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Perché Trump ha deciso di rompere la tregua commerciale con la Cina

Donald Trump ha fatto saltare la tregua commerciale con la Cina proprio mentre chiede a Pechino un appoggio nei delicati negoziati nucleari con la Corea del Nord. La Casa Bianca annuncia che procederà sulla strada dei dazi, rinnovando l’intenzione di imporre tariffe del 25% sull’importazione di beni tecnologici cinesi per un valore di 50 miliardi di dollari. Non solo: imporrà limiti agli investimenti cinesi e all’acquisto di tecnologia.

Immediata ma composta la risposta del Ministero del Commercio di Pechino, che definisce la nuova presa di posizione del presidente americano “contraria al consenso raggiunto tra le due parti a Washington”.  Appena una settimana fa sembrava che fosse stata scongiurata la guerra commerciale tra le due principali economie del pianeta, quando il vice premier Liu He era volato a Washington per il secondo round di colloqui sul commercio; i due Paesi avevano raggiunto un accordo che prevedeva l’aumento delle importazioni Usa da parte di Pechino per ridurre il surplus commerciale nei confronti degli Stati Uniti (375 miliardi di dollari).

Trump, perso l’iniziale ottimismo, aveva detto di non essere contento: la tregua, per lui, era solo “all’inizio”. In quel momento era apparso chiaro come il negoziato per evitare la 'trade war' fosse entrato in una nuova fase delicata, sovrapponendosi a quello nucleare con la Corea del Nord.

Perché Trump ci ripensa

Secondo quanto scrive La Stampa, gli americani hanno raggiunto la pax commerciale per due motivi: primo, ottenere dal presidente cinese Xi Jinping un aiuto per convincere Kim Jong-un a procedere con il disarmo nucleare (lo avevamo scritto qui); secondo, la vittoria del ministro del Tesoro Steven Mnuchin  – convinto sostenitore della tregua – nella sfida interna che lo vedeva contrapposto al segretario al Commercio degli Stati Uniti, Wilbur Ross, e al consigliere Lighthizer.

Il dietrofront di Trump arriva proprio a pochi giorni dalla missione asiatica di Ross, atteso a Pechino il 2 giugno per il nuovo round di colloqui sul commercio. La Cina, ha ribadito la portavoce del ministero degli Esteri Hua Chunying, “non vuole una guerra ma non ha paura di combatterla”. Ma resta aperta al proseguimento dei negoziati.

L’annuncio delle nuove sanzioni da parte dell’imprevedibile presidente americano potrebbe essere volto a fare concessioni più concreti in vista della ripresa delle trattative. Una “mossa tattica”, secondo Lester Rosso, a capo dell’ufficio politico della Camera di Commercio americana in Cina.

La stampa cinese

Durissimi gli attacchi della stampa cinese. Il Global Times, uno dei giornali più intransigenti, descrive la mossa avventata degli Stati Uniti come frutta di una “delusione” e avverte che Washington potrebbe ritrovarsi a “ballare da sola”. Il China Daily torna a definire "prive di fondamento” le ripetute accuse rivolte a Pechino di forzare le aziende statunitensi che operano in Cina a trasferire la tecnologia. 

L'ombra di Kim

Non è escluso che dietro al passo indietro si celi l’ombra di Kim. Trump sospetta che Xi abbia convinto il leader nord-coreano a mettere in discussione il vertice di Singapore per ottenere maggiori concessioni sui delicati negoziati commerciali.  Dopo un tesissimo tira e molla, il summit ha ripreso quota. Usa e Corea del Nord hanno stabilito un contatto diretto: nelle ore scorse è volato a New York un emissario del dittatore, Kim Chang-son. Trump potrebbe dunque aver deciso di riaprire il fuoco con Pechino.

Nel mirino anche gli studenti cinesi

La rappresaglia si estende anche ai cittadini cinesi. Gli Usa si apprestano a imporre limiti su alcuni visti rilasciati in particolare a studenti di scienza e tecnologia  – 600 mila all’anno – per gli studi in settori che rientrano nel Made in China 2025. Del resto il piano industriale che punta sui big data è il vero bersaglio di Trump.  Gli studenti cinesi, scrive il South China Morning Post, non sono preoccupati dalle misure che saranno applicate dal prossimo 11 giugno. 

I dazi colpiranno tecnologia e strumenti per la medicina

La lista dei prodotti a cui saranno applicati dazi, secondo quanto riportato dalla Casa Bianca, sarà compilata in base all’elenco di prodotti tecnologici passibili di dazi resa nota ad aprile scorso, e verrà divulgata il 15 giugno prossimo, mentre le restrizioni agli investimenti e i controlli sulle importazioni verranno resi noti il 30 giugno prossimo. La decisione, spiega il comunicato emesso dalla Casa Bianca, è stata presa in base alla sezione 301 dello Us Trade Act del 1974, utilizzata per le indagini dello Us Trade Representative, Robert Lighthizer, su possibili violazioni della proprietà intellettuale. La mossa rientra nei passi messi in atto dagli Usa per “proteggere la tecnologia interna e la proprietà intellettuale da certe pratiche commerciali pesanti e discriminatorie della Cina”, conclude il comunicato.  

Zte e Qualcomm

La lezione di Zte, finita nel mirino di Washington (potrà tornare a fare business negli Stati Uniti a patto che paghi una multa di 1,3 miliardi di dollari e modifichi il management, mentre aumenta l’avversità dei senatori repubblicani) insegna alla Cina che deve affrettarsi a rendersi indipendente sul versante dello sviluppo tecnologico.  Uno dei settori nei quali gli americani temono di perdere l’egemonia è proprio l’intelligenza artificiale. Nel nuovo braccio di ferro tra Washington e Pechino rischia di restare stritolato anche il colosso dei processori Qualcomm, la cui proposta di acquisto dell’aziende cinese di semiconduttori NXP è in attesa dell’approvazione dell’antitrust cinese.

Agi News

Il miliardario cinese Wang Jianlin ha deciso di smontare il suo impero globale

Aveva trasformato in pochi anni un gruppo immobiliare in un impero che possiede catene cinematografiche, studi di Hollywood e una buona fetta del calcio spagnolo. Oggi il miliardario Wang Jianlin, patron di Dalian Wanda, dopo aver perso il primato di uomo più ricco della Cina, è costretto a smontare il suo regno.

Troppi debiti dopo uno sfrenato shopping fuori dai confini cinesi: Pechino, preoccupata dalla fuga di capitali, spinge le conglomerate a fare affari in Cina. La stretta del governo cinese sulle acquisizioni all’estero, che ha causato un calo del 40% degli investimenti diretti esteri nei primi dieci mesi del 2017, si ripercuote sugli asset dei grandi gruppi privati, che sfumano e cambiano rotta. Lo scrivono Bloomberg e Cnn.

Wanda cede pezzi del suo impero indebitato

L’ultimo pezzo è venuto giù martedì 23 gennaio scorso quando Wanda Hotel Development Company ha annunciato la cessione di alcuni progetti residenziali in Australia, una notizia che ha causato la sospensione delle azioni dell’unità del gruppo alla Borsa di Hong Kong. Inversione di marcia: Wang oggi punta a raccogliere fondi e liberarsi dei debiti accumulati all’estero. Come? Sforbiciando i rami sporgenti: la parola d’ordine è vendere le proprietà in giro per il mondo.

E così, Wanda ha annunciato la settimana scorsa la decisione di cedere le proprie quote di One Nine Elms, l’hotel di lusso in costruzione nella capitale inglese, per un valore di 36 miliardi di sterline (50 milioni di dollari). Il colosso aveva già rinunciato all’acquisto di Nine Elms Square.

Un segnale molto chiaro del mutato clima cinese, e di quanto le ambizioni di Wang fossero ormai incompatibili con i nuovi obiettivi del Pcc, giunse l’anno scorso quando sfumò l’acquisto per 1 miliardo di dollari di Dick Clark Production, il produttore dei Golden Globes. La conglomerata di Wang è proprietaria di diverse produzioni hollywoodiane, di cinema americani (Amc) ed europei (Odeon e Uci) nonché di quote nel mondo del calcio, dall’Atletico Madrid a Infront. Un impero globale che oggi rischia di svanire nel nulla.

La stretta di Pechino sui "rinoceronti grigi" colpisce i loro asset

Nel 2017 si è inasprito il giro di vite sugli investimenti in settori considerati rischiosi: sport, industria alberghiera, cinema, immobiliare, intrattenimento, cioè quei comparti che si prestano a operazioni speculative o spesso usati per mascherare fughe di capitali all’estero; i settori di punta del sessantaduenne Mr Wang, che ha appena chiuso un anno difficile.  Prima le autorità cinesi, nell’ambito di una stretta giunta a contrastare gli investimenti poco ragionati dei grandi gruppi privati, hanno messo il sigillo ai prestiti concessi a Wanda, che ha dovuto congelare almeno sei operazioni e cedere asset per un valore di 9,3 miliardi di dollari (parchi a tema e hotel: svanito il piano di sfidare la Disney).

La caccia in Cina ai “rinoceronti grigi”, le grandi conglomerate che negli ultimi due anni si sono indebitate facendo acquisti all’estero (nel 2016 il livello del debito ha raggiunto il 175% del Pil), rischiando così di esporre il Paese a maggiori rischi finanziari, si era svolta in due puntate. Prima le indagini bancarie sulla esposizione debitoria dei principali gruppi finiti nell’occhio del ciclone delle autorità finanziarie (oltre a Wanda, Fosun, Anbang, Hna); poi, in agosto, le autorità cinesi hanno classificato gli investimenti in tre categorie: “vietati”, “ristretti” e “sostenuti”.

Parola d'ordine: investire in Cina

“Negli ultimi anni Wanda ha investito in diversi progetti all’estero. Oggi, abbiamo deciso di venderli per saldare i debiti”,  ha detto Wang sabato scorso ai suoi dipendenti in occasione dell’incontro annuale in azienda. Il patron ha sottolineato che il 93% degli asset aziendali sono in Cina. Appena un anno fa, in un discorso di segno opposto, Wang aveva rivendicato il “maggior numero di acquisizioni estere mai fatte nella storia”, annunciando nuovi piani di espansione.Che sono poi stati frenati. 

Wanda rischia una stretta creditizia

L’impero iniziò a scricchiolare nel 2016 con il delisting delle azioni di Wanda Commerial Properties, il cuore dell’impero immobiliare, dalla Borsa di Hong Kong. Mentre da Sidney a Londra Wanda vende pezzi del suo regno,  il gruppo rischia una stretta creditizia, scrive Bloomberg. Un quarto del debito da 2 miliardi di dollari di Wanda Commercial Properties Co. è in scadenza a marzo.

La holding del cinema americano AMC ha perso il 60% dall’inizio del 2017. Il direttore esecutivo, Adam Aron, ha detto a dicembre che negli ultimi tre mesi la società ha avuto contatti con almeno sei aziende interessate a comprare azioni o cinema. Il 21 gennaio scorso Wang ha detto che Wanda ripagherà tutti i debiti esteri e nessuna società sarà mai a rischio default. Qualche dubbio sembrano però averlo le agenzie del rating. Moody's, S&P e Fitch, che hanno declassato la holding.

 

Agi News