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Il Mobile World Congress si farà, nonostante il coronavirus. E i cinesi ci saranno

Il Mobile World Congress (Mwc) di Barcellona si farà. Il governo della Catalogna ha fatto sapere che “non contempla” la sospensione dell’edizione di quest’anno della più importante fiera al mondo sulla telefonia mobile, prevista per fine mese. Non c’è “alcun elemento” che faccia stare “in allerta” e pensare a “un qualche pericolo” derivante dall’epidemia da coronavirus, ha spiegato il responsabile per l’Industria, Angels Chacon, intervistato da Catalunya Radio.

Il sospetto di una massiccia defezione degli espositori era sorto dopo il forfait annunciato dalla coreana LG Electronics che ha fatto sapere che “sta monitorando attentamente” la situazione relativa all’epidemia e che, pensando “alla sicurezza e alla salute dei suoi dipendenti, partner e clienti”, ha deciso di annullare la sua esposizione e partecipazione al Mwc. “Questa decisione azzera il rischio di esporre centinaia di dipendenti di LG a viaggi internazionali, data la situazione sempre più restrittiva dovuta alla continua diffusione del virus” si legge in una nota, “in alternativa LG organizzerà nel prossimo futuro degli eventi dedicati per annunciare i nuovi prodotti mobile 2020”.

Fonti dall’altro colosso sudcoreano, Samsung, protagonista atteso della fiera, hanno confermato ad AGI la partecipazione.

Le case cinesi, che come ogni anno sono in primo piano a Barcellona per la presentazione di device e tecnologie, hanno fatto sapere che ci saranno, anche se con precauzioni.

Zte, impegnata nello sviluppo delle reti 5G in Italia e che a Barcellona presenterà non solo le tecnologie wireless di nuova generazione, ma anche nuovi smartphone come il Blade e l’Axon 5G ha fatto sapere che parteciperà, come previsto.

“Dopo l’esplosione del nuovo coronavirus, oltre a rispondere attivamente e organizzare le risorse per garantire il servizio di telecomunicazione nelle aree interessate, Zte ha sempre posto la salute dei nostri dipendenti e clienti come priorità” si legge in una nota dell’azienda, “in conformità con le linee guida del dipartimento sanitario cinese e dell’Oms, Zte ha adottato una serie di forti misure di prevenzione, controllo e salvaguardia: assicurerà che tutti i dipendenti della Cina continentale, compresi i cittadini non cinesi, non manifestino sintomi per 2 settimane prima della partenza e dell’arrivo nel Mwc e tutti i dipendenti devono sottoporsi all’autoisolamento di 2 settimane per garantire la salute e la sicurezza di tutto il personale”.

L’azienda ha disposto anche che tutti i dirigenti che partecipano alle riunioni di alto livello si autoisolino in Europa per almeno due settimane prima della fiera di Barcellona, che lo stand e le attrezzature della fiera vengano disinfettati quotidianamente e che il personale di presentazione dello stand provenga da Paesi al di fuori della Cina e principalmente dall’Europa”.

Misure simili saranno adottate da Huawei che ha annunciato di non avere intenzione di annullare la propria partecipazione, particolarmente significativa per il ruolo che il colosso delle telecomunicazioni ha assunto nello sviluppo del 5G in Europa, specie dopo la decisione della Commissione europea di non tagliare la tecnologia cinese fuori dalle reti Ue. “Non parteciperà nessuno che provenga dalla provincia dello Hubei” ha detto una fonte dell’azienda all’AGI, “la partecipazione del management che viene dalla Cina sarà limitata e tutti dovranno fare 14 giorni di quarantena prima di partecipare”. Anche Honor, il marchio nato da una costola di Huawei e pensato per la clientela giovane, sarà a Barcellona.

Anche Oppo e Xiaomi, due dei principali player cinesi nel mondo della telefonia mobile, con quote di mercato in continua crescita in Europa e in Italia, hanno confermato ad AGI che parteciperanno all’evento di Barcellona.

La franco-cinese Wiko ha deciso di non partecipare con uno stand di presentazione dei nuovi modelli, ma la scelta – si legge in una nota dell’azienda – non ha a che fare con l’epidemia di coronavirus quanto piuttosto con una strategia generale che vede il brand concentrarsi su attività più strategiche ed efficienti per i singoli mercati in cui è presente. “Una volontà che risponde all’obiettivo di Wiko di focalizzarsi su progetti che coinvolgano e interessino direttamente il consumatore finale e le sue community social” continua la nota, “la presenza di Wiko sarà pertanto focalizzata sul mercato spagnolo, ammettendo attività ad hoc rivolte al canale business, ai media di settore e ai principali partner e distributori dell’azienda”.

Agi

Trump ha imposto nuovi dazi su 300 miliardi di merci cinesi 

Gli Stati Uniti si preparano a tassare praticamente tutte le importazioni cinesi sul proprio mercato. A sorpresa il presidente americano, Donald Trump, ha fatto cadere la scure: ha annunciato l’imposizione di nuovi dazi del 10% sulle importazioni di beni cinesi per un valore di 300 miliardi di dollari a partire dal primo settembre. E’ l’ultima salve di una battaglia crescente che dura da più di un anno tra le due maggiori economie mondiali. L’annuncio è stato una doccia fredda per mercati: a Wall Street gli indici azionari hanno subito virato in negativo ed il Dow Jones è precipitato di 300 punti, il prezzo del petrolio è crollato a New York e chiuso in calo del 7,9%.

Gli Usa già tassano al 25% circa 250 miliardi di beni cinesi, soprattutto materiali e componenti industriali. I nuovi dazi potrebbero colpire i consumatori statunitensi piu’ duramente, colpendo merci come IPhone e prodotti elettrici di largo consumo, giocattoli, scarpe da ginnastica.

Trump, che ha minacciato che i nuovi dazi potrebbero addirittura salire ulteriormente al 25%, ha accusato Pechino di non aver mantenuto due promesse: acquistare prodotti agricoli dagli Usa (la soia, soprattutto, che gli consente di mantenere il consenso elettorale tra gli agricoltori americani) e di non aver arginato l’esportazione del fentanyl, il potente oppiaceo che semina vittime negli Stati Uniti. La Cina “aveva accettato di acquistare prodotti agricoli dagli Stati Uniti in grande quantità, ma non lo ha fatto. Inoltre, il mio amico presidente Xi ha detto che avrebbe interrotto la vendita di fentanyl negli Stati Uniti. Questo non è mai accaduto e gli americani continuano a morire”.

Trump aggiunto comunque che le parti riprendereanno un “dialogo positivo”. L’annuncio è arrivato dopo che la ‘due giorni’ di colloqui a Shanghai tra le delegazioni cinese e americana, il primo faccia a faccia dopo la tregua siglata al G20. I colloqui si sono conclusi senza risultati concreti anche se Casa Bianca aveva parlato di incontri “costruttivi”. Non è chiaro che cosa abbia indotto Trump, che negli ultimi mesi e’ oscillato tra ottimismo e minacce di ulteriore escalation, a indurire la sua posizione: l’annuncio però è arrivato dopo che in mattinata il presidente aveva ricevuto il rapporto del segretario al Tesoro, Steven Mnuchin e del rappresentante commerciale, Robert Lighthizer, sui loro incontri a Shanghai.

Già a maggio Trump aveva scioccato i mercati aumentando le tariffe al 25% (dal 10%) su $ 200 miliardi di beni cinesi. La Cina aveva reagito con ritorsioni e le tensioni che ne erano derivate hanno anche influenzato la banca centrale americana, la Federal Reserve, che mercoledì ha tagliato i tassi di interesse per la prima volta in un decennio. I negoziati, che sono in un vicolo cieco da maggio, riprenderanno a settembre. 

Agi

Ma davvero stiamo per essere invasi dalle auto cinesi?

La Cina entrerà nel mercato dell'auto europeo al volante di un'auto elettrica, dopo che per decenni i suoi modelli con motore a scoppio sono stati tenuti alla porta. La vera novità del salone dell'auto che si apre a Pechino non sono i 174 modelli elettrici che saranno presentati, ma i 124 che sono 'made in China'. E se il numero uno di Toyota, Kazuhiro Kobayashi, ammette che "la Cina è in una posizione di leadership nel mondo per le nuove tecnologie dell’auto elettrica" vuol dire che davvero l'Europa sta per essere invasa da auto cinesi. 

In realtà, secondo la rivista 'l'Automobile', quello tra l’industria automobilistica cinese e gli europei è un amore mai nato. Eppure in altri settori – come quello della telefonia cellulare – la diffidenza iniziale è stata superata e ora un marchio come Huawei​ incalza i big come Samsung e Apple e uno come Honor si fa spazio con prepotenza. Forza di milioni di euro spesi in promozione, ma anche di balzi in avanti sul fronte della tecnologia e della capacità di intercettare un bisogno dell'Occidente: avere accesso a prodotti di qualità che non costino quanto quelli di lusso. 

Il lusso per tutti

Per questo sul fronte dell’offensiva suv e crossover a trazione Great Wall ha creato uno spin-off: il marchio premium Wey che sembra disegnato e pensato per gli europei. Wei Jianjiun, a capo del gruppo Great Wall, spiega la strategia, come riporta l'Automobile: “Dare l’accessibilità a prodotti premium o di lusso a un maggior numero di persone e limitare i profitti sempre più alti delle joint venture con le case non cinesi”. 

Great Wall però non è la sola. A puntare l’Europa con un carico di suv e crossover è anche Chery che sempre attraverso un brand premium costruito appositamente per i mercati europei e nordamericani, Exeed, ha pronto un crossover compatto chiamato TX. Ci sono poi Lynk&Co. marchio nato da Geely, proprietaria di Volvo, che ha annunciato il lancio di un crossover in Europa nel 2019 e il ritorno dell’inglese MG (ora di proprietà della Saic di Shanghai) con un suv compatto e appuntamento fissato, anche in questo caso, nel 2019.


La svolta elettrica di 'Bandiera Rossa'

Hongqi –  "Bandiera Rossa" in cinese – è l'auto presidenziale, costruita nel 1958 dalla First Automobile Works. A distanza di 60 anni, grazie a una partnership tra il costruttore Faw  – di proprietà dello Stato – e il colosso Byton, cinese e guidato da ex dirigenti Bmw, la berlina tornerà in strada in versione moderna, naturalmente "indossando" un motore a batteria, racconta l'Automobile.


La differenza rispetto ai prodotti europei si vede sempre ma l’auto cinese è ora più matura. Il fatto di aver lavorato negli ultimi anni accanto ai migliori fornitori europei, come Bosch, ha fatto elevare il livello di componentistica, sistemi, accessori e finiture. Il management tedesco (il ceo di Wey ad esempio è un ex Audi) ha instaurato un processo di lavoro e decisionale, mai visto finora in un’industria automobilistica cinese. Dal punto di vista del powertrain poi, l’arrivo della normativa anti-inquinamento China VI attesa per il 2020 ha spinto i costruttori locali a migliorare il livello di efficienza dei motori a benzina (in Cina il diesel è prerogativa dei soli veicoli industriali). Gli incentivi erogati a pioggia in questi anni a Pechino e Shanghai a modelli elettrici e ibridi plug-in ha invece incrementato il know-how cinese in campo di elettrificazione. Al resto ci pensa una leadership sulle celle al litio mai messa in discussione, neppure dai coreani di LG Chem. 

La scommessa elettrica

Tesla, ricorda il Sole 24 Ore, vende 800-1.000 auto al mese in Cina con un dazio all’import del 25%. Da gennaio 2017 ha esportato 18 mila auto in Cina. Da oltre un anno Elon Musk sta negoziando con le autorità cinesi per aprire uno stabilimento nel Paese. Herbert Diess, nuovo ceo del gruppo Vw ha annunciato che svilupperà la joint venture con i partner cinesi con investimenti nei prossimi cinque anni per 15 miliardi di euro (+44% di spesa). Vw è molto apprezzato in Cina con i marchi premium Audi e Porsche e anche Vw: il 43% dei profitti lordi del gruppo tedesco arrivano dalla Cina, secondo Evercore Isi. Rafforzeranno le partnership anche Daimler e Bmw che potrebbe decidere di realizzare da sola il nuovo stabilimento cinese per le Mini elettriche.

Agi News

Alla fine i cinesi ci stanno rubando il lavoro o ne stanno creando di nuovo?

La Cina ruba lavoro agli altri? Nulla di più sbagliato: i dati raccontano una storia diversa e l’inarrestabile sviluppo cinese sta creando nuovi posti di lavoro. In tutto il mondo. Così un articolo apparso sull’agenzia Xinhua respinge indirettamente le accuse rivolte da più parti alla Cina – dalla concorrenza sleale alla mancanza di reciprocità – provando a smontare quelle che per l’agenzia di stampa statale sono false notizie, in un periodo di tensioni commerciali tra Pechino e Washington, e mentre nelle stesse ore l’Assemblea Nazionale del Popolo, il parlamento cinese, promette maggiori aperture agli investitori stranieri, più volte invocate anche dalle imprese europee. Proprio oggi il ministro degli Esteri, Wang Yi, ha dichiarato che la Cina “produrrà una risposta legittima e necessaria” in caso di guerra commerciale con gli Usa, ribadendo che il governo cinese è impegnato nel percorso di socialismo con caratteristiche cinesi e sottolineando il contributo della Cina a livello globale. "La Cina – ha detto Wang – è impegnata in una lunga marcia verso la modernizzazione e non ha la volontà o il bisogno di rimpiazzare l’America”. Nelle stesse ore sono stati resi noti i dati sull'export della Cina che vola a +11,2% a febbraio, mentre il surplus commerciale con gli Usa si riduce su base mensile, passando da 25,6 a 21 miliardi di dollari, pur raddoppiando rispetto ai 10,4 miliardi di dollari del febbraio 2017.

Il ragionamento del maggiore organo di stampa cinese parte da una questione di principio: “A rigor di logica – scrive Xinhua – nessun Paese può ‘rubare’ lavoro agli altri giacché ciascuno crea opportunità di lavoro per i propri cittadini sulla base del proprio sviluppo economico”. L’editoriale sottolinea poi come la Cina abbia sempre agito nel pieno rispetto delle regole internazionali; lo ha fatto quando era ancora un Paese sottosviluppato, continua a farlo oggi oggi che è diventata la seconda economia al mondo. Di più. La Cina ha sempre “lavorato con i partner commerciali per raggiungere risultati win-win”, un concetto molto caro alla leadership cinese. “Le aziende manifatturiere cinesi – si legge nel commento – espandono la propria presenza globale e assumono sempre di più lavoratori locali”. Ipse dixit. Così la retorica ufficiale prova dissipare i sospetti che si addensano sulla politica di investimento cinese. Un altro discorso riguarda invece il vorace acquisto di aziende strategiche americane ed europee che ha provocato anche a Bruxelles una levata di scudi. 

Xinhua cita l’esempio di Fuyao Group, azienda leader nella produzione di vetri auto, presente nella città di Moraine, nello stato dell’Ohio, con uno stabilimento di 470mila metri quadrati che dà lavoro a più di 2mila persone. Nel 2008, spiega Xinhua, la chiusura dell’impianto di assemblaggio della General Motors aveva causato la perdita di migliaia di posti lavoro ma “l’arrivo di Fuyao, il maggiore investimento cinese nella regione, è stato accolto come un fatto positivo dalla comunità locale”. Non sono mancati i problemi. Nel novembre dello scorso anno, scrive il New York Times, i lavoratori dello stabilimento di Fuyao hanno respinto in maggioranza, con 860 voti contrari e 444 a favore, la proposta di creazione di un sindacato interno, una vittoria per il management cinese dopo il durissimo braccio di ferro con l’agguerrita United Automobile Workers union che puntava a favorire politiche migliori per i dipendenti sul fronte di promozioni, ferie e aumenti. Un epilogo che però non ha messo a tacere le accuse sollevate da alcuni lavoratori, preoccupati da una gestione “rigida e arbitraria” dopo una raffica di licenziamenti per cattiva condotta. Fuyao – scrive Xinhua – punta a espandersi ulteriormente negli Stati Uniti e promette migliaia di assunzioni.

L’articolo sciorina altri dati ufficiali (qualcuno avrà forti dubbi sulla loro veridicità alla luce del vizio cinese di gonfiare i dati statistici interni, per stessa ammissione cinese). Secondo il China General Chamber of Commerce-USA, al 2016 la Cina ha investito oltre 20 miliardi di dollari in nove stati americani nel Midwest generando 45mila posti di lavoro. Se ci spostiamo in America Latina, i posti di lavoro creati dalle compagnie cinesi dal 1995 al 2016 sono stati 1,8 milioni, stando ai dati dell’International Labor Organization. Si tratta – sottolinea l’agenzia – di investimenti in settori vitali, quali alimentare, comunicazione, energia rinnovabile, che hanno “migliorato le infrastrutture locali e incrementato i consumi”.

Pechino sfoggia con orgoglio i primi risultati della Nuova Via Della Seta: 900 progetti di nuove infrastrutture, 780 miliardi di dollari generati dagli interscambi con i 60 paesi coinvolti, 200 mila nuovi posti di lavoro. Nell’ambito dell’iniziativa lanciata dal presidente Xi Jinping nel 2013 con l’obiettivo di collegare Asia, Africa ed Europa via terra e via mare, le aziende cinesi hanno investito circa 50 miliardi di dollari e aiutato a costruire 75 zone di cooperazione economica e commerciale in ben 24 Paesi. Sono i dati ufficiali del ministero del Commercio di Pechino.

Nei giorni scorsi lo stesso primo ministro Li Keqiang, nella sua relazione all’apertura dell’Assemblea Nazionale del Popolo, dopo aver annunciato il mantenimento del target di crescita intorno al 6,5% e l’innalzamento del budget militare, ha ribadito che la Cina intende concedere ulteriori aperture al mercato interno e ampliare la cooperazione industriale con altri Paesi. Tradotto: le aziende manifatturiere del gigante asiatico vogliono dominare sempre di più il mercato globale.

La Cina, conclude Xinhua, non è brava solo nel creare opportunità di lavoro nei Paesi dove investe, ma anche nell’attrarre talenti stranieri di cui ha bisogno per portare a termine il Piano di innovazione manifatturiera “Made in China 2025” che punta a trasformarla in pochissimi anni nel leader delle tecnologie più avanzate. Detto, fatto. “L’industria manifatturiera ad alta intensità tecnologica è cresciuta dell’11,7% negli ultimi cinque anni”, scrive Xinhua. Pechino ha sete di know-how ed è a caccia di talenti: solo nel 2016 sono stati 1.576 i professionisti stranieri a ottenere il permesso di residenza, in crescita del 163% rispetto all’anno precedente, stando ai dati elaborati dal ministero della Pubblica Sicurezza. I settori più richiesti? Tecnologia 5G, motori aeronautici, veicoli elettrici, nuovi materiali e macchinari. Avanti tutta. 

Agi News

In Italia una impresa su 10 è gestita da stranieri, soprattutto cinesi e marocchini

Continuano ad aumentare le imprese straniere nate e cresciute in Italia. Pur mostrando ritmi di crescita inferiori rispetto al passato, nel secondo trimestre 2017 il saldo tra aperture e chiusure di aziende guidate da persone non nate in Italia che hanno aperto un'attività nel nostro Paese fa segnare ancora un bilancio positivo che ha sfiorato le 7mila unità. Il sistema delle imprese straniere in Italia supera così quota 580mila e se nel 2011 pesava per il 7,2% sull’universo delle imprese totali, nel 2017 la loro incidenza è salita al 9,5%, indice di una popolazione immigrata sempre più attiva.

Questi i dati più rilevanti dell’indagine condotta da Unioncamere-InfoCamere a partire dai dati del Registro delle imprese delle Camere di commercio, sulla presenza in Italia di imprese guidate da persone nate all’estero, con riferimento al secondo trimestre del 2017.

 

Il settore più sviluppato resta il commercio

Il settore in cui le imprese di stranieri sono maggiormente presenti è quello del commercio (circa 208mila imprese, il 36% di tutte le aziende a guida straniera), seguito dalle costruzioni (132mila, il 23% delle straniere) e da alloggio e ristorazione e manifattura (entrambe prossime alle 45mila unità). Quasi un’impresa di stranieri su tre (il 31,8%) è artigiana. La regione più attrattiva per l’insediamento di imprenditori non italiani è la Lombardia con 113mila realtà, seguita dal Lazio (76mila) e dalla Toscana (54mila).

Marocco, Cina, Romania e Albania sono i Paesi con le comunità di imprenditori immigrati più numerose, facendo riferimento alle sole imprese individuali (le uniche per cui è possibile associare la nazionalità al titolare. Il Marocco, con 68.482 imprese individuali esistenti alla fine del giugno scorso, è la nazionalità più rappresentata; sugli altri gradini del podio la Cina (51.546 imprese) e la Romania (con 49.020).

Un trend costante negli ultimi 6 anni

Il dato di Unioncamere ricalca quello fornito a giugno da Confesercenti, che analizzava anche il tren degli ultimi anni. "Negli ultimi sei anni in Italia le imprese gestite da stranierisono cresciute del 25,8%, a quota 571.255 unità – leggiamo da Wired – mentre quelle in mano a imprenditori italiani sono diminuite del 2,7%. A decretarlo è Confesercenti, il sindacato che rappresenta 350mila piccole e medie imprese dell’artigianato, del turismo e dei servizi. Secondo l’associazione, “mentre gli imprenditori italiani continuano ancora a scontare gli effetti della crisi, le attività condotte da persone nate fuori dall’Italia non smettono di aumentare”. E le stime del sindacato prevedono che, di questo passo, nel 2021 gli stranieri gestiranno 711.898 imprese in Italia. Roma è la “capitale indiscussa dell’imprenditoria straniera, con oltre 48.413 attività non italiane, cresciute di un impressionante 165% negli ultimi sei anni”, recita la nota ufficiale di Confesercenti. Milano è seconda con 33.496 attività, Torino terza a 16.660 mentre a Firenze l’incidenza delle 7.684 imprese straniere sul totale è del 17,3%, la più alta d’Italia".


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