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Costo del denaro alle stelle, i nuovi mutui sono i più cari dal 2013

AGI – Sotto la spinta della stretta monetaria avviata dalla Bce, continuano a salire i tassi sui nuovi prestiti a gennaio, con il costo dei nuovi mutui che balza al top da novembre 2013. In particolare, segnala il Bollettino mensile dell’Abi, il tasso medio sul totale dei prestiti è risultato pari al 3,51% (3,20% nel mese precedente e 6,18% prima della crisi, a fine 2007), quello sulle nuove operazioni di finanziamento alle imprese si è attestato al 3,70% (3,55% a dicembre; 5,48% a fine 2007) e quello sulle nuove operazioni per acquisto di abitazioni è il 3,53% (3,01% a dicembre, 5,72% a fine 2007).

“Quanto alla dinamica dei finanziamenti per acquisto di abitazioni”, ha sottolineato il vicedirettore generale dell’Abi, Gianfranco Torriero, presentando il rapporto, “non disponiamo di informazioni dirette su quello che può essere l’impatto dei tassi di interesse, che rimangono in un territorio relativamente contenuto: sicuramente a dicembre 2007 i valori erano estremamente più elevati. Il tema rilevante, piuttosto, è che la domanda di abitazioni non è solamente funzionale ai tassi praticati ma soprattutto ai prezzi delle abitazioni e al reddito disponibile. Ci sono un insieme di fattori che incidono direttamente sulla domanda di abitazioni. Per il momento dobbiamo attendere le indicazioni che avremo nel prossimo futuro dall’Agenzia delle Entrate, con i loro monitoraggi abituali, per quanto riguarda soprattutto la compravendita delle abitazioni. Perchè è il sottostante che poi rileva in misura significativa. In questo momento permane una dinamica di finanziamenti alle famiglie che è comunque sicuramente positiva, come confermato dall’ultimo dato disponibile a dicembre 2022 dei prestiti alle famiglie (+3,3% su base annua)”. 


Costo del denaro alle stelle, i nuovi mutui sono i più cari dal 2013

Descalzi: “Con la fusione a confinamento magnetico avremo energia a bassissimo costo”

AGI – Il futuro è qui: in termini energetici “il 2030 è praticamente dopodomani”, esordisce l’amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi. E mentre si discute di sicurezza delle fonti di approvvigionamento, di cambiamento climatico e di decarbonizzazione, la svolta potrebbe essere davvero dietro l’angolo. Ci credono gli studiosi del MIT, ci credono i rappresentanti del Congresso, ci credono magnati del calibro di Bill Gates e ci crede l’Eni che è il principale azionista di questo innovativo progetto messo a punto dal Commonwealth Fusion System e che riguarda la realizzazione entro il 2030 di un reattore pilota per produrre energia pulita a bassissimo costo.

“Abbiamo lavorato con il team del CFS negli ultimi anni perché abbiamo riconosciuto che il loro lavoro è in grado di trasformare il panorama energetico”, ha spiegato Descalzi alla stampa italiana al termine della sua missione negli Stati Uniti dove la tappa più importante è stata proprio la visita allo stabilimento alle porte di Boston. “È una vera rivoluzione”, ha detto senza mezzi termini il manager, spiegando in parole semplici il carattere innovativo del progetto.

Si parla di fusione che, al contrario della fissione, è un processo più pulito e più sicuro perché non produce scorie pericolose: si combinano gli isotopi dell’idrogeno che si fondono a temperature elevatissime (circa dieci volte quella del Sole) e che vanno poi confinati tramite campi magnetici. Dal vapore si produce energia: “È quindi un’energia che scaturisce dall’acqua, anche pesante, e per questo motivo non comporta la necessità di disporre di un fabbisogno idrico ingente“, ha proseguito Descalzi.

In un momento in cui le principali economie del Pianeta stanno facendo i conti, dal punto di vista energetico, con gli effetti del conflitto ucraino, questo modo di fare energia pulita potrebbe determinare nuovi equilibri geopolitici. “Assistiamo ora a rapporti di forza tra chi produce energia e chi non ce l’ha – ha spiegato Descalzi – ma potrebbero essere presto superati perché tutti i Paesi potrebbero produrre elettricità a bassissimo costo grazie al fatto che hanno a disposizione acqua pesante a volontà”.

Nel frattempo che l’impianto diventi operativo, Descalzi ha spiegato che si sta lavorando a un prototipo pilota in scala già per il 2025. L’iniziativa negli States assume ancora più significato nel momento attuale: la guerra ucraina sta infatti facendo capire alle grandi potenze della Terra il valore strategico della sicurezza energetica, mentre la corsa dei prezzi impone nuove decisioni a tutela dei consumatori e delle imprese.

A questo proposito, Descalzi ha ribadito la necessità di imporre a livello europeo un tetto al prezzo del gas. “Senza una valida ragione, abbiamo ora un prezzo del gas che è più alto di 6-7 volte rispetto a quello che avevamo nel 2019”, ha sottolineato il manager precisando che in effetti “non c’è un problema di flussi, ma di prezzi. Per questo bisogna intervenire”.

Il prossimo inverno che potrebbe quindi “non essere facile”, si porrà un problema “non di flussi, ma di prezzi in quanto i volumi ci saranno ma le bollette potrebbero essere pesanti per le aziende e per i consumatori a causa delle tensioni speculative presenti nel mercato”.

Per questo motivo, “il governo Draghi fa bene a insistere”. Per quanto riguarda le fonti di approvvigionamento, l’ad di Eni ha ricordato che è raggiungibile l’obiettivo di non dipendere dal gas russo e che sarà possibile ottenere questo risultato entro il 2025. “Nei paesi dove abbiamo investito, abbiamo prodotto gas e quel gas è nostro”, ha sottolineato spiegando che si tratta ora di portare tali scorte in Europa e soprattutto in Italia che “ha la priorità”.

Anche gli investitori si rendono conto che la sicurezza energetica è un tema fondamentale: ad esempio, ha sottolineato Descalzi, “l’attenzione degli azionisti americani è tutta concentrata su questo punto mentre fino al giugno 2021, il 90% delle loro domande riguardavano invece la transizione. C’è stato una U-turn, un’inversione a U. Ci chiedono se riusciamo a fare investimenti e se abbiamo riserve ma noi – ha concluso – siamo visti bene perché abbiamo fatto un sacco di esplorazioni e abbiamo trovato molto“. Ma ora è tempo di produrre energia con altre innovative tecnologie. Con la mente rivolta a Boston, appunto.


Descalzi: “Con la fusione a confinamento magnetico avremo energia a bassissimo costo”

Si parla di un’accisa mobile per frenare il costo del carburante

AGI – Il governo “sta valutando l’ipotesi di praticare sui carburanti un’accisa mobile” “al fine di contenere l’impatto sui consumatori finali” dell’aumento dei prezzi legato alla guerra in Ucraina. Lo ha sottolineato il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, nel corso dell’informativa nell’Aula del Senato. “Poiché c’è stato un maggior gettito Iva questo potrebbe essere utilizzato per ridurre le accise e ottenere una riduzione del prezzo alla pompa”, ha spiegato Cingolani. Ma, ha aggiunto “sappiamo che operare sui carburanti è molto complesso”.

Come funziona l’accisa mobile

La misura semplifica (ma soprattutto rende vincolante nella sua applicazione) il meccanismo di sterilizzazione dei perversi effetti moltiplicatori degli aumenti del prezzo industriale dei carburanti sull’Iva, che insiste in percentuale fissa sulla sommatoria tra prezzo industriale e accisa. È un meccanismo già introdotto con la legge Finanziaria del 2008 ma rimasto finora inapplicato.

Tre anni per fare a meno del gas russo

“Nel lungo termine, a partire dal prossimo inverno, sarebbe necessario sostituire completamente 30 bcm di gas russo con altre fonti. Sebbene questo sia possibile in un orizzonte minimo di 3 anni, tramite misure strutturali, per almeno i prossimi due inverni sarebbe complesso assicurare tutte le forniture al sistema italiano” ha sottolineato Cingolani.

“In questo momento il flusso di gas dalla Russia è il più alto mai registrato. La fornitura è assolutamente costante in tutta Europa, l’Europa sta continuando ad acquistare gas, la fornitura continua”, ha assicurato il ministro. “Se la materia è la stessa non e possibile mi costi cinque volte di più perché stiamo mettendo in ginocchio gli operatori. Certo, non c’è qualcuno in Italia che sta facendo una cosa sbagliata, il problema è di questi hub che non lavorano sulla materia prodotta ma scambiando certificati. È solo una grande speculazione da parte di certi hub. È un problema molto serio che non sta mettendo in ginocchio solo l’Italia ma tutti Paesi europei”, perché “a parità di gas oggi pago un euro mezzo a metro cubo mentre un anno fa 30 cent, e questo sta mettendo tutti in ginocchio”, ha aggiunto il ministro.

“Si è sollevata una riflessione sul fatto che l’Europa continua a comprare gas dalla Russia, la fornitura è continua e si parla di pagamenti da oltre un miliardo di euro giorno, che in periodo di guerra ha implicazioni che vanno oltre il settore energetico. Il price cap sul gas uguale per tutta l’Europa sarebbe una grande notizia”.

Per ridurre di 20 miliardi di metri cubi le importazione di gas dalla Russia nel breve medio termine il governo valuta “un incremento fino a 9 miliardi di metri cubi l’anno”. “Per far questo – ha spiegato il ministro – è indispensabile un accordo con il Governo algerino per ottenere forniture aggiuntive via gasdotto all’Italia al posto dell’attuale export di Gnl verso altri mercati. La missione del Ministro degli esteri in Algeria del 28 febbraio ha esplorato con successo tale possibilità, prevedendo anche la possibilità di future importazioni addizionali di gas a fronte di nuovi investimenti in attività di produzione di gas nel territorio algerino”.

Il contingentamento della domanda

Il Governo “potrebbe intervenire anche con misure di contingentamento della domanda e di accelerazione dell’efficientamento energetica” ha sottolineato il ministro della Transizione ecologica, “sono ipotizzabili misure di flessibilità sui consumi di gas (ad esempio l’interrompibilità nel settore industriale, che però può agire per brevi periodi settimanali in caso di picchi della domanda) e sui consumi di gas del settore termoelettrico (dove pure esistono misure di riduzione del carico in modo controllato) e misure di contenimento dei consumi negli altri settori”.

Inoltre, ha proseguito Cingolani, “si potrebbe avere un “incremento delle importazioni di energia elettrica dal Nord Europa, per ridurre il consumo di gas del parco termoelettrico italiano”. “C’è una riflessione avviata su possibili misure strutturali per eliminare la dipendenza totale di importazioni dalla Russia” (in linea con il pacchetto europeo RePower Eu che è in corso di finalizzazione) e tra queste “c’è la possibilità di un raddoppio della capacità Tap“.

Il nodo dei rigassificatori

Le misure strutturali che il governo sta valutando, ha spiegato Cingolani, comprendono: “nuova capacità di rigassificazione su unità galleggianti ancorate in prossimità di porti, realizzabile in 12-18 mesi (dall’ottenimento delle autorizzazioni) per circa 16-24 miliardi di metri cubi. Tale soluzione è più rapida e flessibile rispetto a terminali onshore, e di minore costo per il sistema; nuova capacità di rigassificazione onshore. In particolare, sono anche realizzabili progetti per due terminali per complessivi circa 20 bcm anno di capacità, già autorizzati, in circa 36-48 mesi; raddoppio della capacità Tap. Questo ci permetterebbe di incrementare di circa 10 miliardi di metri cubi all’anno i flussi. Per far questo, sono necessari circa 45 mesi per incremento dei primi 2 bcm (tramite interventi in Albania) e circa 65 mesi per l’incremento di ulteriori 8 bcm (ulteriori interventi in Albania e Grecia e alcuni interventi sulla rete italiana)”. 

 


Si parla di un’accisa mobile per frenare il costo del carburante

Costo del lavoro, in Italia tra i più alti dei paesi Ocse 

AGI – Tasse sul lavoro in Italia sono in ribasso, ma sono ancora troppo alte tra i paesi Ocse: tra il 2019 e il 2020, il cuneo fiscale arretra dal 47,9% al 46%, attestandosi di 11,4 punti sopra la media Ocse, che è del 34,6% (dal 35% del 2019).

Una quota che colloca il nostro paese al quarto posto nell’area, dietro a Belgio, Germania e Austria, a pari merito con la Francia. E’ quanto si legge nel rapporto ‘Taxing Wages‘ dell’Ocse.

Più nel dettaglio, il cuneo fiscale in Italia è sceso di 1,91 punti percentuali tra il 2019 e il 2020, attestandosi al 46% per un lavoratore medio single senza figli.

Si tratta del quarto cuneo fiscale più alto tra i 34 paesi dell’area Ocse, dopo il Belgio (51,5%, la Germania (49%) e l‘Austria (47,3%), mentre la Francia è anch’essa al 46%.

In fondo alla classifica troviamo il Cile, con un cuneo fiscale al 7%.  La media dell’area Ocse è in calo dello 0,39% al 34,6%

Tornando all’Italia, il costo del lavoro in Italia è di circa 49.000 mila euro per ogni singolo lavoratore, sopra la media dell’area Ocse (quasi 45.000 mila euro), al diciannovesimo posto tra i paesi più avanzati.

Dal rapporto emerge anche che in Italia il salario medio lordo è di oltre 37 mila euro (37.178 euro), al di sotto di quello medio Ocse pari a 39.188 euro.

Inoltre, i salari lordi italiani sono tassati del 29% contro il 24,9% della media Ocse. Solo nel 2020, il costo del lavoro in Italia si attesta a 48.919 euro l’anno per ogni lavoratore single senza figli, considerando le tasse sul reddito e i contributi delle imprese e dei lavoratori. Si tratta del diciannovesimo costo del lavoro più alto tra i 34 paesi dell’area Ocse.

Inoltre, in Italia il peso maggiore del costo del lavoro è sulle spalle delle imprese, i cui contributi rappresentano il 24% del totale, mentre i contributi dei lavoratori pesano per il 7,2% e la tassazione sul reddito per il 14,8%.


Costo del lavoro, in Italia tra i più alti dei paesi Ocse 

Il costo per i trolley in cabina introdotto da Ryanair vale anche sui biglietti già emessi

Una compagnia low cost sempre meno low cost, Ryanair ha annunciato che dal primo giorno di novembre entrerà in vigore la loro nuova politica sui bagagli. La situazione per chi vorrà viaggiare a prezzi stracciati (o a prezzi vagamente più onesti rispetto a quelli esorbitanti di altre compagnie, bisogna vedere da che punto di vista viene vista la vicenda) sarà la seguente: se si vorrà portare a bordo un secondo bagaglio, più grande rispetto a quello a mano, ormai tarato sulla grandezza dello spazio sottostante il sedile, si avranno due possibilità: o acquistare il classico imbarco prioritario che prevede un sovrapprezzo di 6-8 euro, del quale però possono usufruire 95 passeggeri sui 189 totali; oppure far viaggiare la valigia nella stiva pagando in più tra gli 8 e i 10 euro.

Il tutto non farà piacere ma rientra nelle facoltà dell’azienda scegliere i prezzi dei propri voli, se non fosse che la nuova politica riguarda anche chi ha già prenotato un biglietto per aerei che decollano dopo il primo novembre e che quindi si sono visti recapitare tramite email l’avviso del prezzo aumentato di un biglietto già acquistato, ben prima dell’annuncio della compagnia. Una nuova policy applicata retroattivamente. Una decisione che chiaramente sta facendo infuriare gli utenti che stanno portando avanti una protesta serrata tra i commenti ai post della compagnia su Facebook. Una compagnia che parlando con il Corriere della Sera si difende così: “La novità consentirà di eliminare i ritardi e ha costi più bassi per i bagagli in stiva”, spiega un portavoce di Ryanair. “La metà dei passeggeri salirà con la doppia valigia visto che avrà acquistato il “Priority boarding”.

E a chi ipotizza ricavi ulteriori l’azienda replica che “dal momento che per l’oggetto in stiva si pagherà di meno — da 25 euro per quello da venti chili a 8 euro per quello da dieci — i ricavi da questa voce caleranno”. Un’analisi del Corriere sui bilanci stima invece che gli introiti aggiuntivi si aggireranno sui 500 milioni di euro l’anno nel 2019-2020. Sul tema entra in gioco nuovamente una vecchia conoscenza di Ryanair, l’Agcm (Autorità garante della concorrenza e del mercato), contro la quale la compagnia si era già scontrata a gennaio quando aveva introdotto una nuova policy, sempre sui secondi bagagli più grandi, che sarebbero finiti in stiva gratuitamente per tutti quelli non in possesso di un biglietto prioritario. Anche quel provvedimento venne applicato in maniera retroattiva, costringendo in molti ad integrare un biglietto già comprato con il sovrapprezzo della Priority. In quel caso, dopo numerosi ricorsi, la compagnia, per evitare di pagare sanzioni, ha deciso di rimborsare il costo del supplemento ad un tot di passeggeri, che dovrebbero aggirarsi tra le 30 e le 50 mila unità, la cifra non è mai stata confermata.

Ora una nuova scelta altamente impopolare potrebbe di nuovo mettere alle strette Ryanair e da aspettare c’è solo la reazione delle autorità, dopo quella evidentemente arrabbiata dei loro utenti.

Agi News

Produttività e costo del lavoro: com’è messa davvero l’Italia

Il candidato del centrodestra alla Regione Lazio Stefano Parisi, ospite de L’Aria che tira, lo scorso 29 gennaio ha dichiarato (minuto -34.50): “Che cosa è successo in Italia? È successo che negli ultimi vent’anni siamo il Paese in cui la produttività, cioè quanto il lavoro produce, è cresciuta meno di tutti gli altri Paesi europei; il costo del lavoro è il più alto, i lavoratori prendono pochi soldi in tasca e paghiamo molto alto il costo del lavoro per pagare contributi e tasse”.

Le due affermazioni contenute nella dichiarazione sono una corretta e una errata.

La produttività

La produttività, che come spiega Parisi è “quanto il lavoro produce” o meglio l’ammontare di beni e servizi prodotti in un dato periodo, negli ultimi vent’anni ha visto l’Italia fare peggio di chiunque altro in Europa.

Lo certifica Eurostat, il servizio statistico della Commissione europea, in questa tabella. Fatto 100 la produttività del 2010 in ogni singolo Paese, possiamo vedere quanto è cresciuta da allora fino al 2016 (ultimo anno per cui ci sono dati disponibili) e quanto era cresciuta dal 1996 al 2010.

L’Italia nel 1996 era già al 99,9 della produttività (fatta a 100) del 2010. Nel 2016 siamo addirittura scesi al 97,9.

Nessun altro Paese europeo vede il proprio dato riferito al 2016 inferiore a 100, tranne la Grecia (che segna 94,1). Anche il Paese ellenico, tuttavia, nell’arco dei vent’anni ha fatto meglio dell’Italia. Infatti tra il 1996 e il 2010 la produttività greca era cresciuta notevolmente. Fatta a 100 la produttività raggiunta nel 2010, nel 1996 la Grecia era all’82,3.

Siamo dunque ufficialmente il Paese con la peggior prestazione in termini di crescita della produttività. Le altri grandi economie del continente, che dunque come l’Italia e a differenza dei Paesi di recente sviluppo economico partivano da una situazione di produttività già avanzata, fanno comunque tutte meglio di noi.

La Germania era al 90,6 nel 1996 (sempre fatto 100 nel 2010) e nel 2016 è al 104. La Francia era all’87,8 nel 1996 e nel 2016 è al 103,4. La Spagna era al 94,4 nel 1996 e venti anni dopo è al 105,8. Il Regno Unito era all’83,9 nel 1996 e nel 2016 è al 104,1.

Dunque la prima affermazione di Parisi è corretta.

Il costo del lavoro

Sul costo del lavoro invece Parisi si sbaglia, se guardiamo ai valori assoluti. In Italia, sempre secondo Eurostat, nel 2016 il costo medio del lavoro era di 27,8 euro all’ora.

Hanno un costo più alto ben dieci Paesi su 28: Danimarca (42 €/h), Belgio (39,2 €/h), Germania (33 €/h), Irlanda (30,4 €/h), Francia (35,6€/h), Lussemburgo (36,6 €/h), Olanda (33,3 €/h), Austria (32,7 €/h), Finlandia (33,2 €/h) e Svezia (38 €/h).

Anche la media della UE a 28 è superiore, a 29,8 €/h.

La parte “non” di stipendio

Parisi comunque sottolinea che il problema del costo del lavoro non è tanto quanto guadagnano i lavoratori, anzi, ma il peso di “contributi e tasse”.

Ancora su Eurostat possiamo verificare che in Italia la parte “non di stipendio” del costo del lavoro corrisponde percentualmente – in media – al 27,4%. Siamo al di sopra della media della Ue a 28, che è del 26%, ma non siamo i peggiori in Europa.

Hanno una percentuale “non di stipendio” più alta la Francia (33,2%), la Svezia (32,5%), la Lituania (27,8%) e il Belgio (27,5%).

Dunque anche prendendo in considerazione questa ulteriore variabile, la seconda affermazione di Parisi resta scorretta.

Conclusione

Parisi ha ragione sulla crescita della produttività in Italia, che è in effetti stata la peggiore in Europa negli ultimi vent’anni (e anche negli ultimi sei fa peggio di noi soltanto la Grecia).

Il candidato di centrodestra alla regione Lazio sbaglia tuttavia sul costo del lavoro: in Italia non è il più alto in Europa, anzi è al di sotto della media Ue. Anche la parte “non di stipendio” del costo del lavoro in Italia, pur al di sopra della media Ue, non è un record.

 

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Controverso

"Negli ultimi vent’anni siamo il Paese in cui la produttività, cioè quanto il lavoro produce, è cresciuta meno di tutti gli altri Paesi europei; il costo del lavoro è il più alto, i lavoratori prendono pochi soldi in tasca e paghiamo molto alto il costo del lavoro per pagare contributi e tasse"

L'aria che tira
lunedì 29 gennaio 2018

 

Se avete delle frasi o dei discorsi che volete sottoporre al nostro fact-checking, scrivete a dir@agi.it

Agi News

Non solo Fed, chi decide davvero il costo del denaro

Roma – Come previsto, la Federal Reserve ha aumentato i tassi di interesse di un quarto di punto, portandoli allo 0,75%. La presidente della banca centrale Usa, Janet Yellen, ha poi annunciato in conferenza stampa che nel 2017 dovrebbero essere effettuate altre tre strette, che porterebbero il costo del denaro all'1,5% alla fine del prossimo anno. Si tratta di un attestato di fiducia nei confronti dell'economia americana, che continua a espandersi a ritmi che molti Paesi europei possono solo sognarsi e gode di un mercato del lavoro in salute robusta.

Il discorso di Janet Yellen

Si tratta del secondo rialzo dopo quello del dicembre 2015, che aveva posto fine alla lunga epoca di tassi prossimi allo zero avviata dal predecessore di Yellen, Ben Bernanke, per risollevare la maggiore economia mondiale dalle secche di una devastante crisi finanziaria. Le banche centrali non hanno però la bacchetta magica e, soprattutto in un contesto come quello americano, con regolamentazioni molto meno rigide rispetto a quelle europee, le banche e le forze del mercato hanno un ruolo tutt'altro che secondario nello stabilire il costo del denaro effettivo.

Il Fomc, cuore direzionale della Fed

Ad assumere in concreto le decisioni sulla politica monetaria Usa è il Federal Open Market Committee (Fomc), che si riunisce otto volte all'anno a intervalli di circa sei settimane da un direttivo all'altro. Il Fomc è composto da dodici membri: i sette componenti del board della Federal Reserve e cinque tra i dodici presidenti delle banche che sovraintendono ai rispettivi distretti federali. A parte il presidente della Federal Reserve di New York, che ha sempre diritto di voto, gli altri quattro hanno un mandato di un anno, a rotazione. I sette restanti presidenti distrettuali partecipano comunque alle riunioni del Fomc, pur senza poterne votare le decisioni, che vengono prese a maggioranza.

Il tasso nominale non è quello effettivo

Il principale strumento di politica monetaria della Federal Reserve è il 'Fed Fund Rate', ovvero il tasso di interesse medio al quale le banche e gli altri operatori finanziari statunitensi si prestano denaro a vicenda nelle operazioni 'overnight'. Ciò significa che non è la banca centrale ma il mercato a stabilire il tasso di interesse effettivo: la Fed ne fissa uno di riferimento e poi interviene sul mercato, drenando o iniettando liquidità, per assicurarsi che il tasso effettivo corrisponda il più possibile a quello nominale. Proprio per questo i 'Fed Funds Rate' non corrispondono a un numero secco ma a una 'forchetta'. Tecnicamente, nelle scorse ore la Fed non ha portato il costo del denaro dallo 0,5% allo 0,75% ma da una forchetta tra lo 0,25% e lo 0,5% a una tra lo 0,5% e lo 0,75%.

Le 'Repo' e le 'Reverse Repo'

Come detto, per assicurare che il tasso di interesse sul mercato corrisponda il più possibile a quello nominale deciso dal Fomc, la Federal Reserve interviene sul mercato con operazioni che hanno lo scopo di aumentare ('Repo') o ridurre ('Reverse Repo') la liquidità in circolazione nel sistema. Nelle operazioni di 'Repo', attuate quando si abbassa il 'Fed Funds Rate', gli istituti di credito concorrono in un'asta per aggiudicarsi prestiti dalla banca centrale. Nel caso di un rialzo dei tassi si effettua, invece, una 'Reverse Repo', ovvero è la banca centrale che chiede soldi in prestito agli istituti, che concorrono sul tasso al quale offrirli alla banca centrale ricevendo un collaterale, di solito un titolo di Stato. E' quindi evidente quanto il mercato abbia un ruolo fondamentale nel corretto funzionamento della politica monetaria americana. Lo scorso dicembre la Fed aveva fissato allo 0,25% il tasso di riferimento per le operazioni di 'Reverse Repo' e aveva messo a disposizione come collaterali titoli del Tesoro per circa 2 mila miliardi di dollari.

Lo 'Ioer' e le riserve in eccesso

Un altro importante strumento che la Federal Reserve usa per regolare la quantità di liquidi in circolazione nel sistema (che influenza il costo del denaro in virtù del gioco della domanda e dell'offerta) è lo 'Ioer', ovvero 'Interest Rate on Excess Reserve', il tasso di interesse sulle riserve in eccesso, che fu portato allo 0,5% lo scorso dicembre. Si tratta del rendimento che le banche pagano per "parcheggiare" le riserve in eccesso (ovvero superiori al minimo stabilito dalle norme) presso la Federal Reserve Bank del loro distretto. Sulla carta ciò dovrebbe garantire che le banche prestino denaro a un tasso almeno superiore allo 'Ioer'. Un aumento dello 'Ioer' ha pertanto lo scopo di incoraggiare le banche a prestare denaro piuttosto che a tenerlo nelle casse della banca centrale.

Una pancia piena di titoli tossici

L'azione della Fed non si limita al solo orientamento del costo del denaro. Nel periodo immediatamente successivo all'esplosione della crisi dei mutui, innescata dal fallimento di Lehman Brothers nel settembre 2008, la banca centrale incamerò un'enorme quantità di quei titoli derivati, spesso 'spazzatura' (non importa quanto bene fossero valutati dalle agenzie di rating), che avevano causato il terremoto sui mercati, rastrellandoli dai bilanci delle banche. Vale quindi la pena di sottolineare la frasetta che da anni conclude i comunicati della Fed: "Verrà mantenuta la politica attuale di reinvestire i pagamenti delle obbligazioni e dei titoli garantiti da mutui in attività analoghe". Tradotto in soldoni: l'enorme quantità di bond societari, cartolarizzazioni e titoli tossici finiti in pancia alla Fed ai tempi dei salvataggi bancari è destinata a restare dov'è ancora per parecchio tempo.

 

Per approfondire:

Agi News