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Come è andato il secondo giorno di Di Maio in Cina

Secondo giorno di visita a Chengdu, nel sud-ovest della Cina, per Luigi Di Maio. Il vicepremier e ministro per il Lavoro e lo Sviluppo Economico ha inaugurato il Padiglione Italia alla Western China International Fair, dove l'Italia è Paese ospite d'onore. Di Maio era accompagnato dal vice premier cinese, Hu Chunhua. "Per me è stato un grande onore e un grande orgoglio essere qui a rappresentare il nostro Paese", ha scritto Di Maio su Instagram.

La tappa di Di Maio a Chengdu, nella provincia del Sichuan, è stata anche l'occasione per sottolineare il valore "strategico" della relazione bilaterale. È attesa nelle prossime ore la firma dell'accordo sino-italiano sugli investimenti nei Paesi terzi, e in particolare quelli africani.  Si tratta di un accordo sui cui la diplomazia italiana, guidata dall'ambasciatore italiano a Pechino Ettore Sequi, lavorava da tempo e che il sottosegretario allo Sviluppo economico, Michele Geraci, aveva annunciato al termine della sua prima missione esplorativa in Cina

L'intesa, ha aggiunto Di Maio, "ci eleva al ruolo di partner privilegiato della Cina", con cui Di Maio punta a rafforzare i rapporti economici con un altro accordo, che ritiene possibile entro fine anno, sull'iniziativa Belt and Road (Bri) di connessione infrastrutturale euro-asiatica, lanciato dal presidente cinese, Xi Jinping, nel 2013.

Cosa scrivono i giornali cinesi sulla visita di Di Maio

La stampa cinese ha colto il messaggio. Il Quotidiano del Popolo, massimo organo del Partito Comunista Cinese, dedica alla visita un articolo sul sito online dal titolo: “Peng Qinghua incontra Di Maio, vice premier italiano. Una testimonianza congiunta per la firma degli accordi di cooperazione tra Sichuan e Italia”. L’articolo riporta fedelmente le dichiarazioni del vice premier alla stampa, e sottolinea l’importanza degli accordi bilaterali Italia-Sichuan, che Di Maio ha firmato con Peng, per la provincia sud-occidentale che Pechino ha trasformato negli ultimi anni in un hub strategico con l’obiettivo di rivitalizzare l’economia dell’Ovest della Cina, meno sviluppato rispetto alla parte orientale, e di velocizzare i traffici delle merci ferroviari e fluviali nell’ambito del mastodontico progetto Belt and Road.

La visita di Di Maio campeggia nelle colonne della stampa locale, a partire dal Sichuan Daily. Segno che la leadership ha apprezzato che la prima visita istituzionale del vicepremier italiano abbia toccato il cuore pulsante del nuovo sviluppo cinese.

Il Daily Economic News titola invece: “Vice premier italiano: auspica una proficua collaborazione tra Italia e Cina e vuole facilitare l’ingresso delle merci nei rispettivi mercati”, un articolo che coglie il senso del messaggio del governo italiano, che per bocca di Maio ha sottolineato come prima della firma del Memorandum of Understanding per la cooperazione sulla Via della Seta debbano essere risolte "alcune questioni per noi dirimenti", tra cui l'abbattimento delle barriere non tariffarie per favorire le esportazioni, soprattutto dei prodotti dell'agro-alimentare, e le possibilità di investimento sia nei porti italiani che nella tecnologia.

Leggi anche: Di Maio è andato in Cina a collegare l’Italia alla Via della Seta

Un rapporto svela i commerci tra Italia e i Paesi Bri

Dati confortanti sull’interscambio commerciale tra l’Italia e i Paesi che si stendono lungo la Via della Seta (in tutto 53), arrivano dal rapporto Nomisma – Centro Studi sulla Cina Contemporanea "L'Italia e il progetto Bri, le opportunità e le priorità del sistema paese", cofinanziato dal ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale e presentato presso la Camera dei deputati. Nel decennio compreso tra 2006 e 2016 il commercio intra-paesi Bri è aumentato dell'84% tra i paesi dell'area e del 17,6% tra l'Italia e l'area Bri.

La Cina movimenta il 23% degli scambi commerciali che avvengono nell'area. Al secondo posto per rilevanza si trovano India e Singapore, con una percentuale di scambio tre volte inferiore alla Cina (7%). La Bri, emerge dallo studio, ha un ruolo fondamentale per il commercio estero dei molti piccoli paesi che ne fanno parte. Ad esempio l'export del Bhutan è esposto per il 96% verso l'area, seguito dall'Afghanistan (92%), dal Laos (91%), Tajikistan (89%), Nepal (88%), Myanmar (81%); anche i paesi che commerciano meno vantano quote comprese tra il 40 e 30%.

Il rapporto concentra lo sguardo sull'Italia, e rileva che il deficit di bilancio commerciale verso i Paesi Bri si è ridotto nel tempo dagli circa 50 miliardi di dollari del 2011 agli 11 miliardi del 2016; ciò è in gran parte dovuto al calo del costo dei prodotti energetici. Infatti all'interno dell'area Bri si trovano molti Paesi Opec e la Russia.

Tra le prime categorie di prodotto esportate dall'Italia vi sono macchinari e apparecchi (25%), prodotti tessili, abbigliamento, pelli e accessori (12%), metalli di base e prodotti in metallo (10,9%), mentre l'Italia importa dai paesi Bri molti beni a domanda rigida come commodities, prodotti agricoli, metalli. Anche se la bilancia è in deficit, secondo quanto sottolineato nella ricerca, "un'intensificazione degli scambi sarebbe da considerarsi a favore dell'Italia".

I paesi dell'area Bri in cui l'Italia ha maggiore penetrazione sono quelli "europei" (che rappresentano il 53% dell'export italiano), seguiti dalla Cina verso la quale converge il 10% dell'export italiano.

Prossima tappa Shanghai

La firma del MoU sancirebbe l'ingresso ufficiale dell'Italia nella Nuova Via Della Seta. Nel frattempo, Di Maio ha confermato che sarà a Shanghai a novembre prossimo per la prima edizione della China International Import Expo, su cui il governo cinese punta moltissimo e alla quale è previsto anche un intervento dello stesso presidente cinese, Xi Jinping, in apertura.

Le opportunità di cooperazione con il Paese asiatico passano soprattutto, per Di Maio, attraverso le relazioni tra governi. "I nostri settori di mercato reclamano una maggiore presenza del governo nei rapporti con il governo cinese per rafforzare ulteriormente sia le partnership economiche sia quelle legate all'ambiente e alla cultura", ha dichiarato il vice premier, "ed è per questo che investiremo sempre di più nei rapporti g-to-g", ha assicurato il vicepremier. 

Ha collaborato Wang Jing

Leggi anche: Non solo guerra agli scafisti sui migranti: tutti i piani strategici dell'Italia in Africa

 

Agi News

Come funzionano i nuovi assegni familiari

Aggiornamento in lieve rialzo per le soglie di accesso che determinano il diritto all’assegno familiare fino al 30 giugno 2019. Il consueto ritocco da parte del ministero dell’Economia, comunicato con una circolare a maggio, sposta la soglia di povertà ai nuclei familiari con Isee fino a 14.541 euro annui, dai 14.383 stabiliti fino al 30 giugno di quest’anno. Un lieve rialzo è stato previsto per le famiglie con due figli, che potranno ottenere un assegno di 258 euro, mentre rimane invariata la situazione per le famiglie con un figlio unico, che hanno diritto a un assegno di 137,50 euro.

I nuovi importi, stabiliti dal Mef a fine giugno, “tengono conto della variazione Istat dell’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati e dell’aumento dell’inflazione, che nell’ultimo anno è cresciuta dell’1,1 per cento”, come spiega Repubblica. Sono stati previsti anche bonus per condizioni di particolare difficoltà, come le famiglie con un solo genitore o con più figli. Alle famiglie con un figlio disabile (anche sopra i diciotto anni), spetta invece un assegno massimo di 168 euro, entro un Isee di 25.660 euro l’anno.

Come indicato sul sito dell’Inps, dal quale è possibile scaricare i moduli per richiedere l’assegno familiare, queste sono le categorie che ne hanno diritto:

  • lavoratori dipendenti;
  • lavoratori dipendenti agricoli;
  • lavoratori domestici;
  • lavoratori iscritti alla Gestione Separata;
  • titolari di pensione a carico del Fondo Pensioni Lavoratori Dipendenti, dei fondi speciali ed ex ENPALS;
  • titolari di prestazioni previdenziali;
  • lavoratori in altre situazioni di pagamento diretto.

L’importo dell’assegno è calcolato in base alla tipologia del nucleo familiare, del numero dei componenti e del reddito complessivo del nucleo.

Il reddito complessivo del nucleo familiare deve essere composto, per almeno il 70 per cento, da reddito derivante da lavoro dipendente e assimilato.

L'assegno viene pagato dal datore di lavoro, per conto dell'INPS, ai lavoratori dipendenti in attività, in occasione del pagamento della retribuzione. In alternativa, è direttamente l’Inps che paga l’assegno se il richiedente è:

  • addetto ai servizi domestici;
  • iscritto alla Gestione Separata;
  • operaio agricolo dipendente a tempo determinato;
  • lavoratore di ditte cessate o fallite;
  • beneficiario di altre prestazioni previdenziali.

Come fare domanda

Se il richiedente svolge attività lavorativa dipendente, la domanda va presentata al proprio datore di lavoro. In tal caso, il datore di lavoro deve corrispondere l'assegno per il periodo di lavoro prestato alle proprie dipendenze, anche se la richiesta è stata inoltrata dopo la risoluzione del rapporto, con un termine di prescrizione di cinque anni.

Nei casi di inclusione di componenti nel nucleo familiare (come genitori separati, componenti maggiorenni inabili, etc.) o ai fini dell’aumento dei limiti reddituali (come nel caso di componente minorenne inabile) è necessario allegare al modulo l’Autorizzazione Anf (Assegno nucleo familiare) precedentemente richiesta all’Inps.

Se il richiedente è addetto ai servizi domestici, operaio agricolo dipendente a tempo determinato, lavoratore iscritto alla gestione separata o ha diritto agli assegni come beneficiario di altre prestazioni previdenziali, la domanda va presentata online all’Inps attraverso il servizio dedicato. Nei casi di inclusione di componenti nel nucleo familiare (come genitori separati, componenti maggiorenni inabili, etc.) o ai fini dell’aumento dei limiti reddituali (componente minorenne inabile) è necessario allegare la prevista documentazione alla domanda telematica di prestazione Anf.

Agi News

Dai voucher ai contratti a termine: come cambia il decreto dignità

In arrivo norme per salvare i precari della scuola e rafforzare i centri per l'impiego e marcia indietro sulle sigarette elettroniche.

Sono alcune delle modifiche al dl Dignità su cui la maggioranza avrebbe già trovato un'intesa. Da lunedì le commissioni Finanze e Lavoro della Camera passeranno al vaglio i circa 900 emendamenti depositati ma l'attenzione si concentrerà su un pacchetto di qualche decina di proposte concordate tra M5s e Lega, a partire da un regime transitorio per i contratti a termine nel quale, salva la durata massima di 24 mesi e il numero totale di proroghe ammissibili (quattro), le imprese possano rinnovare oltre i 12 mesi senza la necessaria indicazione della causale.

Arrivano gli incentivi per le assunzioni

Intesa raggiunta anche sulla proroga di due anni del bonus per le assunzioni under 35 e sui voucher estesi ad agricoltura, turismo ed enti locali.

Saranno tracciabili, digitali ma anche cartacei, limitati a studenti, pensionati e disoccupati e secondo i tetti annui esistenti. "Abbiamo pronto un emendamento sui voucher e credo che nascerà un decreto Dignita' 2.0", ha annunciato il ministro del Lavoro, Luigi Di Maio, parlando a Catania. "Il primo – ha detto – è relativo agli sgravi per le assunzioni a tempo indeterminato dei giovani, soprattutto nel sud Italia. Questo vuol dire che all'interno del decreto Dignità non ci sarà solo una stretta per i contratti a tempo determinato, ma ci saranno incentivi per l'assunzione dei giovani". 

La norma sui voucher, ha spiegato il ministro, "per come l'abbiamo scritta non punta ad alcuno sfruttamento ma devono essere utilizzati solo in determinati periodo in cui c'è bisogno di un numero di persone più alto. È impensabile che una volta si pagavano con i voucher gli ingegneri, gli avvocati e persino i giornalisti".

Un ramoscello d'ulivo per Confindustria

M5s e Lega convergono anche nella richiesta di rafforzare l'operatività dei centri per l'impiego destinando quota delle assunzioni che le Regioni potranno fare nel triennio 2019-2021. Sarà necessario un accordo fra Stato e Regioni in quanto la funzione è di competenza regionale.

La Lega chiede poi di escludere il periodo di intervallo, il cosiddetto 'stop&go' nel contratto di lavoro a tempo determinato a scopo di somministrazione. Si allenta la stretta sulle delocalizzazioni (le aziende decadono dagli incentivi incassati prima di espatriare solo se il taglio dei posti supera il 50%, non il 10), tra i punti contestati da Confindustria, e si propone di destinare le somme derivanti dalle sanzioni applicate alle imprese per finanziare contratti di sviluppo ai fini della riconversione del sito produttivo in disuso a causa della delocalizzazione dell'attività economica eventualmente anche sostenendo l'acquisizione da parte degli ex dipendenti.

La Lega punta inoltre a rendere più libero Il mercato delle sigarette elettroniche dopo la stretta introdotta con il decreto fiscale lo scorso anno. Sarà nuovamente consentita la vendita online di liquidi con o senza nicotina. Niente più imposta di consumo e verrà dimezzata l'accisa per i tabacchi da inalazione senza combustione (dal 50 al 25%). Il voto sugli emendamenti nelle commissioni prenderà il via martedì e giovedì il provvedimento e' atteso in Aula. Il via libera di Montecitorio dovrebbe arrivare entro il weekend.

Agi News

Perché dovremmo smetterla di trattare i manager della Silicon Valley come eroi

Elon Musk non è Superman e Steve Jobs non era Batman. Sono imprenditori. Geniali, ricchi, prolifici. Ma pur sempre imprenditori. Quindi, per cortesia, basta trattarli come se fossero eroi infallibili. Basta, perché anche i semidei della tecnologia sbagliano. E perché a rimetterci potrebbero essere le loro aziende e i loro azionisti. Un articolo del Wall Street Journal firmato da Christopher Mims sottolinea che “la Silicon Valley ha un problema di responsabilità che affonda le radici dell'idolatria del fondatore-ceo”.

L'ascesa dei super-ceo

L'idea di un super-ceo non è solo una questione di costume. Si traduce in una gestione che affida a un solo uomo poteri sproporzionati rispetto al numero di azioni che possiede. Tradotto: condividono il rischio con gli altri azionisti, ma decidono tutto loro, come in una monarchia. “Trattare l'amministratore delegato come se fosse nato sul pianeta Krypton – sottolinea Mims – porta, tra le altre cose, nella concessione di più soldi e più potere”. In un'impresa normale il ceo dovrebbe rispondere a un consiglio di amministrazione, eletto dagli investitori. In sostanza, c'è qualcuno che può assumere o licenziare un ceo. Formalmente è così anche in Facebook, Tesla, Google, Snap. In realtà no.

È il fondatore, grazie a una struttura che concentra nelle sue mani i poteri decisionali, che si sceglie i membri del consiglio di amministrazione più graditi. Sia chiaro: gli azionisti non sono vittime. Anzi, sono spesso complici inconsapevoli. Perché, come spiega il Wall Street Journal, in questa idolatria collettiva “tutti vogliono un pezzo del mito”. I motivi che hanno portato a questa “crisi di rappresentanza” affondano in un passato molto più antico della Silicon Valley. Ma è in California che esplode. Perché? L'esempio di scuola potrebbe essere quello di Steve Jobs. Un uomo che, tra lupetti neri, jeans e liturgie ha saputo creare il mito di se stesso. Ma anche un imprenditore che ha creato il proprio culto per reagire all'incubo di ogni fondatore: essere estromesso dalla propria azienda, prima del grande ritorno.

Le prime crepe in Silicon Valley

Nel caso di Apple l'uomo solo al comando ha funzionato. Ma, secondo Mims, utilizzare Cupertino come argomentazione a favore della concentrazione dei poteri nelle mani del ceo-supereroe “è ridicolo”. Il motivo di un giudizio così tranciante è semplice: quante Apple esistono al mondo? In altre parole: ci sono società che hanno galoppato anche grazie alla venerazione dei propri amministratori delegati. Ma dovrebbero essere reputate l'eccezione e non buone ragioni per seguirne le orme. Va bene l'ambizione, ma l'altare potrebbe non essere il punto di partenza migliore.

I fondatori ceo non hanno mai avuto così tanto potere come in questo momento. Si trovano in una congiuntura favorevole, fatta di mitologia tecnologica e abbondanti capitali da venture capital che si saldano con meccanismi di governance capaci di trattenere il controllo della propria società. I supereroi diventano così “dittatori a vita” e a ogni costo. Anche se a farne le spese è proprio l'impresa. La domanda, a questo punto, è: fino a quando durerà? Secondo il Wall Street Journal potremmo essere vicini a un punto di rottura.

I super-ceo sarebbero arrivati in vetta e potrebbero presto iniziare la discesa. Gli esempi che indicherebbero le prime crepe non mancano. Gli azionisti di Snap, contrariati dagli scarsi risultati, stanno mettendo in discussione Evan Spiegel. Il caso Cambridge Analytica ha messo sotto pressione Mark Zuckerberg. Il fondatore di Uber Travis Kalanick è stato sostituito da un manager esterno (Dara Khosrowshahi). Theranos è collassata, trascinando con sé Elizabeth Holmes, definita per carisma e look, la “Steve Jobs donna”.

Il caso Tesla

Un'azienda e un episodio raccontano meglio di altri sia la mitologia del ceo sia la nascita di alcune (per ora piccole) crepe. Poche compagnie come Tesla sono il proprio fondatore: Elon Musk. Le sue promesse sono parte del business quanto le portiere e le batterie elettriche. Non a caso, nel momento più grigio della società (con il titolo in calo e la produzione di Model 3 in ritardo) Musk ha puntato su se stesso con un piano decennale di premi in azioni che azzera lo stipendio e àncora il guadagno agli obiettivi finanziari.

Come a dire: credo in quello che faccio, resto qui per un paio di lustri e se le cose andranno bene avrò un crescente controllo sulla società. Nella recente assemblea di Tesla, però, un azionista ha proposto di spezzettare i poteri di Elon Musk, che da dieci anni combina i ruoli di ceo e presidente. Una struttura che – si legge nelle proposta – garantisce leadership ma che potrebbe non essere adatta a un settore sempre più complicato e competitivo. In sostanza: l'idea di un uomo solo al comando non funzionerebbe. Si trattava di fatto di una proposta kamikaze.

Il consiglio di amministrazione è gestito da Musk, che su una delle poltrone ha anche piazzato suo fratello. E qualsiasi variazione deve passare da una maggioranza qualificata dei due terzi. Molto difficile da raggiungere senza la quota di Musk, pari al 22%. Tradotto: non si muove foglia che Musk (azionista forte, presidente e ceo) non voglia. E infatti il board ha detto no: “Il successo della compagnia non sarebbe possibile” se la società fosse guidata da un'altra persona. Proposta respinta e pieni poteri al grande capo. La saga dei super-ceo non è ancora finita.

Agi News

Come sta messo il Milan dopo un anno di proprietà cinese?

Un anno fa Fininvest cedeva il 99,93% di AC Milan alla Rossoneri Sport Investments Luxembourg di Li Yonghong. Per comprare il club calcistico, e depositare nello studio “Gianni Origoni & Partners” l’ultima tranche di 370 milioni dei 740 totali, Li, rimasto solo, senza cordata, e inviso al governo cinese, aveva accettato un prestito di 303 milioni dal fondo americano Elliott.

Era il 13 aprile 2017. Fu festa grande per i tifosi rossoneri, che dopo un travagliato closing, tra la difficoltà di Li di versare le caparre da conti offshore a causa, diceva lui, del blocco cinese sull’esportazione di capitali, e i dubbi crescenti sulla solidità del suo patrimonio finanziario, quel giorno tirarono un sospiro di sollievo. “Inizia un nuovo capitolo”, aveva esultato Li. “Subito in Champions, faremo un mercato importante", gli aveva fatto eco l’ad Marco Fassone.

Da quel giorno Li, 49 anni, una moglie e due figlie, si è dissolto nel nulla. A caccia di nuovi finanziamenti.

I dubbi sulla consistenza del suo patrimonio non sono ancora stati fugati, ma in un anno di profonde ristrutturazioni una cosa è certa: la squadra ha riconquistato il cuore dei tifosi. A loro Li dedica una lettera aperta in occasione del primo anniversario della nuova proprietà, pubblicata sul sito ufficiale del club, in cui Li ribadisce la determinazione a rispettare gli impegni finanziari e a far tornare grande la squadra. Nella versione originale in cinese, due le parole lasciate volutamente in italiano all'ultimo rigo: "Forza Milan".

Entro ottobre il misterioso uomo d'affari, dalla solidità patrimoniale sempre più oscura, dovrà rifinanziare il debito: 120 milioni della società rossonera, 183 della Rossoneri Lux, a cui si aggiungono gli interessi (11,5%). Se Li fallisce, il Milan passa nelle mani dell’hedge fund americano. Una eventualità che sembra sempre più vicina: il contratto firmato con Elliott stabilisce che l’escussione del pegno sulle azioni del Milan potrebbe scattare anche prima della scadenza, qualora non venissero rispettati alcuni impegni, per esempio gli aumenti di capitale.

Gli accordi stipulati con Elliott, inoltre, prevedono un nuovo aumento di capitale di 38 mila euro entro giugno. Li fino ad oggi è sempre riuscito a rispettarli, seppur con qualche ritardo: il primo anticipo da 11 milioni (richiesto all’azionista per esigenze di cassa, come gli stipendi) è infine arrivato nelle casse rossonere la settimana scorsa, senza risonanza mediatica:  “Al Milan fa notizia la normalità”, è stata la battuta filtrata dal club. Le ultime due scadenze sono previste per fine maggio e fine giugno.

Le prossime scadenze del Milan

Entro il 16-20 aprile, l’Uefa aspetta dal Milan la documentazione completa sull’avvenuto rifinanziamento (di recente Fassone si sarebbe recato più volte a Londra per chiudere la questione). Li aveva già avuto problemi con il primo aumento di capitale: a Hong Kong ha avuto difficoltà a rifondere un prestito di 8,3 milioni di dollari (circa 7 milioni di euro), scaduto il 28 febbraio scorso, che è stato trasferito alla moglie a un tasso del 24%. Rossoneri Sport Investment Co. Limited, una delle numerose società che compongono la complessa scatola societaria facente capo a Li,  aveva chiesto e ottenuto la proroga del prestito da parte dell’azienda creditrice Teamway International Group Holding (precedentemente nota con il nome di Jin Bao), tra i cui azionisti risulta esserci il marito dell’attrice Zhao Wei, che era stata giurata al festival di Venezia del 2016. 

Non solo: dopo le polemiche per il no della Uefa al voluntary agreement, ora l’ad Fassone – scrive la Gazzetta – è pronto a presentare nuovi piani, sperando di incassare un giudizio positivo a Nyon e un patteggiamento con sanzioni meno severe, contando sul miglioramento dei conti, soprattutto riguardo la semestrale (il più buono degli ultimi 10 anni: chiuso con un rosso di 22.3 milioni euro contro i 39.4 dell’anno precedente e con 106 milioni di utili contro i precedenti 102), la crescita dei ricavi da stadio (1,2 milioni di biglietti venduti) e di quelli per i diritti tv, la conquista della finale di Coppa Italia. Sullo sfondo, Elliott è già garanzia di continuità aziendale.

I dati positivi della semestrale

Plauso per la gestione Fassone. Passato in mani cinesi, il Milan ha saldato gran parte dei debiti con le banche ereditati dall’amministrazione Fininvest, grazie al bond da 73 milioni di Elliott, e investito 240 milioni per rinnovare la squadra, alzando così il valore di mercato del club e la passione dei tifosi, scrive il Giorno. Ma tentenna il business plan, che puntava alla qualificazione alla Champions League, obiettivo che oggi risulta irraggiungibile, e alla ricerca di nuovi sponsor asiatici con il progetto commerciale Milan China, che tuttavia non sembra decollare (la stampa cinese non ne parla se non riprendendo articoli a mezzo stampa italiana).

Li alla disperata ricerca di soldi

Li Yonghong, da qui alla prossima estate dovrà rispettare una serie di impegni finanziari. Per farlo è costretto a cercare nuovi soldi. 

Il Milan non rischia il fallimento, sottolinea Carlo Festa nel suo blog Insider sul Sole 24 Ore, ma l’azionista è a rischio default. Il 21 marzo scorso la procura di Milano ha aperto un’inchiesta, per ora senza ipotesi di reato né indagati, sulla vendita del club rossonero all'imprenditore cinese. Nelle stesse ore il tribunale di Shenzhen, nel sud della Cina, avviava le procedure per il fallimento della cassaforte dell'imprenditore cinese, la Jie Ande, azionista del gruppo quotato in Borsa Zhongfu, sulla quale pendeva da tempo una richiesta di liquidazione per bancarotta da parte della Banca di Canton (lo abbiamo spiegato qui), assestando un nuovo duro colpo alla già provata credibilità finanziaria del patron del Milan. “Notizie false, tutto è sano. Voglio riportare il club al top", aveva dichiarato in un raro video messaggio Li dopo l’inchiesta di Gabanelli, che anticipava la bancarotta della società la cui proprietà viene a lui ricondotta.

Quanto ha investito 

Ai 740 milioni per l’acquisto del club rossonero, calcola Gazzetta, vanno aggiunti i 90 per ripianare le perdite della stagione 2016-17 e altri 81 quest’anno, di cui dieci di rifinanziamento e 71 di aumento di capitale complessivo.

Quanti sono i debiti

Una massa enorme: ai 303 milioni da restituire a Elliott si sommano i 7 milioni da ridare alla Teamway.

Il patrimonio

Li, poco conosciuto in Cina, è noto per le colossali truffe da cui è uscito sempre illeso e per le operazioni di trading in Borsa (comprava e rivendeva aziende in breve tempo), realizzate quasi sempre con società intestate a prestanome di cui talvolta risulta come socio. Ne è un esempio Sino Europe Sport (SES), la holding creata ad hoc per l’acquisizione del Milan, sostituita nello sprint finale da Rossoneri Lux, e che faceva capo a Chen Huanshan: sconosciuto uomo d’affari a cui risultavano intestate altre due società allo stesso indirizzo di SES, rivelatosi in seguito un professionista al fianco di Li nei “raid finanziari”, scrive Festa.

Il caso più recente riguarda proprio la Jie Ande, che farebbe capo a un certo Liu Jinzhong (刘锦钟).  Nell’atto di costituzione non compare mai il nome di Li Yonghong (李勇鸿), noto per l’uso di prestanome nella complessa scatola societaria a lui riferita; anche per questo motivo – come abbiamo spiegato più volte – risulta poco conosciuto in Cina. Per la stampa cinese, Liu è la testa di legno dietro cui si cela l’identità di Li. Registrata con un capitale di 6,5 milioni di euro, Jie Ande è il principale azionista con l’11,4% di Zhuhai Zhongfu, quotata alla Borsa di Shenzhen con un valore di 3.73 miliardi di yuan (400 milioni di euro), il cui presidente è lo stesso Liu.  Zhuhai Zhongfu, interpellato a febbraio dal Meiri Jinji Xinwen (Daily Economy News, 每日经济新闻)ha smentito qualsiasi collegamento tra Liu Jinzhong e Li Yonghong.

Proprio ieri, mercoledì 11 aprile, si è riunito il decimo Cda di Zhongfu, che ha promosso Liu Jinzhong a presidente e Zhang Haibin a vice presidente. Nessun riferimento diretto al destino di Jie Ande e al congelamento della quota (corrispondente a 60 milioni di euro) che, stando al Meiri Jinji Xinwen, è seguito alla notizia del fallimento. Se fosse confermato il ruolo di Li nella holding, il patron del Milan avrebbe un serio problema di liquidità.

Svelata l'identità di Liu Jinzhong

Non solo: il gruppo pubblica per la prima il curriculum di Liu Jinzhong, che da oggi non può più essere considerato un personaggio sconosciuto. Nato nel 1971, laurea all’Università di Shenzhen, dal 1994 al 2015 ha lavorato per diverse società, tra cui viene citata anche la Jie Ande (relegata dunque al passato: un modo indiretto per dichiararla morta); dal marzo del 2015, ha ricoperto l’incarico di direttore di Zhongfu e vicepresidente del Cda. Il nuovo direttore nonché vice-presidente di Zhongfu, è Zhang Haibin, che, a giudicare dal cv, ha fatto una carriera fulminante: classe 1964, è passato dalla carica di general manager a quella di direttore nell’arco di un anno. Anche Zhang ha lavorato in passato per la Jie Ande.

La controversa società, che per alcune fonti cinesi è una scatola vuota non più collegata a Li, inizialmente esibita nel suo cv ufficiale da cui poi era scomparsa, in realtà è sempre stata indicata come la holding personale di Li tra le attività presentate a Fininvest come garanzia di solidità finanziaria; lo dimostra il documento anticipato dal Sole 24 Ore. Il patrimonio di Li, che risulta proprietario di beni immobiliari, società di packaging, e miniere di fosfati (proprietà smentita dal New York Times), è sempre stato stimato intorno al 500-600 milioni di euro. Il patron del Milan, un imprenditore cinese come molti, vuole lasciare un segno, diventare qualcuno. I soldi continuano ad arrivare in Italia, ma la sua ambizione potrebbe costare molto cara.

Ha collaborato Wang Jing

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Agi News

Come sta andando a finire la vertenza dell’Ilva di Taranto

Il ministro dello Sviluppo Economico, Carlo Calenda, teme che l'Ilva​ possa trasformarsi in una "Bagnoli 2" ma tre volte più grande come impatto a partire dal numero dei disoccupati: 20.000. I sindacati hanno paura che le indecisioni si prolunghino con effetti dannosi per la principale industria italiana dell'acciaio. Dopo la riunione del 29, al Mise si torna a trattare il 4 aprile ma a quasi un anno dalla conclusione della gara di aggiudicazione vinta da Am Investco (Arcelor Mittal-Marcegaglia), che ha battuto l'offerta della concorrenza di Acciaitalia (Jindal, Cassa Depositi e Prestiti, Arvedi e Del Vecchio), e dopo circa sette mesi di trattativa sia pure non continua, le preoccupazioni prevalgono su fiducia e futuro.

Ieri il problema principale dell'azienda – che occupa 14.000 persone di cui circa 11.000 a Taranto – era il rischio di protrarre la gestione commissariale dell'amministrazione straordinaria, insediata ai primi del 2015 a fronte di una elevata insolvenza economica certificata dal Tribunale di Milano. Oggi, invece, il problema principale sembrano essere i tempi lunghi che stanno avendo la meglio su rilancio avviato e piani in attuazione.

L'attesa per il verdetto di Bruxelles

All'inizio sembrava che il nodo prevalente dovesse essere il via libera dell'Antitrust europeo senza il quale non ci può essere il "closing" all'operazione. In altri termini, Bruxelles deve dire se la cordata e l'offerta di Am Investco, vanno bene così come sono state presentate oppure no. È già noto che così non è. E che Arcelor Mittal e Marcegaglia devono mettere sul piatto più di una rinuncia prima di ottenere il semaforo verde dall'Antitrust europeo. Ma questo non sembra più costituire un ostacolo rilevante.

Mesi fa in diversi, tra cui il governatore della Puglia, Michele Emiliano, avevano detto che Bruxelles avrebbe bocciato l'acquisto di Ilva da parte di Mittal perché la multinazionale è già un big mondiale dell'acciaio e dargli anche l'Ilva, avrebbe significato creare un monopolio. Ora, non è che la questione non esista, ma è anche vero che il negoziato tra Am Investco e autorità europee sta andando avanti in modo serrato, che l'approccio di entrambi è positivo, e che se Marcegaglia si è detto pronto ad uscire da Am Investco così come chiesto da Bruxelles, così Mittal ha offerto la disponibilità a dismettere produzioni ed impianti al di fuori del perimetro Ilva per avere l'ok europeo (i tagli nel perimetro Ilva non sono possibili per l'impegno contrattuale che Am Investco ha con Governo e commissari). Entro il 23 maggio, quindi, dopo una serie di rinvii (inizialmente si aspettava il verdetto a fine marzo), l'Antitrust europeo farà conoscere la decisione in merito ad Ilva sotto le insegne di Am Investco. Ma su questo non si nutrono grandi preoccupazioni. Allo stesso modo, sindacalisti, lavoratori e dipendenti Ilva dicono che la "presenza" di Mittal in fabbrica si vede già, che tale presenza crescerà nelle prossime settimane e che Mittal non ha intenzione di rinunciare all'azienda a cui fa capo il più' grande polo siderurgico d'Europa.

Le priorità dei sindacati

I nodi, quindi, sono nelle indecisioni, nello scenario politico nazionale e in una trattativa – sindacati e Am Investco – che non riceve ancora la spinta per planare verso l'accordo. "Siamo al punto in cui bisogna provare a fare sintesi e capire se ci sono gli spazi per arrivare ad una conclusione", chiede la Fim Cisl. L'azienda, rileva la Uilm, "continua a degradarsi, non ci sono investimenti sugli impianti, sulle tecnologie e soprattutto sull'ambiente". Mentre la Fiom Cgil si dice d'accordo sulla necessità di stringere, ma rileva pure che il negoziato deve avere come priorità i contenuti. E le priorità, per i sindacati, sono la necessità di evitare l'aggravarsi delle perdite (la Fim Cisl, citando dati Mittal, parla di oltre 300 milioni l'anno) e 4mila esuberi. Allo stato, infatti, Am Investco resta ferma sull'offerta iniziale: 10.000 addetti alla nuova gestione e il resto all'amministrazione straordinaria tra cassa integrazione e bonifica.

Il vero nodo è l'incertezza politica

Nessuno si aspetta già il 4 aprile l'intesa ma almeno uno scenario diverso rispetto agli altri incontri. Considerato che non si scorgono grosse nubi sul versante europeo e che anche sul fronte del ricorso al Tar di Regione Puglia e Comune di Taranto contro il Dpcm sul piano ambientale, si lavora a un accordo. Quantomeno col Comune, visto che il sindaco di Taranto, Melucci, ha dichiarato che non ritiene più il ricorso – nel frattempo trasferito da Tar Lecce a Tar Lazio – come l'opzione più produttiva. In questa fase, però, potrebbero pesare il successo dei Cinque Stelle alle politiche e la mancanza del nuovo Governo. Nel primo caso, i Cinque Stelle – che a Taranto hanno eletto 5 parlamentari – dicono di voler spegnere l'Ilva per avviare una grande riconversione basata su bonifiche, nuove attività e tutela dell'occupazione. Nel secondo caso, invece, l'assenza del Governo vuol dire assenza di chi deve garantire interventi pubblici di accompagnamento perché l'operazione Ilva si concluda: da misure sociali a incentivi per gli esodi agevolati. Anche se i lavoratori Ilva, che pure hanno votato in massa i pentastellati, dicono di non credere che Di Maio spegnerà l'Ilva. E pure l'arcivescovo di Taranto, Santoro, non sembra drammatizzare le conseguenze del voto. È emersa una grande sfida di cambiamento, dice, "non possiamo perdere quest'occasione. Sfruttiamola bene insieme". 

Agi News

Un anno fa in Finlandia è stato introdotto il reddito di cittadinanza. Cos’è e come sta andando

Ad introdurre il reddito di base in Finlandia nel 2017, primo caso in Europa, è stato un governo di centro-destra. Ma il 'Partito di centro finlandese', liberale e piuttosto attento ai temi del rigore dei conti, non voleva spendere ulteriori soldi in favore di una misura di assistenzialismo statale. Semmai il contrario: dimostrare, attraverso un esperimento sociale di due anni, che avrebbe indotto i duemila selezionati, tutti disoccupati tra i 25 e i 58 anni, a cercarsi un lavoro una volta resi liberi dal rischio di perdere il sussidio statale di disoccupazione.

Così, a dicembre del 2016, a duemila finlandesi è arrivata una lettera da parte del governo: dal prossimo mese vi daremo 560 euro al mese, direttamente sul vostro conto corrente, fatene quello che volete, non avrete più il sussidio di disoccupazione, ma nemmeno telefonate da parte dei centri per l’impiego che vi proporranno lavori che se accettate vi farebbero perdere il sussidio, e se vi trovate un lavoro meglio per voi perché nessuno vi toglierà i 560 euro, li incasserete comunque.

Insomma, tenersi quei 560 euro comunque, anche se si trova un lavoro, dovrebbe indurre le persone a cercarselo, o a crearselo. Dando un colpo definitivo al welfare, dimostrandone l’inutilità.

L’esperimento è un caso che ha destato la curiosità in tutta Europa, ma non solo. Ha suscitato l’entusiasmo di Bill Gates (Microsoft), Mark Zuckerberg (Facebook) e Elon Musk (Tesla, SpaceX), che strizzato l’occhio all’iniziativa del governo di Helsinki. In Silicon Valley i campioni della digital economy sono da tempo favorevoli a quello che alcuni vogliono sotto forma di reddito di cittadinanza, altri reddito base universale. Uno dei pionieri ‘teorici’ in California fu Paul Graham, il filosofo delle startup, che ha condotto con i soldi propri un esperimento nel suo Stato. Il motivo è semplice: per molti è uno strumento, forse l’unico strumento per cercare di arginare le disuguaglianze che le nuove tecnologie stanno creando nella società occidentale. Il vaccino del 21esimo secolo.

Reddito di cittadinanza: "il vaccino del 21esimo secolo"

Ecco perché l’esperimento finlandese ha suscitato tanto entusiasmo: per molti potrebbe contribuire a cambiare la politica e i valori dell’occidente. Allo stato finlandese questo esperimento costerà circa 20 milioni. Ma se dovesse essere esteso su scala nazionale costerebbe circa 10 miliardi, e, secondo le stime, far aumentare deficit sul prodotto interno lordo del 5 percento.

I risultati dell’esperimento finlandese saranno pubblicati solo alla fine del 2018, quando il governo tirerà le somme e darà i dati e la posizione lavorativa dei beneficiari del reddito. Il New York Times intanto ha un po' tirato le orecchie al progetto lo scorso luglio: il reddito di cittadinanza dovrebbe essere esteso a tutti i cittadini per essere tale, e per capire se il progetto funziona si dovrebbe allargarlo a tutti, o estenderlo a tutte le categorie di cittadini, non solo i disoccupati.

Ora, il governo questioni di privacy, ma anche per evitare che vengano raccolti dati nel frattempo, ha tenuto segreti i nomi dei disoccupati che l’hanno ottenuto. Ma in rete si possono trovare diverse interviste di persone che raccontano la loro esperienza, e diverse video interviste che permettono di farsi un'idea.

Due casi di persone che in Finlandia ricevono il reddito di cittadinanza

Due in particolare risultano piuttosto significative. Jarvinen è stato intervistato da Vice. Vive in una delle classiche casette rosse col tetto spiovente della campagna finlandese con sei figli, una moglie e un cane che manteneva con il suo sussidio di disoccupazione prima di convertirlo nel reddito di cittadinanza quando ha ricevuto la proposta del governo. Anarchico nella vita e nell’educazione dei figli, confessa che “per vivere con 560 euro al mese devi essere un mago”, perché con quei soldi in Finlandia si può fare ben poco considerato il loro costo della vita. 

Quindi? Ha voluto dare sfogo alla sua creatività e si è messo a costruire dei tamburi che provocano stati di trance che vende nel mondo a 400 euro l’uno. Prima non poteva farlo, il governo se avesse scoperto che aveva un lavoro gli avrebbe tolto il sussidio. Adesso invece è libero di creare e vendere i suoi prodotti: “Credo che sia una misura utile”, ha detto “con questo strumento ognuno può dare sfogo alla sua creatività e magari creare in casa la prossima Facebook o la prossima YouTube”. Lui intanto crea i suoi tamburi.

Mika Ruusunen invece è un altro caso scovato dalla Cnbc su Facebook, tra i pochissimi scoperti finora. Accoglie i giornalisti durante la sua pausa pranzo, perché da quando riceve il reddito si è trovato lavoro in un’azienda informatica di Tampere: “la cosa migliore del reddito base del governo è la totale assenza di complicazioni burocratiche, mentre la più strana è che anche se dovessi cominciare a guadagnare un milione di euro all’anno continuerebbero a darmeli”.

Una battaglia di sinistra, in Finlandia finita a destra

Un caso strano. È dal 1980 che in Finlandia si discute del reddito di cittadinanza, soprattuto a sinistra. È sempre stato una bandiera della sinistra, prima che ad approvarlo (anche se in via sperimentale) è stato il centrodestra. Ma con un’ottica completamente diversa: non vuole combattere le disuguaglianze, ma favorire l’occupazione e la voglia di cercarsi un lavoro: è scritto nero su bianco in un documento del 2016 in cui presenta il programma al parlamento. Alla sinistra finlandese il programma non piace, perché vede la possibilità concreta che si smantelli il welfare statale.

In Italia la proposta del reddito di cittadinanza del Movimento 5 stelle è assai diversa da quella finlandese: si tratterebbe di un sistema misto di reddito condizionato alla formazione e all’accettazione di lavori proposti da enti e istituzioni pubbliche e private. E non potrebbe essere altrimenti, perché chi studia questa misura ripete spesso che un caso non può valere l’altro, e che ogni stato deve immaginare un proprio modello, in relazione alle casse pubbliche e alla situazione sociale.

Perché il reddito di cittadinanza è un bene (o un male)? 

Gli argomenti a favore e contro sono diversi. Li ha sintetizzati Futurism.com in un articolo che ne ripercorre la storia politica e le discussioni che ha generato. Riassumendoli per punti:

Argomenti a favore. Il reddito di cittadinanza potrebbe:

 

  • Aumentare la stabilità e la sicurezza sociale
  • Semplificare il welfare
  • Rendere più redditizio il lavoro occasionale, o le proprie passioni
  • Ridurre la povertà
  • Aumentare la libertà delle persone, che potrebbero scegliere in maniera non condizionata la propria vita e il proprio lavoro
  • Aumentare le possibilità di migliorare la propria condizione
  • Dare maggiore forza in fase di contrattazione quando si ottiene una proposta di lavoro
  • Più libertà nei tempi che si decide di dedicare al lavoro, e al metodo di lavoro
  • Evitare di fare cose che non soddisfano il lavoratore
  • Sostegno alla piccola imprenditorialità, al lavoro autonomo e creativo, che magari non generano grossi volumi di soldi ma che danno soddisfazione personale
  • Ridurre l’esclusione sociale dando, a differenza dei sussidi, la possibilità di fare comunque attività lavorative o creative che reinseriscano nel contesto sociale

     

Argomenti contro. Il reddito di cittadinanza potrebbe:
 

  • Essere troppo costoso per le casse dello stato
  • Non essere adeguato a garantire più equità sociale degli strumenti offerti dal welfare
  • Abolire il welfare
  • Spingere le persone a cercare lavori part-time, indebolendo il potere dei contratti collettivi dei dipendenti
  • Portare ad un aumento delle tasse, e con più tasse abbassare la propensione a creare imprese
  • Dividere la società tra coloro che possono vivere senza un lavoro, e coloro che devono per forza farlo
  • Non considerare i bisogni individuali se un certo reddito è da destinare a tutti
  • Indebolire la posizione delle donne sul mercato del lavoro, perché sarebbero indotte a rimanere a casa e prendersi cura dei figli

 

@arcangeloroc

Agi News

Come è andato l’incontro tra Calenda e il commissario Vestager sulla vertenza Embraco

Prosegue il braccio di ferro tra Embraco​, la multinazionale in capo al gruppo Whirpool, pronta a chiudere lo stabilimento piemontese di Riva di Chieri e a licenziare i 500 addetti del polo, e il governo che, al fianco dei sindacati, sta tentando di bloccare il piano dell'azienda di trasferire le linee produttive in Slovacchia. Oggi il ministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda, è volato a Bruxelles per incontrare la commissaria Ue alla Concorrenza, Margrethe Vestager. Un incontro giudicato positivo dal ministro.

"La Commissione sarà molto intransigente"

Domani, ha riferito l'inquilino del dicastero via Veneto, la commissaria farà una conferenza stampa. "Ci siamo chiariti", ha aggiunto Calenda, "mi pare che abbia molto ben chiaro il problema e mi ha assicurato che la Commissione sarà molto intransigente nel verificare i casi segnalati in cui o c'è un uso sbagliato dei fondi strutturali, cioè non consentito, o peggio, di aiuto di Stato per attrarre investimenti che sono parte dell'Unione europea". "Non molliamo, come è successo in moltissime crisi prima di questa", ha assicurato il ministro, aggiungendo che "l'Italia ha ribadito la sua richiesta a Bruxelles, nei casi specifici di Embraco e Honeyweel, di procedere alla verifica di un eventuale uso dei fondi strutturali europei che non è consentito per portare via investimenti, o di altri aiuti di Stato". L'Italia, inoltre, "manderà a brevissimo una proposta a Bruxelles che prevede di istituire un fondo che in caso di delocalizzazioni produttive verso i paesi del'Est, gestisca la transizione industriale con una maggiore intensità rispetto a quelle normalmente concessa per un normale aiuto di Stato". 

Ma Bruxelles, per ora, non si espone

Una proposta, quella italiana, su cui la Commissione europea non è al momento "nella posizione di fare un commento", ha detto il portavoce dell'esecutivo comunitario, Ricardo Cardoso. La commissaria Vestager ha discusso con Calenda di "questioni di concorrenza", ha aggiunto il portavoce. "A questo stadio non ho dettagli sul progetto" di fondo e "non sono nella posizione di fare un commento", ha spiegato, ricordando che esiste un fondo europeo sulla globalizzazione. Quanto alla lettera con cui Calenda ha denunciato le pratiche fiscali della Slovacchia per favorire l'arrivo di multinazionali nel Paese, la Commissione risponderà "sulla base delle procedure normali". "Non siamo nella posizione di commentare su un sistema fiscale di uno Stato membro, a meno che non ci sia un'inchiesta in corso", ha fatto sapere l'esecutivo comunitario. Bruxelles dunque esaminerà la posizione espressa dall'Italia e deciderà come procedere.

Ieri la società del gruppo Whirlpool, che si occupa di compressori per frigoriferi, ha confermato i tagli al personale, generando l'ira dello stesso Calenda. Anche il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, ha giudicato "inaccettabile il comportamento dell'impresa" perché se avesse ritirato i licenziamenti avrebbe consentito, ha spiegato, "un percorso di re-industrializzazione e di ricorso agli ammortizzatori. Il governo è comunque "impegnato al fianco dei lavoratori" di Embraco ed è pronto "a utilizzare gli ammortizzatori sociali a sostegno di un progetto di re-industrializzazione, per dare continuità" al lavoro, ha assicurato Poletti.

E un operaio si incatena davanti alla fabbrica

Intanto prosegue la battaglia degli operai. Daniele Simoni, 54 anni, da 25 anni al lavoro nello stabilimento di Riva di Chieri, ha deciso di incatenarsi questa mattina davanti alla fabbrica. "Il lavoro ci sta mancando, l'azienda deve tornare sui suoi passi. Si sta alzando la tensione", ha spiegato all'Agi. "Non sappiamo cosa potrà accadere, come potremo continuare a pagare bollette e mutui. A una certa età siamo tagliati fuori dal lavoro". Da Riva di Chieri si guarda ora alle prossime mosse del governo: "Vediamo cosa succederà in questi giorni, speriamo ci siano spiragli da quello che sta facendo il ministro Calenda, che si sta impegnando per noi. Noi non molliamo – ha concluso – ma è difficile stare tranquilli. Quello che vorremmo è solo questo: poter rientrare a casa tranquilli".

Questa mattina i lavoratori dell'Embraco hanno tenuto una breve assemblea anche per fare il punto sulla giornata di ieri che ha visto l'azienda dire no al ritiro dei licenziamenti. Anche oggi è continuato il presidio davanti alla fabbrica di Riva di Chieri e i sindacati hanno annunciato una grande manifestazione a Torino il 2 marzo.

Agi News

Come fanno a minare bitcoin usando il tuo smartphone, senza che te ne accorgi 

Funziona così: ti rapisco lo smartphone per qualche minuto (se sei attento anche meno, se non lo sei molto di più). Ma non lo uso per chiederti un riscatto: lo faccio lavorare per creare nuove criptovalute. La società americana di sicurezza informatica Malwarebytes ha rintracciato una campagna che coinvolgerebbe circa 800.000 persone al giorno.

L'esca è una pubblicità ingannevole, utilizzata in realtà per diffondere malware. Gli utenti, ignari, vengono indirizzati verso alcuni siti, dove la potenza di calcolo dei loro smartphone viene “succhiata” per fare mining. Cioè per produrre criptovalute, in questo caso Monero (13esima valuta digitale per capitalizzazione e con un valore unitario di oltre 290 dollari).

Una volta catapultati sui siti infetti, sul display compare la segnalazione di “attività sospette” e l'avviso che, finché l'utente non inserirà un codice (disponibile nella schermata), il suo smartphone continuerà a minare, compromettendo le performance del dispositivo.

Secondo i dati di Malwarebytes, gli 800.000 utenti coinvolti ogni giorno passato sui siti malevoli in media 4 minuti. E così, sommando la capacità di calcolo di centinaia di migliaia di dispositivi, i promotori della campagna sono in grado di estrarre Monero per diverse migliaia di euro al mese. L'offensiva, individuata per la prima volta da Malwarebytes a gennaio, sarebbe in corso dal novembre 2017. Conferma che attività di “cryptojacking” (cioè di “rapimento” dei dispositivi per minare monete virtuali), per quanto sia più ricorrente ed efficace sui pc, coinvolge anche gli smartphone.

Campagne come queste sono in aumento. Di recente, hanno coinvolto anche siti considerati sicuri. Pochi giorni fa Scott Helme, blogger ed esperto di sicurezza informatica, ne ha individuati migliaia, tra i quali ci sono anche decine di indirizzi governativi (soprattutto americani e britannici).

Sui siti c'era un pezzo di codice che apre una porta verso il dispositivo usato dagli utenti per connettersi. Grazie a questa breccia, è possibile assorbire capacità di elaborazione dalle schede madri (all'insaputa dei proprietari). Per chi ha messo in piedi l'attacco la convenienza è doppia: aggrega potenza e produce criptovaluta più velocemente. E non compra nuove Cpu (che proprio a causa dell'elevata domanda per minare criptovalute sono diventate molto costose).

Per gli utenti il danno è triplo: vengono coinvolti in un'attività lucrativa senza però intascare nulla; vedono penalizzate le prestazioni dei propri dispositivi e ridursi il tempo della batteria perché parte della capacità di calcolo è impiegata altrove; rischiano di aumentare il consumo energetico (e quindi il costo della bolletta).

Agi News

Google ha superato Facebook come fonte di traffico per i media

Gli editori hanno un nuovo (vecchio) alleato: Google. Il motore di ricerca, che da sempre rappresenta la principale fonte di traffico “esterna” da pc, ha superato Facebook anche su mobile. Lo conferma una ricerca di Chartbeat. Nella prima settimana di febbraio, Google ha contribuito con oltre un miliardo di pagine viste (il 40% in più rispetto a un anno fa); Facebook si è fermato a 740 milioni (il 20% in meno).

Il sorpasso si è consumato lo scorso agosto. Se poi si includono anche i pc, il divario si allarga. Perché il motore di ricerca aggiunge 530 milioni di pagine mentre il social network (fruito molto da smartphone e meno da postazioni fisse) solo 70 milioni.

Google, mano tesa agli editori

Facebook e Google hanno fatto due scelte differenti. Mark Zuckerberg ha deciso di penalizzare le pagine (e quindi anche gli editori) per favorire quelle che ha definito “interazioni autentiche” (cioè con le persone). Le modifiche all'algoritmo vanno in questa direzione e hanno avuto come effetto un calo dei clic che dalla bacheca portano agli articoli. Anche se i cambiamenti sono stati annunciati a gennaio (e dovrebbero avere crescente impatto in futuro), già nel corso del 2017 i siti hanno registrato un calo della “portata organica” (cioè del traffico che arriva da Facebook senza pagare). Google, invece, sta spingendo nella direzione opposta.

Il successo delle Amp

Buona parte della crescita si deve alle “Amp”: è un nuovo formato (open source ma utilizzato soprattutto da Big G) che permette di caricare gli articoli in modo più rapido su mobile (Amp sta per “accelerated mobile pages”), senza obbligare gli utenti a saltare da un sito all'altro. Risultato: più traffico e più pubblicità, tanto che gli editori stanno accorrendo. Il 14 febbraio, Google ha annunciato che sono 31 milioni quelli che già hanno adottato le Amp (il 25% in più rispetto a ottobre).

Le “pagine accelerate” funzionano a tal punto che Big G ha deciso di utilizzarle anche nelle neonate Stories: un nuovo formato, simile alle Storie di Snapchat, che potrà essere utilizzato dalle testate e comparire nei risultati di ricerca. Mountain View punta quindi con forza a occupare quello spazio che Facebook sta lasciando vacante.

Il confronto con Twitter

Zuckerberg punta ad allontanare lo spettro delle fake news e a rinsaldare la comunità per venderla a prezzi più cari (anche perché, se un editore vuole emergere, dovrà pagare). Ma per ora il social network deve fare i conti con la quantità. Sta perdendo terreno rispetto a Google e anche Twitter sta rimontando, per quanto resti lontano: secondo una ricerca di SocialFlow riportata da BuzzFeed, a ottobre arrivavano da Facebook 4,7 lettori per ogni visitatore proveniente da Twitter. A gennaio il rapporto è sceso a 2,5 contro uno.

Da una parte c'entra l'algoritmo; dall'altra il crescente coinvolgimento degli utenti emerso nell'ultima trimestrale. E così in tre mesi i clic medi su ogni post Facebook degli editori sono calati da 470 a 400. Mentre quelli per ogni tweet sono passati da 100 a 160.

 

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