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I costi di spedizione dei container dalla Cina in Usa e Ue sono quadruplicati

AGI – Circa un milione di container all’anno non potranno più essere spediti dalla Cina all’Europa per ferrovia attraverso il territorio russo a causa delle sanzioni imposte a Mosca dopo l’invasione dell’Ucraina. Lo segnala ExportUSA, società di consulenza che affianca circa un migliaio di imprese italiane nel mercato americano. La società ha stimato che questi container dovranno obbligatoriamente essere spediti in Europa via mare, aggravando una situazione già critica sia in termini di costi che in termini di disponibilità fisiche di container.

I noli marittimi dalla Cina verso la California, si legge in una nota, sono quadruplicati rispetto ad un anno fa. E a febbraio 2022, e prima ancora a settembre dello scorso anno, l’aumento rispetto all’anno prima era già stato di dieci volte. Il costo medio di spedizione da Shanghai a Los Angeles di un container da 40 piedi nel periodo gennaio 2011 – marzo 2021 è stato di 3.500 dollari. Attualmente, varia dai 18 ai 20 mila dollari. Una emergenza che interessa anche centinaia di imprese italiane che lavorano negli Stati Uniti.

Per quanto riguarda le spedizioni attuali da Italia a Stati Uniti, si legge ancora nella nota di ExportUSA, il costo di spedizione dei container varia da porto a porto: dai 10 ai 12 mila dollari contro i 3.500 dollari della situazione antecedente alla crisi generata dalla pandemia. Mentre vi è una variazione da 14 a 15 mila dollari da punto interno a punto interno.

“Queste sono le stime più attuali. Precisiamo, peró, che a seguito della chiusura del porto di Shanghai, ci sono attualmente 500 navi container bloccate: i costi di spedizione potrebbero, quindi, ulteriormente aumentare”. Non solo: questa recente chiusura, potrebbe portare al blocco di intere produzioni comportando stalli nei cantieri e, di conseguenza delle filiere su scala globale.

Spiega Lucio Miranda, presidente di ExportUSA: “Il contesto e la struttura normativa per superare i problemi legati alla supply chain esiste già: non serve inventare la ruota. Basterebbe inserirsi nel Rapporto sullo stato della supply chain pubblicato dalla Casa Bianca il 24 febbraio 2022, al cui interno le principali agenzie federali hanno individuato le categorie merceologiche per le quali sussiste una criticità nel mercato americano. Tengo a sottolineare che all’interno del rapporto redatto dalla Casa Bianca, l’orientamento dell’Amministrazione Biden è quello di superare l’offshoring puntando al Friend Shoring. Esistono quindi tutti i presupposti per approfondire il dialogo con gli Stati Uniti in maniera concreta, presentando le aziende italiane attive nelle categorie merceologiche interessate”.


I costi di spedizione dei container dalla Cina in Usa e Ue sono quadruplicati

Germania e Cina si contendono il primato del mercato delle auto elettriche

AGI – Segnali di ripresa per il settore delle auto.

Vendite in Cina più che quadruplicate a febbraio

Su base annuale nel mese sono salite a 1,18 milioni di unità. A febbraio del 2020 le vendite erano affondate del 79% a causa dell’inizio dei lockdown

A febbraio di quest’anno sono state vendute 97.000 auto elettriche, sette volte in più rispetto all’anno precedente, ma il 38% rispetto a gennaio.

Tesla ha venduto 18.318 Model 3 e Model Y prodotte a Shanghai a febbraio. Dal 2020 la Cina sta offerto vari sussidi e incentivi per aiutare a incrementare le vendite. Negli ultimi mesi, le autorità di regolamentazione cinesi hanno annunciato ulteriori aiuti e la costruzione di più strutture di ricarica per le auto elettriche.

Sale la produzione di autoveicoli in Italia

In Italia la produzione di autoveicoli a gennaio è salita del 13,5% rispetto allo stesso mese del 2020 (dati corretti). Lo rende noto l’Istat. Il dato grezzo segna un aumento del 6,4%.

La Germania invece spinge sul green, numero due mondiale

Nel 2020 le immatricolazioni di auto elettriche sono aumentate a livello record del 264% a 394.632 da 108.530 nel 2019. Si tratta del tasso di crescita più alto a livello mondiale.

La Germania è ora al secondo posto dietro la Cina in termini di nuove immatricolazioni, relegando gli Stati Uniti al terzo posto. La Francia è quarta con il numero di nuove immatricolazioni che sale a 194.700, un tasso di crescita del 180%.

Anche i tassi di crescita in Danimarca (245%), Italia (250%), Spagna (136%) e Regno Unito (140%) sono stati alti, anche se il numero assoluto di veicoli in questi mercati è ancora relativamente basso. 


Germania e Cina si contendono il primato del mercato delle auto elettriche

Neanche Covid ferma il boom immobiliare in Cina

Neanche la pandemia da coronavirus è riuscita a fermare il boom immobiliare cinese, la più grande bolla speculativa mondiale, che il Wall Street Journal stima in 52 mila miliardi di dollari. Dopo una breve pausa durante il lockdown a febbraio, il boom immobiliare cinese in alcune megalopoli, che molti ritenevano insostenibile, ha ripreso la sua inarrestabile ascesa, con i prezzi che volano e gli investitori che continuano a correre dietro alle offerte, nonostante i milioni di posti di lavoro persi e gli altri problemi economici, a partire dalla ripresa rallentata, che affliggono l’economia cinese.

Perché i cinesi rincorrono il ‘mattone’?

A marzo, nota il Wsj, 288 appartamenti in un nuovo complesso immobiliare di Shenzhen sono stati venduti online in meno di otto minuti. Pochi giorni dopo, gli acquirenti inseguito più di 400 unità offerte in un nuovo complesso residenziale a Suzhou. A Shanghai, le vendite di appartamenti si sono avvicinate ad un nuovo livello record ad aprile e a Shanzhen circa 9.000 persone hanno lasciato un deposito di un milione di yuan (141.300 dollari) per mettersi in lista per l’acquisto di nuovi appartamenti.  

“Ho avuto a malapena il tempo per il pranzo nei fine settimana di marzo” quando il mercato ha iniziato a riprendersi, ha detto al Wsj Zhao Wenhao, agente con sede a Shanghai presso Lianjia, una delle più grandi società di intermediazione immobiliare cinese. Molti clienti temono che la valuta cinese si deprezzi a causa del rallentamento economico globale, ha spiegato, e questo spinge ancora più denaro nel ‘mattone’, considerato come in ‘paradiso’ degli investimenti.      

Fin dove può arrivare la bolla speculativa

La bolla patrimoniale cinese, dicono molti economisti, ora eclissa quella degli alloggi degli Stati Uniti degli anni 2000. Al culmine del boom immobiliare Usa, circa 900 miliardi di dollari l’anno venivano investiti in immobili residenziali. Nei 12 mesi terminati a giugno, circa 1.400 miliardi di dollari sono stati investiti nel mercato immobiliare residenziale cinese. E il mese scorso in questo comparto i cinesi hanno investito più di qualsiasi altro mese registrato. Il valore totale delle case in Cina, secondo Goldman Sachs, che fa riferimento agli inventari degli sviluppatori, ha raggiunto la cifra stratosferica di 52.000 miliardi di dollari nel 2019, due volte il valore del mercato residenziale degli Stati Uniti e persino più dell’intero mercato obbligazionario degli Stati Uniti. La pausa di mercato del coronavirus non è durata a lungo.

I prezzi delle case urbane in Cina sono aumentati del 4,9% a giugno rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Gli investimenti da inizio anno sono aumentati dell’1,9% nella prima metà dell’anno, nonostante un forte calo delle vendite a febbraio. E giovedì la Cina ha dichiarato che la sua economia è cresciuta del 3,2% nei tre mesi chiusi al 30 giugno, risultando cos’ il primo Paese al mondo a uscire dalla crisi del Covid-19 con un Pil in rialzo. Cina Evergrande, il più grande costruttore di case del Paese, ha aumentato il suo obiettivo di vendita per il 2000 del 23%, dopo le forti vendite di marzo.    

L’altra faccia della medaglia

Tuttavia, la rapida ripresa del mercato immobiliare, non è solo una buona notizia per Pechino, ma rappresenta anche una preoccupazione, visto che il governo centrale ha ripetutamente cercato di impedire ai prezzi immobiliari di sfuggire al controllo. Nel 2017 il presidente cinese Xi Jinping ha dichiarato che “le case sono costruite per essere abitate, non per speculazione”. Ed è diventato un mantra per la politica abitativa del governo. Questi allarmi non hanno però scoraggiato gli investitori, anche perché gli acquirenti hanno capito che il governo non sembra disposto a lasciare cadere il mercato, che rappresenta una ‘gallina dalle uova d’oro’ per gli immobiliaristi ma anche per il fisco e i risparmiatori. 

“La domanda speculativa è in aumento perché tutti vedono le abitazioni come un bene più sicuro del mercato azionario o delle attività all’estero”, commenta Gan Li, professore di economia presso la Texas A&M University. “Pensano che sia garantito. A causa della pandemia, in realtà consumano meno e risparmiano di più. Quindi avranno effettivamente più soldi disponibili per investire. Ciò creerà un problema abitativo ancora più grande”.

Ma la corsa alla seconda casa non si ferma

Nel 2017 circa il 21% delle case della nelle aree urbane cinesi Cina era vacante, una percentuale molto elevata rispetto agli standard internazionali, che equivaleva a 65 milioni di unità vuote, secondo i dati più recenti del China Household Finance Survey. Tra le famiglie che possiedono due proprietà, il tasso di posti vacanti ha raggiunto il 39,4% e tra quelli che ne possedevano tre o più, il 48,2% risulta vuoto.

I rendimenti degli affitti sono inferiori al 2% nelle principali città come Pechino, Shanghai, Shenzhen e Chengdu, meno di quanto si possa fare acquistando titoli di stato cinesi. Tuttavia, Shannon Bi, un’insegnante di inglese di 42 anni, ha affermato che la pandemia l’ha spinta a investire in una seconda casa a Shenzhen prima del previsto, perché si preoccupa dell’inflazione. “Devi investire il denaro da qualche parte, o si deprezzerà solo”, ha spiegato. Insomma, il boom immobiliare cinese ha preso vigore dalla pandemia e non accenna a diminuire, alimentando la bolla speculativa.
 

Agi

La guerra dei dazi tra Cina e Stati Uniti, tappa per tappa 

Primo accordo tra Usa e Cina sui dazi: scongiurato l’aumento delle tariffe che sarebbero dovute scattare il 15 dicembre. Trump conferma la sospensione dei dazi al 15% su quasi 160 miliardi di dollari di prodotti made in China, a cui Pechino avrebbe risposto con tariffe su 3.300 prodotti statunitensi. Ecco le principali tappe da marzo del 2018, tra turbolenze e schiarite.

2018 – 8 MARZO: IMPOSTA SU ACCIAIO, ALLUMINIO Il presidente Donald Trump annuncia tariffe del 25% sulle importazioni di acciaio e del 10% sull’alluminio da diversi paesi nel tentativo di ridurre l’enorme deficit commerciale degli Stati Uniti. Nel 2017 il deficit ha raggiunto 566 miliardi di dollari, di cui 375 miliardi di dollari con la Cina, il più grande produttore mondiale di acciaio e alluminio. 

22 MARZO: LA RISPOSTA DELLA CINA Alla vigilia della loro applicazione, Trump sospende le tariffe per diversi paesi ma non per la Cina. Pechino risponde con una lista di 128 prodotti statunitensi su cui si dice che imporra’ dazi doganali del 15-25% se i negoziati con Washington falliranno.

19 MAGGIO: SEGNI DI RICONCILIAZIONE I due paesi annunciano una bozza di accordo in base al quale Pechino accetta di ridurre “significativamente” il suo surplus commerciale. Nelle settimane successive, la Cina compie diversi gesti di conciliazione, riducendo i dazi doganali, eliminando le restrizioni e offrendo di acquistare beni statunitensi extra.

6 LUGLIO: RICOMINCIANO LE TENSIONI Nonostante i segnali distensivi, gli Stati Uniti, riaccendono le tensioni mettendo dazi del 25% su circa 34 miliardi di dollari di importazioni cinesi tra cui auto, dischi e componenti di aerei. Pechino risponde con tariffe di pari dimensioni e portata, anche su prodotti agricoli, automobili e prodotti navali.

23 AGOSTO: IL RILANCIO DI TRUMP Washington decide l’imposizione di tariffe su altri 16 miliardi di dollari di merci cinesi, esattamente il giorno dopo la ripresa dei negoziati. La Cina risponde con tariffe del 25% su 16 miliardi di dollari di merci americane, tra cui le moto Harley-Davidson, bourbon e il succo d’arancia.

24 SETTEMBRE: DA WASHINGTON ALTRI DAZI La Casa Bianca decide di mettere tariffe del 10% su 200 miliardi di dollari di importazioni cinesi. Pechino impone dazi doganali su 60 miliardi di dollari di merci americane.

1 DICEMBRE: LA TREGUA L’amministrazione Usa sospende per tre mesi l’aumento tariffario dal 10 al 25% che sarebbe dovuto scattare il 1 gennaio su 200 miliardi di dollari di merci cinesi. La Cina, dal canto suo, accetta di acquistare una quantità “molto consistente” di prodotti statunitensi e sospende per tre mesi, a partire dal 1 gennaio, tariffe aggiuntive per le automobili e i ricambi auto prodotti negli Stati Uniti. Allo stesso tempo permette le importazioni di riso americano.

2019 – 10 MAGGIO: RIPRENDONO LE OSTILITA’, OBIETTIVO HUAWEI Washington pone fine alla tregua, aumentando i dazi su 200 miliardi di dollari di importazioni cinesi. Trump apre un nuovo fronte nella guerra commerciale e il 15 maggio decide di impedire alle aziende americane l’utilizzo di apparecchiature di telecomunicazione straniere ritenute un rischio per la sicurezza. Una mossa contro il gigante cinese Huawei. Il Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti annuncia anche il divieto per le aziende Usa che vendono o trasferiscono tecnologia statunitense a Huawei. Il 20 maggio tuttavia stabilisce una sospensione di 90 giorni del divieto.

29 GIUGNO: NUOVE NEGOZIAZIONI Al G20 di Osaka, Trump e il presidente Xi Jinping stabiliscono un cessate il fuoco. Washington si impegna a non imporre nuove tariffe e Trump dichiara che i negoziati commerciali sono “di nuovo in carreggiata”. I negoziatori americani e cinesi si incontrano a Shanghai il 30 e 31 luglio per colloqui che vengono definiti “costruttivi” e decidono di continuare le discussioni a settembre.

1 AGOSTO: NUOVE SANZIONI AMERICANE Accusando Pechino di non aver rispettato le promesse di acquistare prodotti agricoli Usa e fermare la vendita dell’oppioide fentanil, Trump annuncia tariffe del 10% su altri 300 miliardi in merci cinesi a partire dal 1 settembre. La decisione significa che praticamente tutti i 660 miliardi di dollari di scambi annuali tra le due maggiori economie del mondo saranno soggetti a dazi. Pechino minaccia contromisure.

5 AGOSTO: LA GUERRA VALUTARIA La Cina permette allo yuan di scendere sotto le 7,0 unità rispetto al dollaro per la prima volta in 11 anni. Washington accusa Pechino di manipolare la sua moneta per sostenere le sue esportazioni ma la Banca centrale cinese nega. I media statali cinesi annunciano che Pechino ha sospeso gli acquisti delle esportazioni agricole americane.

1 SETTEMBRE: TARIFFE INCROCIATE Diventano operative nuove tariffe al 15% su prodotti cinesi per un valore di 112 miliardi di dollari. E sempre dal primo settembre partono ‘i controdazi’ di Pechino, che porta dal 5 al 10% i dazi su alcuni prodotti Usa inclusi i semi di soia, le auto e il petrolio, per un giro d’affari di 75 miliardi di dollari. Sul fronte States, le nuove tariffe colpiscono 3.800 prodotti, il 60% dei quali di largo consumo (dai vestiti alle tv a schermo piatto, dagli elettrodomestici alle carni). Dal primo ottobre poi – secondo i piani dell’amministrazione Usa – i dazi del 25% già in vigore su 250 miliardi di merci cinesi (soprattutto prodotti industriali o semilavorati) saliranno al 30%. E dal 15 dicembre gli Usa minacciano di applicare l’aliquota del 15% su altri 160 miliardi di import.

2 SETTEMBRE: IL RICORSO AL WTO La Cina presenta un ricorso al Wto contro gli Stati Uniti per gli ultimi dazi imposti.

12 SETTEMBRE: USA POSTICIPANO DAZI AL 15 OTTOBRE Trump annuncia lo slittamento di due settimane dell’aumento dei dazi sui beni cinesi importanti negli Usa per 250 miliardi di dollari. L’entrata in vigore delle nuove tariffe viene cosi’ posticipate dal primo al 15 ottobre prossimo.

11 OTTOBRE: NUOVA TREGUA E ‘FASE 1’ DELL’INTESA Trump annuncia dopo aver incontrato il vice presidente cinese Liu He, al termine della due giorni di negoziati a Washington: “Siamo arrivati alla fase uno di un accordo sostanzioso”. Congelati gli aumenti tariffari del 5% su 250 miliardi di beni cinesi importati negli Usa che sarebbero altrimenti scattati dal prossimo 15 ottobre. La parziale intesa comprende i servizi finanziari, i prodotti agricoli e progressi sul contenzioso relativo alla proprietà intellettuale. La Cina acconsente all’acquisto di prodotti agricoli statunitensi per 40-50 miliardi di dollari. Affrontato separatamente il nodo Huawei.

26 NOVEMBRE: STRETTA FINALE Usa e Cina sono alla “stretta finale” sul negoziato: “Sta andando molto bene, ma allo stesso tempo vorremmo che andasse altrettanto bene a Hong Kong”, dice Trump, dopo che i principali negoziatori di Washington e Pechino si sono sentiti telefonicamente per dare gli ultimi ritocchi alla Fase 1 dell’accordo.

28 NOVEMBRE: TRUMP FIRMA LEGGE CONTRO HONG KONG Il presidente Usa firma la legge a sostegno dei manifestanti pro democrazia a Hong Kong. Hong Kong esprime “estremo rammarico” e la Cina minaccia “dure contromisure”.

13 DICEMBRE: RAGGIUNTA FASE UNO DELL’INTESA L’accordo sospende l’introduzione di nuove tariffe, sia da parte degli Stati Uniti che della Cina, il 15 dicembre. Trump conferma la sospensione dei dazi al 15% su quasi 160 miliardi di dollari di prodotti made in China, a cui Pechino avrebbe risposto con tariffe su 3.300 prodotti statunitensi. 

Agi

È la sfiducia reciproca a impedire un’intesa tra Cina e Usa sui dazi

La sfiducia reciproca tra Usa e Cina rende difficile il negoziato sui dazi, ma il raggiungimento di un’intesa sarebbe utile a entrambi i Paesi. Secondo gli analisti, il rallentamento dell’economia legato alla guerra commerciale tra i due colossi rischia di produrre danni pesanti.

E se Pechino rischia di deragliare, anche a Washington non manca chi comincia a preoccuparsi per una visione che negli “ultimi tre o quattro anni si è fatto sempre più ostile” nei confronti del Dragone, come fa notare sulle colonne del Wall Street Journal Stephen Hadley, che è stato consigliere per la Sicurezza nazionale di George W. Bush. È un dato di fatto che tra tutte le scelte politiche fatte da Donald Trump, proprio la guerra commerciale con la Cina sia stata quella che ha registrato meno contrasti.

E, anzi, è stata applaudita in modo quasi bipartisan. Le ragioni non mancano: Pechino, scrive il quotidiano statunitense, non si è dimostrato un partner affidabile per le imprese, ha accentuato il carattere bellicoso nei confronti dei Paesi vicini e ha continuato a reprimere il dissenso. Il rischio però è che il confronto stia scivolando verso un punto di rottura.

La questione, rileva sempre sul Wsj l’ex segretario al Tesoro, Henry Paulson, “è che abbiamo un atteggiamento verso la Cina ma non una politica nei confronti della Cina. La Sicurezza nazionale, l’Fbi, la Cia, il dipartimento della Difesa trattano la Cina come un nemico e i membri del Congresso competono tra loro per vedere chi si dimostra più ‘falco’. Nessuno naviga controvento, fornisce equilibrio. Tanto che c’è da chiedersi chi possa realisticamente fare qualcosa che abbia una qualche possibilità di ottenere risultati che non siano dannosi per la nostra economia e gli interessi della sicurezza nazionale nel lungo periodo”.

L’analisi prevalente nelle stanze del potere a Washington sembra ignorare che la storia della Cina è in direzione di una sempre maggiore integrazione internazionale e non il contrario. E che la Cina, afferma Susan Thornton, che ha avuto incarichi di alta responsabilità in Asia orientale per il dipartimento di Stato sotto le amministrazioni Obama e Trump, non è un monolite ma “un vasto Paese, molto complicato da governare e pieno di costanti spinte contrastanti all’interno del sistema”.

A spingere per un’intesa è anche l’andamento dell’economia. Gli effetti della guerra commerciale, sottolinea Alberto Conca, responsabile degli investimenti di Zest asset management, cominciano a farsi sentire “negativamente sia sui dati macroeconomici sia sulle aspettative”.

E Trump potrebbe finire per pagare questo rallentamento in termini elettorali. Che poi è quello che si augurano i suoi avversari. Come l’ex presidente della Federal Reserve di New York, William Dudley, che ha irritualmente esortato l’istituto centrale statunitense a non toccare i tassi d’interesse anche in caso di frenata del Pil per azzoppare la rielezione dell’attuale inquilino della Casa Bianca.

Ma a rischiare di rimanere scottata dallo scontro sui dazi è soprattutto la Cina. Secondo S&P il Pil di Pechino, dopo anni di boom a due cifre, crescerà in media del 4,6% nel prossimo decennio. Un risultato naturale e salutare per un’economia divenuta più matura, nota la società di rating, ma che la guerra commerciale in corso con gli Usa rischia di rendere difficile da gestire.

“Più la Cina si localizza”, afferma Shaun Roache, capo economista per l’area Asia-Pacifico dell’agenzia di classificazione, “più lentamente sembra destinata a crescere”. Pechino ha bisogno di aumentare la sua produttività e per farlo non può prescindere dalla tecnologia straniera.

Anche per questo Washington si sente in vantaggio nella guerra commerciale in corso. “Il messaggio alla Cina”, conclude Hadley, “dovrebbe essere: fissiamo le regole di ingaggio. Ma non commettete errori. Se non riuscissimo a far funzionare le cose e precipitassimo in un combattimento a mani nude, saremo pronti e vinceremo”. 

Agi

Trump ha ordinato l’aumento dei dazi su tutto l’import dalla Cina

Il presidente Donald Trump ha ordinato di alzare le tariffe su praticamente tutti i prodotti importati negli Usa dalla Cina che non sono ancora stati colpiti dalla politica dei dazi. La mossa è stata annunciata a meno di 24 ore dall’aumento delle tariffe dal 10% al 25% su 200 miliardi di dollari di prodotti cinesi importati negli Usa perché non è stato raggiunto un accordo commerciale con Pechino. “Il presidente ha anche ordinato di avviare il processo di aumento delle tariffe essenzialmente su tutte le altre importazioni dalla Cina vengono valutate in circa 300 miliardi”, è stato l’annuncio in una nota del rappresentante al Commercio Usa, Robert Lighthizer.

I dettagli sulle nuove tariffe saranno pubblicati lunedì sul sito del Rappresentante al Commercio Usa, in vista della decisione finale, ha spiegato Lighthizer. Dallo scorso anno, Usa e Cina hanno imposto dazi all’import reciproci per oltre 360 miliardi di dollari, frenando l’export di prodotti a stelle e strisce e con un impatto sulla produzione manifatturiera di entrambi i Paesi. 

Agi

La Cina sta usando le tecnologie di riconoscimento facciale per sorvegliare gli Uiguri

La Cina sta utilizzando il riconoscimento facciale per sorvegliare uno specifico gruppo etnico, la minoranza degli Uiguri. Lo rivela un’inchiesta del New York Times. Né la tecnologia né la possibilità di usarla nei sistemi di sorveglianza sono una novità. Ma se in occidente il controllo su base etnica è stato indicato come un effetto collaterale, in Cina è un obiettivo dichiarato.

Le fonti del giornale statunitense spiegano che, in alcune aree, vengono effettuate 500.000 scansioni del viso al mese. “Se in un quartiere dove vive di solito un uiguro ne vengono rilevati sei, scatta immediatamente un allarme”. Si tratta del primo esempio noto di un governo che usa di proposito l’intelligenza artificiale per profilare la popolazione in base all’etnia.

Il sistema intercetta i volti degli uiguri e ne traccia i movimenti in città come Hangzhou, Wenzhou e Sanmenxia. A partire dal 2018, “quasi due dozzine di dipartimenti di polizia, in 16 diverse province” hanno richiesto l’utilizzo del riconoscimento facciale. Le autorità che lo utilizzano parlano apertamente di “identificazione delle minoranze”. Anche se, secondo i testimoni del Nyt, dietro questa espressione si nasconderebbe esclusivamente la sorveglianza degli uiguri.

Per far funzionare gli algoritmi, l’intelligenza artificiale viene nutrita con gli archivi di pregiudicati e di chi ha fatto uso di sostanze stupefacenti. Dietro la fornitura del riconoscimento facciale ci sono alcune startup cinesi, come Yitu, Megvii, SenseTime e CloudWalk, che valgono oltre un miliardo di dollari ciascuna.

Il loro valore è aumentato grazie alle politiche di Pechino (dopo i programmi di investimento nel settore) e al supporto di alcuni grandi investitori occidentali. Fidelity International e Qualcomm Ventures hanno puntato su SenseTime e Sequoia su Yitu. Lo sviluppo del riconoscimento facciale non è certo un’esclusiva cinese. Amazon, tra le altre, sta esplorando la stessa strada con il servizio Rekognition.

Il sistema, sperimento sul campo negli Stati Uniti, è stato però molto discusso per le possibili derive sul controllo etnico, per la sua fallibilità (troppi, ancora, i “falsi positivi”) e per alcune distorsioni (è meno efficace sui volti di donne e persone di colore). Amazon e altre società hanno però sottolineato l’efficacia per la sicurezza pubblica, negando un utilizzo su base razziale. Quello che negli Stati Uniti e in Europa è un timore, in Cina è una realtà.

Agi

Come è andato il secondo giorno di Di Maio in Cina

Secondo giorno di visita a Chengdu, nel sud-ovest della Cina, per Luigi Di Maio. Il vicepremier e ministro per il Lavoro e lo Sviluppo Economico ha inaugurato il Padiglione Italia alla Western China International Fair, dove l'Italia è Paese ospite d'onore. Di Maio era accompagnato dal vice premier cinese, Hu Chunhua. "Per me è stato un grande onore e un grande orgoglio essere qui a rappresentare il nostro Paese", ha scritto Di Maio su Instagram.

La tappa di Di Maio a Chengdu, nella provincia del Sichuan, è stata anche l'occasione per sottolineare il valore "strategico" della relazione bilaterale. È attesa nelle prossime ore la firma dell'accordo sino-italiano sugli investimenti nei Paesi terzi, e in particolare quelli africani.  Si tratta di un accordo sui cui la diplomazia italiana, guidata dall'ambasciatore italiano a Pechino Ettore Sequi, lavorava da tempo e che il sottosegretario allo Sviluppo economico, Michele Geraci, aveva annunciato al termine della sua prima missione esplorativa in Cina

L'intesa, ha aggiunto Di Maio, "ci eleva al ruolo di partner privilegiato della Cina", con cui Di Maio punta a rafforzare i rapporti economici con un altro accordo, che ritiene possibile entro fine anno, sull'iniziativa Belt and Road (Bri) di connessione infrastrutturale euro-asiatica, lanciato dal presidente cinese, Xi Jinping, nel 2013.

Cosa scrivono i giornali cinesi sulla visita di Di Maio

La stampa cinese ha colto il messaggio. Il Quotidiano del Popolo, massimo organo del Partito Comunista Cinese, dedica alla visita un articolo sul sito online dal titolo: “Peng Qinghua incontra Di Maio, vice premier italiano. Una testimonianza congiunta per la firma degli accordi di cooperazione tra Sichuan e Italia”. L’articolo riporta fedelmente le dichiarazioni del vice premier alla stampa, e sottolinea l’importanza degli accordi bilaterali Italia-Sichuan, che Di Maio ha firmato con Peng, per la provincia sud-occidentale che Pechino ha trasformato negli ultimi anni in un hub strategico con l’obiettivo di rivitalizzare l’economia dell’Ovest della Cina, meno sviluppato rispetto alla parte orientale, e di velocizzare i traffici delle merci ferroviari e fluviali nell’ambito del mastodontico progetto Belt and Road.

La visita di Di Maio campeggia nelle colonne della stampa locale, a partire dal Sichuan Daily. Segno che la leadership ha apprezzato che la prima visita istituzionale del vicepremier italiano abbia toccato il cuore pulsante del nuovo sviluppo cinese.

Il Daily Economic News titola invece: “Vice premier italiano: auspica una proficua collaborazione tra Italia e Cina e vuole facilitare l’ingresso delle merci nei rispettivi mercati”, un articolo che coglie il senso del messaggio del governo italiano, che per bocca di Maio ha sottolineato come prima della firma del Memorandum of Understanding per la cooperazione sulla Via della Seta debbano essere risolte "alcune questioni per noi dirimenti", tra cui l'abbattimento delle barriere non tariffarie per favorire le esportazioni, soprattutto dei prodotti dell'agro-alimentare, e le possibilità di investimento sia nei porti italiani che nella tecnologia.

Leggi anche: Di Maio è andato in Cina a collegare l’Italia alla Via della Seta

Un rapporto svela i commerci tra Italia e i Paesi Bri

Dati confortanti sull’interscambio commerciale tra l’Italia e i Paesi che si stendono lungo la Via della Seta (in tutto 53), arrivano dal rapporto Nomisma – Centro Studi sulla Cina Contemporanea "L'Italia e il progetto Bri, le opportunità e le priorità del sistema paese", cofinanziato dal ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale e presentato presso la Camera dei deputati. Nel decennio compreso tra 2006 e 2016 il commercio intra-paesi Bri è aumentato dell'84% tra i paesi dell'area e del 17,6% tra l'Italia e l'area Bri.

La Cina movimenta il 23% degli scambi commerciali che avvengono nell'area. Al secondo posto per rilevanza si trovano India e Singapore, con una percentuale di scambio tre volte inferiore alla Cina (7%). La Bri, emerge dallo studio, ha un ruolo fondamentale per il commercio estero dei molti piccoli paesi che ne fanno parte. Ad esempio l'export del Bhutan è esposto per il 96% verso l'area, seguito dall'Afghanistan (92%), dal Laos (91%), Tajikistan (89%), Nepal (88%), Myanmar (81%); anche i paesi che commerciano meno vantano quote comprese tra il 40 e 30%.

Il rapporto concentra lo sguardo sull'Italia, e rileva che il deficit di bilancio commerciale verso i Paesi Bri si è ridotto nel tempo dagli circa 50 miliardi di dollari del 2011 agli 11 miliardi del 2016; ciò è in gran parte dovuto al calo del costo dei prodotti energetici. Infatti all'interno dell'area Bri si trovano molti Paesi Opec e la Russia.

Tra le prime categorie di prodotto esportate dall'Italia vi sono macchinari e apparecchi (25%), prodotti tessili, abbigliamento, pelli e accessori (12%), metalli di base e prodotti in metallo (10,9%), mentre l'Italia importa dai paesi Bri molti beni a domanda rigida come commodities, prodotti agricoli, metalli. Anche se la bilancia è in deficit, secondo quanto sottolineato nella ricerca, "un'intensificazione degli scambi sarebbe da considerarsi a favore dell'Italia".

I paesi dell'area Bri in cui l'Italia ha maggiore penetrazione sono quelli "europei" (che rappresentano il 53% dell'export italiano), seguiti dalla Cina verso la quale converge il 10% dell'export italiano.

Prossima tappa Shanghai

La firma del MoU sancirebbe l'ingresso ufficiale dell'Italia nella Nuova Via Della Seta. Nel frattempo, Di Maio ha confermato che sarà a Shanghai a novembre prossimo per la prima edizione della China International Import Expo, su cui il governo cinese punta moltissimo e alla quale è previsto anche un intervento dello stesso presidente cinese, Xi Jinping, in apertura.

Le opportunità di cooperazione con il Paese asiatico passano soprattutto, per Di Maio, attraverso le relazioni tra governi. "I nostri settori di mercato reclamano una maggiore presenza del governo nei rapporti con il governo cinese per rafforzare ulteriormente sia le partnership economiche sia quelle legate all'ambiente e alla cultura", ha dichiarato il vice premier, "ed è per questo che investiremo sempre di più nei rapporti g-to-g", ha assicurato il vicepremier. 

Ha collaborato Wang Jing

Leggi anche: Non solo guerra agli scafisti sui migranti: tutti i piani strategici dell'Italia in Africa

 

Agi News

Trump: “Noi americani veniamo spennati da tutti, anche dall’Ue e dalla Cina”

"Siamo il salvadanaio del mondo ma veniamo spennati dalla Cina, dall'Unione europea e virtualmente da tutti coloro con cui facciamo business". Così il presidente Donald Trump durante la conferenza stampa congiunta con il presidente polacco Andrzej Duda alla Casa Bianca. Ieri il presidente Usa ha annunciato nuovi dazi del 10% su 200 miliardi di importazioni cinesi.

Agi News

Perché Trump ha deciso di rompere la tregua commerciale con la Cina

Donald Trump ha fatto saltare la tregua commerciale con la Cina proprio mentre chiede a Pechino un appoggio nei delicati negoziati nucleari con la Corea del Nord. La Casa Bianca annuncia che procederà sulla strada dei dazi, rinnovando l’intenzione di imporre tariffe del 25% sull’importazione di beni tecnologici cinesi per un valore di 50 miliardi di dollari. Non solo: imporrà limiti agli investimenti cinesi e all’acquisto di tecnologia.

Immediata ma composta la risposta del Ministero del Commercio di Pechino, che definisce la nuova presa di posizione del presidente americano “contraria al consenso raggiunto tra le due parti a Washington”.  Appena una settimana fa sembrava che fosse stata scongiurata la guerra commerciale tra le due principali economie del pianeta, quando il vice premier Liu He era volato a Washington per il secondo round di colloqui sul commercio; i due Paesi avevano raggiunto un accordo che prevedeva l’aumento delle importazioni Usa da parte di Pechino per ridurre il surplus commerciale nei confronti degli Stati Uniti (375 miliardi di dollari).

Trump, perso l’iniziale ottimismo, aveva detto di non essere contento: la tregua, per lui, era solo “all’inizio”. In quel momento era apparso chiaro come il negoziato per evitare la 'trade war' fosse entrato in una nuova fase delicata, sovrapponendosi a quello nucleare con la Corea del Nord.

Perché Trump ci ripensa

Secondo quanto scrive La Stampa, gli americani hanno raggiunto la pax commerciale per due motivi: primo, ottenere dal presidente cinese Xi Jinping un aiuto per convincere Kim Jong-un a procedere con il disarmo nucleare (lo avevamo scritto qui); secondo, la vittoria del ministro del Tesoro Steven Mnuchin  – convinto sostenitore della tregua – nella sfida interna che lo vedeva contrapposto al segretario al Commercio degli Stati Uniti, Wilbur Ross, e al consigliere Lighthizer.

Il dietrofront di Trump arriva proprio a pochi giorni dalla missione asiatica di Ross, atteso a Pechino il 2 giugno per il nuovo round di colloqui sul commercio. La Cina, ha ribadito la portavoce del ministero degli Esteri Hua Chunying, “non vuole una guerra ma non ha paura di combatterla”. Ma resta aperta al proseguimento dei negoziati.

L’annuncio delle nuove sanzioni da parte dell’imprevedibile presidente americano potrebbe essere volto a fare concessioni più concreti in vista della ripresa delle trattative. Una “mossa tattica”, secondo Lester Rosso, a capo dell’ufficio politico della Camera di Commercio americana in Cina.

La stampa cinese

Durissimi gli attacchi della stampa cinese. Il Global Times, uno dei giornali più intransigenti, descrive la mossa avventata degli Stati Uniti come frutta di una “delusione” e avverte che Washington potrebbe ritrovarsi a “ballare da sola”. Il China Daily torna a definire "prive di fondamento” le ripetute accuse rivolte a Pechino di forzare le aziende statunitensi che operano in Cina a trasferire la tecnologia. 

L'ombra di Kim

Non è escluso che dietro al passo indietro si celi l’ombra di Kim. Trump sospetta che Xi abbia convinto il leader nord-coreano a mettere in discussione il vertice di Singapore per ottenere maggiori concessioni sui delicati negoziati commerciali.  Dopo un tesissimo tira e molla, il summit ha ripreso quota. Usa e Corea del Nord hanno stabilito un contatto diretto: nelle ore scorse è volato a New York un emissario del dittatore, Kim Chang-son. Trump potrebbe dunque aver deciso di riaprire il fuoco con Pechino.

Nel mirino anche gli studenti cinesi

La rappresaglia si estende anche ai cittadini cinesi. Gli Usa si apprestano a imporre limiti su alcuni visti rilasciati in particolare a studenti di scienza e tecnologia  – 600 mila all’anno – per gli studi in settori che rientrano nel Made in China 2025. Del resto il piano industriale che punta sui big data è il vero bersaglio di Trump.  Gli studenti cinesi, scrive il South China Morning Post, non sono preoccupati dalle misure che saranno applicate dal prossimo 11 giugno. 

I dazi colpiranno tecnologia e strumenti per la medicina

La lista dei prodotti a cui saranno applicati dazi, secondo quanto riportato dalla Casa Bianca, sarà compilata in base all’elenco di prodotti tecnologici passibili di dazi resa nota ad aprile scorso, e verrà divulgata il 15 giugno prossimo, mentre le restrizioni agli investimenti e i controlli sulle importazioni verranno resi noti il 30 giugno prossimo. La decisione, spiega il comunicato emesso dalla Casa Bianca, è stata presa in base alla sezione 301 dello Us Trade Act del 1974, utilizzata per le indagini dello Us Trade Representative, Robert Lighthizer, su possibili violazioni della proprietà intellettuale. La mossa rientra nei passi messi in atto dagli Usa per “proteggere la tecnologia interna e la proprietà intellettuale da certe pratiche commerciali pesanti e discriminatorie della Cina”, conclude il comunicato.  

Zte e Qualcomm

La lezione di Zte, finita nel mirino di Washington (potrà tornare a fare business negli Stati Uniti a patto che paghi una multa di 1,3 miliardi di dollari e modifichi il management, mentre aumenta l’avversità dei senatori repubblicani) insegna alla Cina che deve affrettarsi a rendersi indipendente sul versante dello sviluppo tecnologico.  Uno dei settori nei quali gli americani temono di perdere l’egemonia è proprio l’intelligenza artificiale. Nel nuovo braccio di ferro tra Washington e Pechino rischia di restare stritolato anche il colosso dei processori Qualcomm, la cui proposta di acquisto dell’aziende cinese di semiconduttori NXP è in attesa dell’approvazione dell’antitrust cinese.

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