla misura bandiera del Movimento 5 Stelle il merito di rappresentare un’opportunità. Come anche un rischio.

Può “modernizzare la macchina amministrativa” che supporta chi è in cerca di occupazione, ma l’averla presentata “come una misura ibrida, un po’ lavoro e un po’ contrasto alla povertà ha creato grande confusione”.

Pochi benefici per l’economia

Intervistato dall’Agi, De Rita sottolinea: “L’aver presentato lo strumento come una tesserina di plastica è oggettivamente un errore“, come il “non aver immaginato investimenti sulle piattaforme digitali, che sono il cardine di tutta la misura ma dovranno essere realizzate senza oneri aggiuntivi di finanza pubblica e quindi sempre secondo lo stesso schema di una digitalizzazione ormai collassata”.

Mette in guardia De Rita: “Questo espone di nuovo a un alto rischio di scivolamento verso una misura solo di assistenzialismo. Se è così, non è cambiato nulla e i problemi che c’erano prima restano inalterati”.

“Bene per chi riceve questi soldi – osserva – ma l’economia italiana ne trae pochissimo o nulla. E soprattutto non abbiamo costruito niente per il futuro e lasciamo le strutture per il supporto alla ricerca del lavoro nello stesso punto in cui le abbiamo trovate”.

La complessità, per il segretario generale del Censis, sta nel trasformare l’impegno politico in fatti amministrativi: “Se le risorse che metti in campo non servono a radicare un modo diverso di funzionamento dell’amministrazione non hai fatto niente”.

“Il tema non è ‘tanti o pochi soldi’, ma il fatto che tutte queste risorse sono pura elargizione caritatevole e non orientate a una modernizzazione della macchina amministrativa che dovrebbe funzionare da supporto”.

Questo, secondo De Rita, è il vero spreco: “Non nell’avere pagato tanto o poco, ma nell’aver perso l’ennesima occasione di modernizzazione della macchina amministrativa e dei relativi sistemi informativi”.

Presto per giudicare, ma al momento sono in pochi

A un mese dal via alle domande per accedere al reddito, per De Rita è comunque “prematuro” dare una valutazione completa e precisa, perché è “un percorso complesso e un sistema particolarmente articolato” proprio per la sua doppia valenza (“da una parte è una politica attiva del lavoro, dall’altra è una misura di inclusione sociale”).

Ma considerando i numeri, afferma De Rita, 850.000 domande presentate nel primo mese “sono oggettivamente poche”, perché “la relazione tecnica parlava di un milione e 250.000 famiglie potenzialmente beneficiarie e quindi ci si aspettava che almeno per la domanda se ne presentassero ben di più”.

Tenendo conto poi, prosegue nel ragionamento, che secondo i dati Istat ci sono oltre 5 milioni di persone che vivono in regime di povertà assoluta di cui un milione 850.000 nuclei familiari, “era ragionevole aspettarsi un’adesione alla domanda più alta”.

A questi numeri De Rita aggiunge “i 2,7 milioni di persone che cercano lavoro, quindi un’altra platea”.

Due i fenomeni che secondo De Rita si annidano dietro all’esiguo numero di richiedenti: il primo è insito alla complessità della misura, “che prevede tutta una serie di requisiti ed è molto articolata: presentare la domanda appare facile ma in realtà non lo è – spiega – quindi i potenziali beneficiari si sono messi alla finestra e hanno pensato ‘Fammi aspettare per vedere quali sono le implicazioni'”.

“Doveva essere una misura per i giovani”

Il secondo fenomeno viene etichettato dall’esperto come “una buona dose di cinismo”. E osserva: “C’è chi la ritiene la stessa misura già stata messa in campo con la social card e il reddito d’inclusione e quindi pensa: ‘È una misura di bassa portata che dà qualche euro, si può sempre aderire. Aspettiamo e vediamo”.

Emblematica  “la polemica sui navigator” e “il fatto che se si va ai centri per l’impiego nessuno è in grado di risponderti”.

Il vero problema, torna a ribadire, è che “le famose piattaforme digitali che dovevano essere alla base di tutto non sono ancora partite e i sistemi informativi che dovevano consentire una gestione di tutto l’iter (e quindi del ‘patto per il lavoro’ e del ‘patto per l’inclusione sociale’) sono ancora al primissimo stadio”.

Quindi, tira le fila, una parte di chi ha diritto e non si è fatto avanti pensa: “Tutto sommato quella che appariva una misura di riforma strutturale dell’accesso al lavoro diventa semplicemente una sorta di elargizione caritatevole, come tale sono cinico e aspetto di capire”.

Il dato che colpisce De Rita è quell’8% di giovani che – secondo le cifre del ministero – ha presentato domanda: “È una misura che dovrebbe orientare al lavoro – precisa – il 46% delle persone che cerca lavoro in Italia ha meno di 34 anni, quindi ragionevolmente ci saremmo aspettati grosso modo 3 su 10, o 4 su 10 e non 1 su 10. Era una misura naturalmente orientata verso i giovani come politica del lavoro e la riforma dei centri impiego avrebbe dovuto vedere una loro amplissima partecipazione. E questo dai primi numeri non si vede”.

 

Agi