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Le vendite di Gucci sono calate la prima volta dal 2016. Forse colpa di un maglione

Gucci ha potenziato il suo marchio e le vendite, utilizzando i social media, ma la scelta si è rivelata un boomerang, e le vendite negli Usa sono calate nel primo trimestre, per la prima volta dal 2016.

La responsabilità, rileva il Wall Street Journal, è stata di un maglione della collezione autunno/inverno 2018 finito al centro delle critiche su Twitter perché, a dire di alcuni, faceva esplicito riferimento esplicito al blackface, lo stile di make up teatrale con il quale gli attori bianchi interpretavano i personaggi neri caricaturizzandone i tratti somatici.

Il maglione è stato ritirato dal mercato, ma la mossa non è bastata ad evitare un contraccolpo nelle vendite Usa, a dimostrazione che le aziende di lusso che prosperano su Instagram e sugli altri social media possano inciampare altrettanto rapidamente a causa di una strategia di marketing sbagliata. La ricerca di attenzione da parte delle piattaforme social, ideata dal designer di Gucci, Alessandro Michele, è infatti scivolata sulla buccia di banana del maglione che richiamava il blackface, sul quale negli Usa e in Canada si è scatenata la polemica su Twitter, che ha innescato una campagna di boicottaggio e conseguentemente un calo delle vendite negli Stati Uniti.

Inizialmente il design appariscente di Michele aveva suscitato l’attenzione degli influencer dei social media e degli artisti hip-hop che stabiliscono le tendenze che dominano l’industria della moda. Le sue sfilate – tra cui una l’anno scorso a Milano, dove modelle si sono lanciate in passerella con repliche realistiche delle loro stesse teste – sono diventate virali.

Tuttavia l’ondata di elogi si è infranta contro lo scoglio del maglione da 890 dollari coi riferimenti al blackface. Tra le celebrità che hanno puntato l’indice contro questo capo di abbigliamento, c’è anche il rapper T.I., che su Instagram si è dichiarato “un cliente a 7 cifre l’anno e un sostenitore di lunga data” di Gucci. Ora, nota il Wsj, il prossimo show di Michele è fissato per il 22 settembre durante la settimana della moda di Milano. E alcuni esperti del settore della moda si chiedono se Gucci e il suo designer non siano entrati in una fase declinante.

“Per quanto innovativo sia Alessandro, il suo stile sta diventando un po ‘stagnante'”, ha detto al Wsj Nicole Fischelis, ex direttore creativo di Saks Fifth Avenue e di Macy’s, ora messosi in proprio come consulente delle grandi case di moda. 

Agi

Foodora va via dall’Italia: colpa di Di Maio o del mercato? 

La decisione Delivery Hero di vendere Foodora Italia arrivata il giorno in cui la Camera ha approvato il Decreto Dignità voluto dal ministro Di Maio ha indotto molti a pensare che le due cose fossero in qualche modo collegate. Ma non è proprio così.

Di Maio ha parlato per la prima volta del Decreto Dignità all’indomani del primo incontro ufficiale fatto al ministero del Lavoro con i fattorini delle società che consegnano il cibo a domicilio (14 giugno). Ha detto poi ai cronisti che avrebbe ridato dignità al lavoro dei fattorini attraverso una serie di tutele che oggi molti di loro non hanno. E che avrebbe cercato un accordo con le aziende.

Il manager italiano di Foodora, Gianluca Cocco, due giorni dopo rilascia un’intervista al Corriere della sera in cui dice che con una misura troppo restrittiva la società sarebbe stata costretta a chiudere in Italia. 

A stretto giro arriva la risposta di Di Maio, via Facebook:

“Oggi il managing director di Foodora Italia ha criticato alcuni punti della bozza del Decreto Dignità che riguarda proprio i riders. È giusto che su questo tema ci si confronti pubblicamente e infatti dopo aver incontrato i ragazzi, domani alle 14 al Ministero del Lavoro incontrerò anche i rappresentanti delle aziende, compresa Foodora”.

Società che ha incontrato qualche giorno dopo, al ministero dello Sviluppo economico (18 giugno). Incontro andato bene, dicono, ma che non ha portato ad alcun accordo. E nessun accordo è arrivato dall’ultimo incontro, quello del 27 luglio scorso in cui si sono sentite le proposte delle società, ma ogni decisione è stata rimandata a settembre. Nel decreto approvato il 2 agosto alla Camera infatti non c’è traccia di fattorini né di società di consegna di cibo a domicilio.

Le difficoltà del mercato delle società di food delivey

Ma quali sono le difficoltà di queste aziende? Un elemento lo ha fornito lo stesso amministratore di Foodora. Intervistato da Agi, il 27 luglio Gianluca Cocco aveva ribadito la principale differenza a quel tavolo tra la sua società e le altre: al tavolo infatti le aziende si sono presentate separate in due fazioni:

"La differenza è che noi somministriamo contratti co.co.co. e abbiamo optato per le tutele pubbliche dei riders, come Inail per gli infortuni e Inps per le pensioni. Molte altre società hanno contratti a partita Iva o a prestazione e hanno scelto coperture e fondi privati per la pensione. Noi siamo per le tutele pubbliche, che riteniamo garantiscano meglio i nostri dipendenti". 

È in questa differenza di contratti che si gioca buona parte della partita. I costi per Foodora sono alti. E il mercato in Italia è piccolo e pieno di società che se lo contendono, alcune grandi e ben finanziate dalla finanza, altre piccole che cercano di sopravvire (Glogo, Just Eat, Deliveroo, Movenda, Uber Eat, Social Food, per citarne alcune delle 20 presenti).

Tanti attori in un mercato giovane e non ancora esploso. Quello del digitale vale circa il 10% del mercato delle consegne a domicilio in Italia (stiamo parlando infatti solo delle società che fanno lavorare i fattorini tramite app, dati Deutch Bank), mentre il 90% è in mano alle pizzerie tradizionali. Foodora, insieme a tutte le altre società di food delivery, non genera utili. Sono tutte in perdita, come ha ammesso lo stesso Cocco, e continuano a ‘bruciare’ i soldi delle case madri, che siano a Londra, a Barcellona o a Berlino.

Margini bassi, numeri bassi: aziende in difficoltà

I margini sono molto bassi: circa un euro vanno nelle casse della società su una cena da 30 euro ordinata sulle loro piattaforme, di cui 21 vanno al ristorante, 4 al fattorino, 4 in spese e marketing. Un mercato che potrebbe valere un miliardo di euro (è una delle cifre più ottimistiche) ma con tanti player che fanno pochi margini e senza raggiungere grandi numeri alla lunga la casa madre chiude i rubinetti.

L’Italia è un mercato difficile, ha comunicato la controllante di Foodora, Delivery Hero. Ma non perché in Italia le cose sono difficili a priori, ma perché è difficile scalare un mercato che cresce poco e con troppi attori a contendersi una torta ancora piccina. Foodora fa un passo indietro in Italia, e lo fa anche in Francia e in Olanda, dove ci sono situazioni assai simili spiegano dalla società. Nella lotta per le influenze dei giganti del food delivery, qualcuno prima o poi avrebbe dovuto fare un passo indietro a favore di una società rivale, a cui venderà tutto il pacchetto: clienti, fattorini e zone. 

E questa volta la politica forse c’entra poco, ma tutto sembra riconducibile alle particolari dinamiche del mercato digitale.

Twitter: @arcangeloroc

Agi News

Google si è beccata una multa da record per colpa di Android

Maxi-multa per Google. L’Antitrust dell’Unione Europea ha inflitto una sanzione di 4.342.865.000 di euro (5 miliardi di dollari) alla società statunitense per abuso di posizione dominante di Android, il suo sistema operativo.

“La Commissione impone a Google di porre fine alla propria condotta illecita in modo efficace entro 90 giorni” ha detto Margrethe Vestager, Commissario europeo per la concorrenza durante la conferenza stampa del 18 luglio. I capi d’accusa sono tre: “L'abbinamento illegale delle applicazioni Google relative alla ricerca e al browsing, i pagamenti illegali in cambio della preinstallazione di Google Search e l’ostruzione illecita dello sviluppo e della distribuzione di sistemi operativi Android concorrenti”. Se la società americana non cambierà il proprio comportamento, ha annunciato Vestager, arriveranno nuove multe.
 

La replica di Google non si è fatta attendere. Secondo la casa madre di Android, il suo sistema operativo per device portatili è quello che "ha ampliato la scelta dei telefoni a disposizione in tutto il mondo", in concorrenza con iOs di Apple, è il sottinteso

Quella della Commissione Europea, si legge in una nota "è una decisione in materia di concorrenza contro Android e il suo modello di business che non tiene in considerazione il fatto che i telefoni Android siano in concorrenza con i telefoni iOS, cosa che è stata confermata dall'89% di coloro che hanno risposto all'indagine di mercato condotta dalla stessa Commissione".

Google ne fa anche un discorso di 'accesso democratico' agli smartphone: l'Ue, afferma, "non riconosce quanta scelta Android sia in grado di offrire alle migliaia di produttori di telefoni e operatori di reti mobili che realizzano e vendono dispositivi Android; ai milioni di sviluppatori di app di tutto il mondo che hanno costruito il proprio business con Android; e ai miliardi di consumatori che ora possono permettersi di acquistare e utilizzare dispositivi Android all'avanguardia. Oggi, grazie ad Android, ci sono più di 24.000 dispositivi, di ogni fascia di prezzo e di oltre 1.300 diversi marchi".

Dopo la multa di 2.4 miliardi di euro dello scorso anno, il conto per Big G sale così a quasi sette miliardi. A suo tempo l’Unione Europea aveva punito Google per il modo in cui sfavoriva la concorrenza facendo comparire per primi, sul suo motore di ricerca, i risultati di Google Shopping. La sentenza odierna riguarda invece Android, il software che fa muovere la maggior parte dei dispositivi mobile al mondo.

La pubblicità, ecco il perché della multa a Google

La ragione che ha spinto l’Antitrust a punire Google con la maxi-multa è il suo comportamento in fatto di pubblicità, scrive Bloomberg. Android è un sistema operativo gratuito, fattore che spinge diverse aziende a dotarsene sui i propri dispositivi, evitando così di doverlo sviluppare autonomamente o di doverne acquistare uno. Che cosa chiede in cambio Google? Il patto è questo: per avere accesso a Google Play, il market di applicazioni terze, i produttori devono “dotare i dispositivi Android di un pacchetto di applicazioni targate Google”. È questo il motivo per cui, acquistando uno smartphone Android, troviamo già installate alcune app come Gmail o Chrome. Google, come gli altri sviluppatori, guadagna dal traffico generato dai servizi che offre. Installando di default le proprie app (cosa che accade appunto grazie al sistema operativo Android), il colosso di Mountain View si pone in una posizione di vantaggio.

Nella corsa ai guadagni in inserzioni pubblicitarie parte in pole position, per usare una metafora sportiva. E per farlo è disposto a tutto: “Ad alcuni dei maggiori produttori di dispositivi – aggiunge il quotidiano economico – Google offre anche incentivi economici per installare il proprio servizio di ricerca sui dispositivi”. I risultati? Android è installato sul 77% dei telefonini del mondo, una fetta di mercato enorme, e incassa un terzo del totale dei ricavi pubblicitari. Secondo una ricerca di eMarketer del settembre 2017, lo scorso anno Google ha incassato 35 miliardi di dollari in pubblicità digitale soltanto negli Stati Uniti. Una cifra destinata a crescere ulteriormente, 40 miliardi nel 2018 e 45 il prossimo anno.

“Difficile fare concorrenza a Google sui dispositivi Android”

L’Unione Europea, sanzionando Google, ha accolto le proteste di chi tenta di fargli concorrenza, come per esempio le società che sviluppano motori di ricerca alternativi che lamentavano la difficoltà di battersi su un campo dominato dalla società statunitense. Gli utenti, trovando Google Search già installato sul proprio smartphone, non sarebbero incentivati a cambiarlo.

Il verdetto del 18 luglio pone fine a una diatriba, quella tra Google e l’Unione Europea, che dura da 39 mesi, scrive il Guardian. Già ad aprile 2016 l’Antitrust europeo aveva pubblicato una lista di obiezioni presentate alla società americana a proposito delle sue pratiche relative all’installazione dei Android sui dispositivi mobile.

La domanda che in molti si fanno è se basterà la multa inflitta dall’Unione Europea per cambiare la politica di Google. Secondo Cnbc “la vera sfida per Google arriverà se l’Ue costringerà l’azienda a modificare il proprio comportamento”. Gary Reback, l’avvocato noto per le sue battaglie contro il monopolio di Microsoft negli anni ‘90, non è ottimista. Le sentenze unilaterali “non faranno molto se il problema non viene risolto in anticipo”, cioè alla radice. 

Agi News