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Trump: “Noi americani veniamo spennati da tutti, anche dall’Ue e dalla Cina”

"Siamo il salvadanaio del mondo ma veniamo spennati dalla Cina, dall'Unione europea e virtualmente da tutti coloro con cui facciamo business". Così il presidente Donald Trump durante la conferenza stampa congiunta con il presidente polacco Andrzej Duda alla Casa Bianca. Ieri il presidente Usa ha annunciato nuovi dazi del 10% su 200 miliardi di importazioni cinesi.

Agi News

L’accordo sull’Ilva ottenuto da Di Maio ha soddisfatto tutti. Anche Calenda

Una vera e propria trattativa-fiume di 18 ore al termine della quale sindacati e ArcelorMittal hanno trovato l'accordo sull'Ilva. Un tavolo iniziato ieri e terminato oggi pomeriggio con tanto di maratona notturna sotto la supervisione del ministro dello Sviluppo economico, Luigi Di Maio.

L'ipotesi di intesa sarà sottoposta, entro una settimana, al referendum dei lavoratori all'esito del quale seguirà la firma ufficiale. Sarà anche revocato lo sciopero proclamato per l'11 settembre. In sintesi l'accordo prevede: l'assunzione di 10.700 lavoratori invece dei 10.300 della proposta avanzata ieri; un piano di incentivi all'esodo volontario che preveder 100.000 euro lordi per il lavoratore che decidesse di andare via subito; 4,2 miliardi di investimenti da parte di ArcelorMittal sul piano industriale e ambientale (TPI).

L'intesa, ha sottolineato Di Maio, rappresenta "il miglior risultato possibile nella peggiore situazione possibile" e scongiura la possibilità di annullare la gara. Ora, ha proseguito il ministro, il "vero" obiettivo è rilanciare Taranto e il governo si metterà a lavoro "per una legge speciale" per la città, "stanziando le risorse in legge di bilancio".

A sottolineare l'importanza della partita anche le parole del premier Giuseppe Conte secondo cui nella vertenza Ilva "è stato raggiunto un risultato di assoluta eccellenza. Devo ringraziare Di Maio – ha aggiunto – per aver svolto un lavoro egregio. Ci siamo sentiti questa notte. Siamo partiti da una situazione difficile ed è stata superata con un percorso costruito dal Governo" (Il Post).

Soddisfatti i sindacati. "Dopo una lunga notte di trattativa – hanno rilevato la segretaria generale della Fiom, Francesca Re David e il segretario nazionale della Cgil Maurizio Landini – abbiamo finalmente siglato l'ipotesi di accordo, grazie anche al ruolo decisivo del Governo per lo sblocco della vertenza. Esprimiamo grande soddisfazione perché abbiamo ottenuto gli obiettivi che ci eravamo prefissati.

ArcelorMittal ha accolto molte delle condizioni poste dalle Fiom-Cgil". Quella sull'Ilva "è stata la trattativa più lunga e complessa della moderna storia sindacale. Ora – ha spiegato il segretario generale della Uil Carmelo Barbagallo – occorre dare attuazione all'accordo perchè si puo' e si deve guardare al futuro dei lavoratori e della città di Taranto in una prospettiva di sviluppo e di salvaguardia della sicurezza e dell'ambiente" (Il Sole 24 Ore).

Su Twitter arrivano i complimenti anche dell'ex ministro dello Sviluppo Carlo Calenda, che in passato ha criticato più volte Di Maio, ma oggi scrive: "Una grande giornata per #ILVA,per l’industria italiana e per Taranto.Finalmente possono partire gli investimenti ambientali e industriali.Complimenti a aziende e sindacati e complimenti non formali a Luigi Di Maio che ha saputo cambiare idea e finalmente imboccare la strada giusta" (La Repubblica).

Sulla stessa linea la Cisl che con la segretaria generale Annamaria Furlan evidenzia l'importanza della "firma dell'accordo" rimarcando l'atteggiamento "pragmatico e responsabile" delle parti. Anche per il presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia, si tratta di "un bel segnale per il Paese". Insomma, ha concluso l'amministratore delegato di Arcelor Mittal, Matthieu Jehel, al termine della trattativa, "oggi è l'inizio di un lungo percorso per fare dell'Ilva una impresa più forte e più pulita". 

Agi News

Il costo per i trolley in cabina introdotto da Ryanair vale anche sui biglietti già emessi

Una compagnia low cost sempre meno low cost, Ryanair ha annunciato che dal primo giorno di novembre entrerà in vigore la loro nuova politica sui bagagli. La situazione per chi vorrà viaggiare a prezzi stracciati (o a prezzi vagamente più onesti rispetto a quelli esorbitanti di altre compagnie, bisogna vedere da che punto di vista viene vista la vicenda) sarà la seguente: se si vorrà portare a bordo un secondo bagaglio, più grande rispetto a quello a mano, ormai tarato sulla grandezza dello spazio sottostante il sedile, si avranno due possibilità: o acquistare il classico imbarco prioritario che prevede un sovrapprezzo di 6-8 euro, del quale però possono usufruire 95 passeggeri sui 189 totali; oppure far viaggiare la valigia nella stiva pagando in più tra gli 8 e i 10 euro.

Il tutto non farà piacere ma rientra nelle facoltà dell’azienda scegliere i prezzi dei propri voli, se non fosse che la nuova politica riguarda anche chi ha già prenotato un biglietto per aerei che decollano dopo il primo novembre e che quindi si sono visti recapitare tramite email l’avviso del prezzo aumentato di un biglietto già acquistato, ben prima dell’annuncio della compagnia. Una nuova policy applicata retroattivamente. Una decisione che chiaramente sta facendo infuriare gli utenti che stanno portando avanti una protesta serrata tra i commenti ai post della compagnia su Facebook. Una compagnia che parlando con il Corriere della Sera si difende così: “La novità consentirà di eliminare i ritardi e ha costi più bassi per i bagagli in stiva”, spiega un portavoce di Ryanair. “La metà dei passeggeri salirà con la doppia valigia visto che avrà acquistato il “Priority boarding”.

E a chi ipotizza ricavi ulteriori l’azienda replica che “dal momento che per l’oggetto in stiva si pagherà di meno — da 25 euro per quello da venti chili a 8 euro per quello da dieci — i ricavi da questa voce caleranno”. Un’analisi del Corriere sui bilanci stima invece che gli introiti aggiuntivi si aggireranno sui 500 milioni di euro l’anno nel 2019-2020. Sul tema entra in gioco nuovamente una vecchia conoscenza di Ryanair, l’Agcm (Autorità garante della concorrenza e del mercato), contro la quale la compagnia si era già scontrata a gennaio quando aveva introdotto una nuova policy, sempre sui secondi bagagli più grandi, che sarebbero finiti in stiva gratuitamente per tutti quelli non in possesso di un biglietto prioritario. Anche quel provvedimento venne applicato in maniera retroattiva, costringendo in molti ad integrare un biglietto già comprato con il sovrapprezzo della Priority. In quel caso, dopo numerosi ricorsi, la compagnia, per evitare di pagare sanzioni, ha deciso di rimborsare il costo del supplemento ad un tot di passeggeri, che dovrebbero aggirarsi tra le 30 e le 50 mila unità, la cifra non è mai stata confermata.

Ora una nuova scelta altamente impopolare potrebbe di nuovo mettere alle strette Ryanair e da aspettare c’è solo la reazione delle autorità, dopo quella evidentemente arrabbiata dei loro utenti.

Agi News

Di Maio ha detto che Salvini deve restare ministro anche se indagato 

Il ministro dell'Interno Matteo Salvini è indagato e il lavoro della magistratura va rispettato. Ma Salvini non ha violato il codice etico dei ministri contenuto nel contratto di governo, quindi "deve continuare a fare il ministro in questo momento". è quanto sottolinea il vicepremier Luigi Di Maio, che in un lungo intervento su Facebook dice di "voler fare chiarezza" su "alcuni fatti accaduti negli ultimi giorni".

"Il ministro Salvini è indagato, gli sono contestati alcuni reati dal pubblico ministero e credo che quello sia un atto dovuto in quanto ministro dell'Interno. Come ci si comporta in questi casi? Prima di tutto – osserva Di Maio – ricordiamoci che nel nostro contratto di governo c'è anche il codice etico dei ministri e secondo questo (che è anche il codice del movimento 5 Stelle) il ministro dell'Interno deve continuare a fare il ministro in questo momento". E aggiunge: "C'è comunque pieno rispetto" per l'azione della magistratura. 

Il ministro dell'Interno Matteo Salvini ieri è stato iscritto nel registro degli indagati per sequestro di persona, arresto illegale e abuso d'ufficio, nell'ambito dell'inchiesta sul caso "Diciotti" insieme al capo di gabinetto del ministro. "Essere indagato per difendere i diritti degli italiani è una vergogna", aveva detto ieri il ministro dell'Interno dal palco della festa leghista di Pinzolo. Il vicepremier aveva incassato la solidarietà degli alleati di un centrodestra che, per una volta, si ritrova compatto. Per Giorgia Meloni quello dei pm di Agrigento è "un atto sovversivo", e il governatore della Liguria, l'azzurro Giovanni Toti, chiede addirittura il blocco navale. Ma nessuno dei 5 stelle aveva parlato prima di Di Maio oggi su Facebook. 

La decisione della procura di Agrigento è arrivata al termine della missione romana del procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio che ha trasmesso gli atti alla procura di Palermo per il successivo passaggio "al tribunale dei ministri della stessa città".

 

Agi News

Amazon deve 250 milioni al Lussemburgo, ma la cosa interessa anche noi

Dopo GoogleApple​ e Facebook, il martello della giustizia di Margrethe Vestager, Commissario Ue alla Concorrenza, si abbatte su un altro gigante della Silicon Valley. L'antitrust di Bruxelles ha chiesto ad Amazon​ di restituire i 250 milioni di euro di vantaggi fiscali illegali concessi a Lussemburgo, il piccolo Stato che, dal 1995 al 2013, fu governato dall'attuale presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker. E ad attivarsi per recuperare la somma dovrà essere lo stesso granducato.

"Tre quarti degli utili non sono tassati"

"Grazie ai vantaggi fiscali concessi dal Lussemburgo ad Amazon", ha spiegato in conferenza stampa Vestager, circa tre quarti degli utili di Amazon non sono tassati. In altri termini, Amazon ha potuto pagare 4 volte meno tasse rispetto alle altre società locali sottoposte alle stesse regole fiscali nazionali.È una pratica illegale rispetto alle regole Ue in materia di aiuti di Stato: gli Stati Ue non possono accordare alle multinazionali dei vantaggi fiscali selettivi a cui le altre società non hanno accesso".

La replica dell'azienda

L'inchiesta era stata aperta dalla Commissione nell'ottobre del 2014. L'agevolazione, varata nel 2003 e riconfermata nel 2011, consentiva al gruppo di trasferire la maggior parte degli utili realizzati dalla sua divisione locali, soggetta alle regole nazionali (Amazon Eu), a una che non lo era (Amazon Europe Holding Technologies). L'inchiesta dell'Antitrust Ue ha dimostrato che i trasferimenti erano eccessivi e privi di valide giustificazioni.  "Non abbiamo ricevuto nessun trattamento speciale dal Lussemburgo e abbiamo pagato tutto il dovuto, in accordo con il Lussemburgo e con le leggi internazionali", replica Amazon che, prevedibilmente, farà appello.

Oxfam: "Questi favori li pagano cittadini e Pmi"

"Il trattamento privilegiato, sancito da accordi fiscali segreti, riservato alle multinazionali dai governi di tutto il mondo, permette un alleggerimento inaccettabile delle imposte a beneficio dei grandi colossi internazionali", commenta Aurore Chardonnet, policy advisor di Oxfam, "a pagarne il prezzo sono i cittadini, privati di risorse erariali necessarie a potenziare i servizi pubblici come sanità ed istruzione, di misure di sostegno al lavoro e lotta alla povertà, e le piccole e medie imprese nazionali, vittime di una concorrenza sleale da parte delle imprese multinazionali'.

"Dobbiamo ristabilire nella pratica il principio che le imposte vanno versate laddove gli utili d'impresa sono generati e pretendere dai governi una battuta d'arresto alla corsa globale al ribasso sulla fiscalità d'impresa", conclude la Chardonnet, "va introdotto al più presto, a partire dalla proposta votata a luglio al Parlamento Europeo, l'obbligo di rendicontazione pubblica Paese per Paese (country-by-country reporting) per tutte le multinazionali che operano nell'area economica europea. Va inoltre adeguata ai nostri tempi la tassazione delle imprese digitali e più in generale promosso un modello di tassazione unitaria dei grandi colossi multinazionali'".

Agi News

Cosa sappiamo degli uragani: come nascono, perché aumentano, come si studiano e quali effetti producono sull’economia anche nel tempo

Questo articolo è il primo di una serie di approfondimenti (gli americani lo chiamano long form journalism) di Agi. Obiettivo: fare chiarezza, in modo semplice e il più esaustivo possibile, sui grandi temi di attualità (il prossimo sarà sul nucleare). Come metodologia di lavoro abbiamo scelto di mettere in campo le competenze che stiamo sperimentando ormai da un anno nei campi del data journalism e del fact-checking. Quello che vi apprestate a leggere è dunque un approfondimento condotto in pool dai nostri giornalisti con i colleghi di Formicablù (Marco Boscolo) e di Pagella Politica (Giovanni Zagni). L'articolo può essere letto dall'inizio alla fine, oppure, andando direttamente alle sezioni di interesse, cliccando sui titoli del sommario che trovate qui sotto.  La realizzazione di questo contenuto è sponsorizzata da Eni

Cosa sono gli uragani e come si formano 

Uragani sugli Usa, aumentano i più disastrosi

Cambiamenti climatici e uragani: un sospetto che non è certezza

I 'cacciatori di uragani', fegato e stomaco forte

Uragani & dollari, l'incerto effetto sull'economia

 
 

Cosa sono gli uragani e come si formano

 

I cicloni tropicali sono tra i fenomeni naturali più potenti e distruttivi. Quelli che si formano nell’Oceano Atlantico prendono il nome di uragani (compreso il Mar dei Caraibi e il Golfo del Messico). In Asia sono chiamati tifoni.

Sono prodotti da una complessa fenomenologia atmosferica, determinata da centri di minima pressione e aspirazione originati dalle elevate temperature equatoriali. E’ in questi centri che convergono i venti, con un moto spiraliforme suscitatore dei vortici. L’ampiezza dei cicloni può raggiungere un diametro di centinaia di chilometri.

Chiunque risieda in un’area interessata a questi fenomeni deve essere preparato a conviverci. Basti pensare – secondo la guida redatta dal National Weather Service della National Oceanic and Atmospheric Administration statunitense, aggiornata nel 2013 – che dal 1970 al 2010 il numero medio annuo di questi fenomeni è stato di 11 tempeste tropicali, di cui sei diventate uragani nell’area Atlantico-Caraibi-Golfo del Messico; di 15 tempeste tropicali, di cui otto diventate tifoni nell’Oceano Pacifico Orientale; di quattro tempeste tropicali, di cui due diventate tifoni nell’Oceano Pacifico Centrale.

I rischi da giugno a novembre

In un periodo medio di due anni, la costa degli Stati Uniti è colpita mediamente da tre uragani, di cui uno classificato “major hurricane”.  Sia gli uragani sia le tempeste tropicali mettono a rischio grave le vite e i beni, anche per i danni causati dalle piogge torrenziali e dalle inondazioni.

Un ciclone tropicale viene classificato uragano quando la velocità dei venti va da 74 miglia orarie (119 chilometri orari) in su. La stagione degli uragani va dal primo giugno al 30 novembre, con i fenomeni più intensi da metà agosto alla fine di ottobre. (Nel Pacifico Orientale dal 15 maggio al 30 novembre. Nel Pacifico nordoccidentale i cicloni possono colpire tutto l’anno).

Un disastro che ispirò Shakespeare

Memorie delle tempeste tropicali si ritrovano, naturalmente, in molte culture e da migliaia di anni. Probabilmente, la prima cronaca di un ciclone atlantico appare nei geroglifici Maya. In tempi moderni, memoria dei più devastanti uragani è rimasta viva negli Stati Uniti e si è trasfusa anche nella letteratura. Nel 1609, una flotta che trasportava coloni dalla Gran Bretagna alla Virginia fu colpita da un uragano. Alcune imbarcazioni trovarono riparo alle Bermuda e divennero, quei passeggeri, i primi abitatori delle Isole. La loro storia ispirò “La Tempesta” di William Shakespeare.

I cicloni hanno anche influito sulla storia: la Francia perse il controllo della costa atlantica del Nord America nel 1565, quando un uragano ne disperse la flotta permettendo agli spagnoli di conquistare Fort Caroline, vicino all’attuale città di Jacksonville in Florida. Nel 1640 un uragano distrusse parte di una grande flotta olandese che si accingeva ad attaccare Cuba, mentre un altro nel 1666 si abbatté sulle sorti del governatore britannico delle Barbados, Lord Willoughby, lasciando pochi superstiti di una flotta di 17 navi e circa duemila uomini, che furono catturati dai francesi.

Il vento soffia sulla storia

Secondo alcuni studiosi, le calamità del 1640 e del 1666 avrebbero contribuito a determinare il controllo degli spagnoli su Cuba e della Francia su Guadalupe. Più di due secoli dopo, durante la guerra con la Spagna, il presidente americano William McKinley dichiarò di temere più un uragano della flotta nemica. Fu difatti lui a favorire la nascita di un servizio di allerta sugli uragani, precursore dell’attuale NHC (National Hurricane Center).

Si riporta di seguito la Scala Saffir-Simpson, usualmente impiegata per stabilire la categoria degli uragani in base alla velocità e ai danni che possono produrre.

Irma tornerà nel 2023

Dal 1953, le tempeste tropicali atlantiche hanno un nome proprio secondo liste redatte dal NHC. Sono tenute e aggiornate secondo le procedure del comitato internazionale della World Meteorological Organization. Nel grafico sopra, la lista relativa a quest’anno. Gli elenchi sono sei in tutto e sono utilizzati a cadenza annuale ricorrente (quindi i nomi del 2017 saranno nuovamente utilizzati nel 2023). Ha fatto eccezione il nome di Katrina, che per la gravità dei disastri e delle vittime causate nel 2005 è stato abolito su richiesta del governo americano (e sostituito dall'appellativo Katia già nel 2011).

 

 

Uragani sugli Usa, aumentano i più disastrosi

 

Con l’arrivo di Irma il computo totale degli uragani di categoria 4 e 5 che dal 1853 hanno colpito il territorio degli Stati Uniti sale complessivamente a 150. E il “tassametro” continuerà a correre, forse con maggiore velocità. I dati provengono dalla National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA), l’agenzia statunitense che si occupa della meteorologia, e in particolare dal National Hurricane Center, che tiene a precisare come si tratti dei soli uragani osservati e registrati: soprattutto per i periodi più lontani, altri uragani – e non si sa di che entità e in che quantità – mancano all’appello. I numeri comunque non raccontano alcuni aspetti della storia. Negli ultimi 17 anni, e la stagione degli uragani 2017 non è ancora terminata, sono dieci gli eventi di categoria 5, un numero già vicino ai 14 che hanno toccato il suolo americano tra 1950 e 1999.

Settembre è il mese più nero

Per rendersi conto dell’aumento della frequenza con cui questo tipo di eventi atmosferici estremi si presenta sulla costa atlantica americana abbiamo diviso il numero di uragani per il numero di anni presi in considerazioni, spezzettati a mezzo secolo alla volta. Il risultato generale è che rispetto al cinquantennio 1900-1949, nei diciassette anni dal 2000 a oggi il numero medio di uragani di categoria 4 o 5 è più che raddoppiato, passando da poco meno di uno all’anno (0,82) a due (2,06).

Arrivato all’inizio di settembre, Irma conferma che storicamente è questo il mese in cui si presentano più uragani di grande potenza. Dei 32 di categoria 5 registrati dal NOAA, infatti, ben 18 sono arrivati a settembre.

 

Alle ore 12 del 12 settembre scorso, le vittime accertate di Irma erano 46, un numero relativamente basso rispetto a quello che raccontano i dati sugli uragani di categoria 5 degli ultimi vent’anni. C’è sempre da ricordare che quando una perturbazione atlantica si abbatte sugli Stati del Golfo del Messico, non vengono colpiti solamente gli Usa, ma diversi altri Paesi. Così il record di vittime spetta a Mitch, che nel 1998 si è abbattuto sulla Florida dopo avere già devastato, tra gli altri, Honduras (circa 7000 vittime) e Nicaragua (quasi 4000).

 

Sul fronte dei danni economici causati da Irma, è ancora presto per avere delle stime affidabili. Come racconta un articolo di Bloomberg.com, la cifra potrebbe oscillare tra i 50 e i 200 miliardi di dollari. Per dare una prospettiva storica all’aspetto economico di eventi di questa portata, abbiamo raccolto i dati che riguardano gli ultimi 10 uragani di categoria 5, dove spicca uno degli uragani più mediatici di sempre, Katrina, che nel 2005 ha colpito in pieno una grande città come New Orleans.

 

Sulla carta abbiamo mappato gli spostamenti degli stessi uragani. I dati provengono dal servizio Hurdat2 del National Hurricane Center che mette a disposizione i dati di tutti i rilevamenti. Ogni scia colorata rappresenta un diverso uragano e cliccando su ognuno dei pallini si possono conoscere velocità del vento e pressione atmosferica in un determinato momento della vita di questi fenomeni. La mappa mette ben in evidenza anche una caratteristica tipica degli uragani atlantici: il loro punto di origine sulla costa dell’Africa occidentale, dove i venti secchi che spirano dal Sahara incontrano l’aria umida dell’Atlantico.

 

Cambiamenti climatici e uragani: un sospetto che non è certezza

 

Esistono luoghi dove gli uragani si formano con maggiore frequenza? E se sì, sono gli Stati Uniti a essere i più colpiti?

Si è detto che la distinzione tra uragani, tifoni e cicloni è solo nel nome, ma si tratta dello stesso fenomeno atmosferico. Se si verifica nelle regioni dei Caraibi, nell’Atlantico settentrionale – come quelli che interessano gli Stati Uniti – e nel Pacifico nordorientale viene denominato “uragano”, da Huracan, una divinità centroamericana.

Nel Pacifico nordoccidentale – quando colpisce ad esempio la Cina, il Giappone o le Filippine – si chiama “tifone”, mentre nell’Oceano Indiano e nel Pacifico sudoccidentale (Australia, India, Bangladesh) la denominazione è “ciclone tropicale” o altre simili.

Quasi tutte le tempeste tropicali nel mondo si originano nelle zone dei Tropici, perché man mano che ci si avvicina ai Poli la superficie del mare è troppo fredda per la loro formazione. Per l’influsso di alcune correnti fredde, poi, ci sono zone oceaniche quasi non interessate dal fenomeno, soprattutto nell’emisfero australe.

Quella che ha visto gli uragani delle ultime settimane, l’area dell’Oceano Atlantico settentrionale, non è la zona più colpita: le tempeste più potenti nascono nel Pacifico occidentale, seguito dall’Oceano Indiano. L’Atlantico è solo al terzo posto per numero totale delle tempeste, e quelle che interessano Stati Uniti e Caraibi sono meno del 15 per cento del totale globale.

Tra il 2006 e il 2016 ci sono stati 121 eventi atmosferici paragonabili agli uragani nell’area del Pacifico orientale, contro i 70 dell’Atlantico settentrionale. E anche sul fronte delle tempeste tropicali da record, il Pacifico ha diversi primati dalla sua: se avete visto le simulazioni che sovrappongono l’uragano Irma alla mappa dell’Europa, e ne siete rimasti impressionati, pensate a cosa dovette essere il supertifone Tip, che nel 1979 passò nei pressi di Guam, e al suo massimo era largo circa 2.200 chilometri – più o meno metà degli Stati Uniti continentali.

Più segnalazioni con più traffico marittimo

Gli studi dicono che gli uragani nell’area dell’Atlantico, negli ultimi cento anni circa, non sono aumentati di numero in modo significativo. O meglio: quelli rilevati sono di più rispetto all’inizio del Novecento, ma con ogni probabilità questo dipende solo dal fatto che molte più navi, oggi, attraversano l’Oceano e quindi ne viene segnalato un numero maggiore. Se guardiamo a quelli che sono arrivati fino alla terraferma americana, ad esempio, alla fine dell’Ottocento ce ne furono leggermente di più.

Gli uragani, però, potrebbero essere diventati più grandi, più intensi, in una parola più distruttivi. Qui viene naturale il collegamento: le attività umane che modificano il clima, come l’emissione di gas serra, hanno già portato a un aumento nell’intensità degli uragani? Oppure la porteranno nel prossimo futuro? La risposta che danno oggi gli studi si può riassumere in modo molto semplice: è presto per dirlo, ma c’è qualche indizio che sia così. Il punto sulla questione lo fa il Laboratorio Geofisico di Fluidodinamica (GFDL) del NOAA, l’agenzia federale americana che si occupa di meteorologia.

I ricercatori scrivono che “è prematuro concludere che le attività umane – e in particolare le emissioni di gas serra che causano il riscaldamento globale – abbiano già avuto un impatto misurabile sugli uragani atlantici o i cicloni tropicali a livello globale”.

Ma se non ci sono ancora certezze sul presente, per il futuro le previsioni sono più cupe.

I danni aumenteranno del 30%

Se il riscaldamento globale continuerà al ritmo attuale, gli uragani più intensi probabilmente aumenteranno in frequenza e intensità di qui alla fine del XXI secolo, almeno in alcune aree. Queste previsioni sono state raggiunte non solo per la zona dell’Atlantico – gli uragani in senso stretto – ma per tutte le tempeste tropicali nel mondo, come ha concluso uno studio del 2010 dell’Organizzazione Meteorologica Mondiale.

Il cambiamento climatico influisce sulle tempeste tropicali, come gli uragani, in diversi modi: da un lato alza la temperatura alla superficie del mare, che favorisce la formazione e l’intensità degli uragani, mentre dall’altro riscalda la parte dell’atmosfera chiamata troposfera superiore e aumenta la variazione verticale dell’intensità e direzione del vento (un effetto chiamato wind shear). Questi ultimi due effetti contrastano la formazione di uragani.

Qual è l’effetto di queste spinte in senso contrario? Secondo i modelli elaborati dai meteorologi, nel complesso il numero degli uragani potrebbe perfino diminuire, ma diventando più intensi e con maggiori piogge. Uno studio del 2010 prevede un aumento del 30 per cento nei potenziali danni nell’area dell’Atlantico entro la fine del secolo, e un altro vede un raddoppio degli uragani di categoria 4 e 5 (le più alte) nello stesso periodo.

I "cacciatori di uragani", fegato e stomaco forte

 

“È come entrare in un autolavaggio con un gruppo di gorilla che saltano sopra la macchina”. Descrive così l’esperienza di volare dentro a un uragano Jim Hitterman, tenente colonnello dell’Air Force americana. Nel corso della sua ultraventennale carriera di pilota militare, è salito decine di volte su di un aereo speciale in dotazione a una particolare squadra di specialisti, gli Hurrican Hunters (letteralmente “cacciatori di uragani”) che portano gli strumenti di rilevazione scientifica dentro agli occhi dei cicloni per conoscerli da vicino. La loro storia è diventata un reportage di Reuters.

Anche in Italia ci sono scienziati che hanno fatto l’esperienza di Hitterman e colleghi. Uno di loro è Antonio Ricchi, ricercatore dell’Istituto di Scienze Marine (ISMAR-CNR) di Venezia. Solo qualche settimana fa ha partecipato a un training europeo congiunto a Shannon, la stessa città irlandese dove ha sede Ryanair, e per cinque giorni ha fatto voli di raccolta dati in un grande ciclone che si trova vicino all’Islanda. Volare dentro a un uragano, con venti e turbolenze fortissime non è un’esperienza per stomaci deboli e comporta alcuni rischi. “Durante uno dei voli”, racconta Antonio Ricchi, “stavamo attraversando il fenomeno a circa 30 metri di quota sul mare, con venti a circa 80 km/h e io ero addetto al doppler. Hanno vomitato tutti tranne il pilota e io ho avuto un mancamento”.

Il gioco vale la candela

Viste le difficoltà, allora, perché effettuare questo tipo di voli? Il punto fondamentale è che sull’Oceano c’è quello che in gergo tecnico viene chiamato “buco osservativo”: non ci sono che rilevazioni indirette di quello che avviene. Inoltre, durante una tempesta nessuna nave passa in quel tratto di mare. Senza gli aerei, si usano le immagini satellitari, ma non sono così precise come i dati che si possono raccogliere sul posto. Per esempio, per quanto riguarda la temperatura del mare, dal satellite si può dedurre quella dei primi millimetri di superficie, ma con un uragano che “provoca onde di 10 o 12 metri, si tratta di una misura di utilità limitata”, spiega Ricchi. “Anche la velocità del vento è calcolata indirettamente misurando dalle immagini del satellite lo spostamento delle nubi”.

Oltre a essere un limite alla conoscenza scientifica di questi fenomeni atmosferici, i dati indiretti rappresentano un problema per l’accuratezza dei modelli previsionali, le simulazioni che permettono di prevedere quando e con che intensità un uragano colpirà la terraferma. "Se ci basiamo solamente sulle immagini satellitari", spiega Ricchi, “torniamo alle previsioni meteo del colonnello Bernacca negli anni Settanta: buone per domani, ma non a più giorni. Sarebbe come continuare a osservare un fenomeno guardandolo solo in due dimensioni”, mentre i voli degli Hurricane Hunters aggiungono la terza dimensione.

L'occhio di Irma

Il 5 settembre scorso un aereo dell’Office of Marine and Aviation Operation della National Oceanic and Atmospheric Administration americana (NOAA) è volato dentro l’occhio di Irma. Le immagini del centro della tempesta, visibili soprattutto nella seconda parte di questo video, sono spettacolari: dopo aver attraversato strati di nuvole dense che provocano l’effetto autolavaggio di cui parlava Hitterman, la telecamera di bordo mostra una specie di anfiteatro bianco, con muri altissimi di nuvole che circondano un ovale di cielo azzurro. È l’occhio di Irma.

Ma oltre alle immagini spettacolari, questo tipo di missioni permette di raccogliere moltissimi dati. Non si tratta solo di informazioni dirette, di prima mano, rispetto a quelle dedotte dal satellite. Trovarsi sul posto permette di raccogliere anche altre informazioni. “Dentro all’uragano”, spiega Antonio Ricchi, “si raccolgono tutti i dati meteorologici: posizione geografica dell’occhio, elevazione sul livello del mare, altezza delle onde, pressione atmosferica, velocità del vento, temperatura”. Ma anche, per esempio, la velocità di rotazione delle particelle d’aria su scala millimetrica: “una precisione pazzesca”, che si traduce in migliori modelli di previsione del comportamento del singolo uragano.

Questi dati aiutano a migliorare anche le previsioni statistiche: con quale probabilità un certo tipo di fenomeno, con una certa energia, si verifica in un dato punto della costa? Conoscere meglio, con l’aiuto degli aerei, gli uragani aiuta a migliorare anche questi modelli previsionali di più lungo termine. “Servono anche a capire dove una centrale nucleare, per esempio, può essere costruita in sicurezza”, continua Ricchi. “Tutti ci ricordiamo di Fukushima, dove non ci si aspettava onde anomale di quelle dimensioni, ma lo stesso problema si potrebbe presentare anche con le centrali nucleari della Florida”.

Voli troppo salati

Nonostante l’utilità, questi voli di misurazione vengono usati relativamente poco perché hanno un costo molto elevato. Gli aerei impiegati sono modificati in modo da sopportare condizioni di volo estreme e spesso lunghe, perché gli uragani devono essere raggiunti in mezzo all’Atlantico. Tutto questo non fa che aumentare il costo. “Pensiamo solo alla manutenzione maniacale cui devono essere sottoposti gli aerei”, racconta Ricchi, “sia prima che dopo ogni volo per garantire la sicurezza”. Lo squadrone 53d della ricognizione meteorologica dell’aviazione americana, quella del tenente colonnello Jim Hitterman, è l’unica squadra militare operativa di questo tipo al mondo e ha una flotta di 10 aeroplani.

In Europa sono poche le realtà che si possono permettere di coprire i costi di mantenimento dei velivoli speciali che sono necessari. “Anche il training a cui ho partecipato”, specifica Ricchi, “è stato reso possibile solo dal fatto che più istituti europei hanno unito gli sforzi”. Costi elevati che limitano anche i voli dello squadrone americano, che infatti si attiva solamente quando determinati livelli di allerta vengono superati come nel caso di Irma.

Uragani & dollari, l'incerto effetto sull'economia

 

Se incommensurabile è l’impatto umano di un uragano, e il dolore che può lasciarsi dietro, misurabili e misurate sono le conseguenze di natura finanziaria, non foss’altro perché riguardano immediatamente le imprese di assicurazione e di riassicurazione, che devono quantificare i danni con la maggiore precisione possibile.

Sono immediati e misurabili, per Harvey, Irma e per simili calamità del passato, anche gli effetti sui listini di borsa: i titoli del comparto assicurativo registrano di solito sensibili variazioni negative. I prezzi di alcuni prodotti, sulle borse merci, segnalano variazioni più o meno spinte al rialzo. E’ il caso, per effetto dell’uragano Irma, dei future di novembre sul succo d’arancia, per i pesanti danni alle coltivazioni della Florida (secondo produttore mondiale di succo d’arancia e secondo produttore di arance negli Stati Uniti).

La crescita di un albero e il dilemma delle cifre

Misurabili sì, i costi di un uragano: ma bisogna avvertire che non c’è mai univocità sulle valutazioni preliminari. Cambia il 'quantum' a seconda dei criteri adoperati. La stima che farebbe di Irma l’uragano più costoso della storia americana, firmata dall’analista Barrie Cornes della Panmure Gordon, valuta il costo complessivo a 300 miliardi di dollari. Sarà solo in fase successiva che si potrà dargli o meno ragione. Più asseverabile appare il conto finale dell’uragano Harvey che ha flagellato il Texas ad agosto, attorno ai 100 miliardi di dollari. Una somma veramente enorme, ma ancora inferiore all’uragano Katrina del 2005 (se è nel giusto la stima di 176 miliardi, inclusi gli 82 sborsati dalle assicurazioni e a tanto calcolati da Swiss Re).

Ogni calcolo è tuttavia approssimazione: tornando all’esempio delle arance, i danni – rileva su “The Guardian” Alan Konn, di Price Asset Management – non sono soltanto immediati, come la devastazione di un raccolto. Se si pensa a quanto tempo ci vuole perché un albero di arancio piantato sia portato a produzione, si comprenderà, estendendo l’esempio a tutte le colture, che i danni dei cicloni risultano tenaci e più spalmati nel tempo.

E’ chiaramente fondamentale l’area dove impatta il disastro: la Federal Reserve di St. Louis, dopo Harvey, valuta (ma non quantifica) i danni sugli impianti produttivi energetici e chimici del Texas, prevedendo un rialzo dei prezzi dei carburanti maggiore di quello segnato dopo gli uragani Katrina e Rita.

Certo è che le stime economiche elaborate dalle compagnie assicurative non solo sono variabili e con ampio spread tra di loro, ma considerano solo, giustamente, i danni diretti, che impattano sul comparto: nel caso di Harvey si è assistito al balletto di cifre dai tre miliardi di dollari per le assicurazioni presunti da Hannover Re a una somma tra 10 e 20 miliardi presunta da JP Morgan.

Se l’algoritmo sbanda sui guardrail

Abbondano modelli di rischio, ma non hanno valore “profetico”: non basta stimare la velocità del vento e la quantità di acqua riversata sulla terra per ricavare un ammontare preciso dei danni. Ci sono fattori minori e circostanziali che sballano gli algoritmi, per cui tra un blocco immobiliare e il successivo, tra il tetto di un palazzo e l’altro, benché contigui, possono cambiare sostanzialmente le conseguenze.

Caso chiarificatore, l’uragano Sandy (2012), che causò costi aggiuntivi per decine di milioni di dollari perché impattò edifici che ospitavano nei piani terra server e documentazione finanziaria. Spesso – si nota su “The Atlantic” – si evidenziano costi che fanno sballare i forecast più accurati: gli analisti non si aspettavano che per sostituire i segnali stradali e i guardrail divelti dall’uragano Katrina, e che per rappezzare le strade, occorressero – quanti ce ne vollero effettivamente – ben 800 milioni di dollari.

Un capitolo a parte, e assai dibattuto, riguarda i costi indiretti delle calamità. Soprattutto gli impatti sulla macroeconomia. Gli analisti si dividono in tre categorie: chi crede – premettendo un ovvio “purtroppo” – che gli uragani abbiano un effetto propulsivo sull’economia; chi ritiene (per dirne uno, Nouriel Roubini) che i danni del dopo-Katrina siano stati sufficienti per la recessione; chi infine pensa, e questa terza categoria è forse la più numerosa, che le conseguenze positive e negative si compensino e in ogni caso non modifichino in misura significativa l’andamento economico. Si ascrive intanto alla prima scuola di pensiero il presidente della Fed di New York, William Dudley, quando dichiara che la fase di ricostruzione dopo Harvey e Irma darà una spinta al pil Usa: “Mi aspetto che tra la fine di quest’anno e la parte iniziale del 2018, i transitori effetti negativi dei cicloni saranno superati e cominceremo in realtà a vedere alcuni benefìci degli sforzi di ricostruzione in termini di stimolo dell’economia”.

La longeva parabola della “finestra rotta” 

Un’analisi svolta da First Trust (che tra l’altro sottoscrive la stima di circa 100 miliardi per i danni  di Harvey) sostiene che questi disastri non condizionino la crescita economica. Perlomeno, così non è stato finora: guardando ai grafici del pil nei periodi interessati da Katrina e Sandy, gli analisti non registrano una incidenza straordinaria. Nel primo trimestre 2006 (dopo Katrina) il prodotto interno lordo crebbe a un tasso annuo del 4,9% mentre non varcò il 3% nei primi due trimestri dopo Sandy:  “Nessuna di queste tempeste causò una recessione – notano a First Trust – e allo stesso tempo, i dati testimoniano che non vi fu una reale accelerazione della crescita in nessuno dei due casi”.

Insomma, non si sono fatti molti passi avanti dalla “parabola della finestra rotta” dell’economista francese ottocentesco Frédéric Bastiat (1801-1850), richiamato nelle sue lezioni di economia – First Trust lo cita nell’outlook – dallo studioso Henry Hazlitt (1894-1993). Se un vandalo, o un bambino, spacca il vetro di un negozio, il commerciante dovrà pagare un vetraio per sostituirlo. Il danno procurerà un guadagno al vetraio, ma lo sottrarrà magari a un sarto, da cui prima di sostenere la spesa straordinaria il negoziante progettava di andare a farsi un abito.

Agi News

Aumenta l’occupazione, ma anche la disoccupazione. Le analisi dei media

Gli ultimi dati Istat dicono che a luglio gli occupati in Italia superano i 23 milioni, mai così tanti dal 2008, prima della crisi. Ecco la notizia positiva. Quella negativa è che la disoccupazione sale all’11,3%, aumentano le donne senza lavoro e i giovani disoccupati sono il 35,5%. Queste sono le due facce della medaglia fotografate da tutti i giornali che mettono sì in evidenza il dato dell’occupazione, ma non dimenticano di sottolineare che il percorso è ancora in salita.

Ma l'occupazione migliora o no?

Il Corriere della Sera titola “Istat, la disoccupazione sale al 11,3% ma gli occupati superano i 23 milioni: mai così tanti dal 2008, prima della crisi”, ricordando nell’occhiello che “A luglio, secondo i dati Istat, la stima degli occupati cresce dello 0,3% rispetto a giugno (+59 mila). Cala il numero di chi non cerca un lavoro. I nuovi occupati sono uomini, aumentano invece le donne senza lavoro. I giovani disoccupati sono il 35,5%”. Come si legge nell’articolo, “resta confermata, prosegue l’Istat, “la persistenza della fase di espansione occupazionale”, con la stima degli occupati che a luglio cresce dello 0,3% rispetto a giugno, pari a 59 mila unità”.

Ancora più diretto il titolo de Il Foglio, che scrive: “L'Italia riparte, gli occupati tornano ai livelli del 2008. Negli ultimi due mesi superata quota 23 milioni, non succedeva da nove anni. A luglio cresce ancora il tasso di occupazione. E il crollo degli inattivi fa salire la disoccupazione”. Come ricorda il quotidiano, “era dal 2008, prima dell'inizio della crisi, che l'Italia non superava i 23 milioni di occupati. Lo ha fatto quest'anno o meglio, lo ha fatto negli ultimi due mesi (giugno e luglio) censiti dall'Istat. Infatti anche a luglio, secondo i dati provvisori forniti dall'istituto di statistica, la stima degli occupati è cresciuta dello 0,3 per cento rispetto a giugno. Si tratta di 59 mila unità in più che portano il tasso di occupazione al 58 per cento (+0,1 per cento)”.

L’Huffington Post parla di “boom degli occupati, mai così numerosi dal 2008”. E riporta le reazioni politiche, da Renzi che esulta – “merito del Jobs Act” – a Gentiloni, più cauto – "Ancora molto da fare, effetti positivi dal Jobs act"Anche il ministro dell'Economia, Pier Carlo Padoan, indica in un’intervista alla Rai che “c'è la ripresa, lo dicono tutti i dati, dal Pil all'occupazione, alla fiducia. Quindi si sta consolidando un quadro di ripresa che da ciclica deve diventare strutturale e il Governo continua a lavorare in questo senso".

Primi distinguo

Più cauto, nei toni, Il Secolo XIX che riferisce come “dieci anni dopo l’inizio della crisi, l’Italia nel 2017 è risalita ai 23 milioni di occupati che aveva nel 2008, e che (fra l’altro) corrispondono al suo record storico. Lo rileva l’Istat. Aumentano sia i lavoratori dipendenti sia gli indipendenti”. Tuttavia, aggiunge, “nel Paese non si avverte alcun senso di euforia, perché (comunque) 23 milioni di posti di lavoro sono pochi per 60 e passa milioni di abitanti”.

Il Sole 24 Ore allarga il quadro e mette in luce anche i dati sul “numero di ore di cassa integrazione complessivamente autorizzate è stato pari a 35 milioni, in diminuzione del 22,4% rispetto allo stesso mese del 2016 (45,1 milioni). Le domande di disoccupazione arrivate all’ente di previdenza a giugno (tra Aspi, Naspi, disoccupazione e mobilità) sono state 132.222 con una crescita del 3,8% su giugno 2016 e del 36,5% su maggio 2017 (96.805 domande)”. Attenzione viene posta anche sui tipi di contratto: “L’Inps rileva che nei primi sei mesi del 2017 sono stati attivati oltre 822.000 contratti a tempo indeterminato (comprese le trasformazioni) con un calo del 2,7%% sullo stesso periodo del 2016. Le cessazioni di contratti stabili nello stesso periodo sono state 790.133 e che quindi il saldo resta attivo per 32.460 unità (in calo rispetto ai 57.277 dei primi sei mesi 2016 e di 391.869 dei sei mesi 2015 quando erano previsti sgravi contributivi totali)”.

Anche l’Avvenire sceglie di dare risalto a un dato in particolare e sottolinea già nel titolo che “Cresce l'occupazione, ma solo quella maschile”. “La crescita congiunturale dell'occupazione – scrive il quotidiano – interessa tutte le classi di età ad eccezione dei 35-49enni ed è interamente dovuta alla componente maschile (gli occupati aumentano dello 0,6%, +86mila), mentre per le donne, dopo l'incremento del mese precedente, si registra un calo (-0,3%, -28 mila occupati). Su base annua, invece, la crescita interessa uomini (+1,4%) e donne (+1,1%). A crescere sono gli occupati ultracinquantenni (+371 mila) e i 15-24enni (+47 mila), a fronte di un calo nelle classi di età centrali (-124 mila)”.

Per i giovani il quadro resta incerto

Claudio Tucci, in un editoriale su Il Sole 24 Ore, spiega “Perché serve lo sgravio pieno e strutturale per i giovani”. Il giornalista invita ad “andare dentro questi numeri, per vedere cosa sta succedendo realmente. Intanto, va subito detto che per i giovani la situazione resta complicata, e ciò quindi conferma l’urgenza di puntare, già con la prossima legge di Bilancio, su sgravi pieni e strutturali per rilanciare il segmento che più di tutti ha pagato durante gli anni di crisi (e su cui il Jobs act finora ha inciso poco)”. Tucci ricorda i numeri dell’occupazione tra gli under24 (47mila posti in più, “meglio di niente ma troppo pochi”), il calo nella fascia 25-34enni (-8mila) e addirittura “il crollo tra i 35-49enni”. “Non solo – aggiunge – il tasso di occupazione per gli under25 è fermo drammaticamente al 17,2 per cento, anche se in lieve crescita sull’anno. Il punto è che riprende a salire il tasso di disoccupazione giovanile: torniamo al 35,5 per cento. Certo, meglio dei picchi superiori al 40 per cento registrati negli scorsi mesi. Ma comunque siamo di fronte a un valore elevatissimo: peggio di noi solo Spagna e Grecia”. In ultimo, cita dati Inps: “Con la fine degli incentivi generalizzati targati Jobs act, i nuovi avviamenti nel mercato del lavoro stanno tornando ad accadere prevalentemente con contratti precari (c’è un po' di crescita però anche dell’apprendistato, anche se i numeri assoluti sono minimi)”.

In nodo del costo dei contratti a tempo indeterminato

L’articolo si chiude con due considerazioni, “La prima: per tornare a rendere il contratto a tempo indeterminato, soprattutto per i giovani, il canale d’ingresso principale nel mercato del lavoro serve farlo costare subito meno, e per sempre. Ecco allora che la decontribuzione allo studio dell’esecutivo in vista della prossima legge di Bilancio deve essere più coraggiosa e strutturale. Altrimenti, inciderà poco. Secondo: va fatta decollare l’alternanza e va creato un link stabile formazione-lavoro lungo tutto il segmento dell'istruzione”.

Il nodo della qualità degli impieghi in aumento

Interessante l'analisi de Linkista, secondo la quale la verità è che ad aumentare sono sopratutto i posti di lavoro poco qualificati e poco pagati. Gli altri, i contratti stabili e solidi, diminuiscono: "Quello che sta accadendo dunque è tra le cause della percezione di una crisi ancora non finita, di una ripresa presente ancora solo sulla carta, ovvero un aumento, in alcuni casi anche consistente, di posti di lavoro proprio in ambiti in cui gli stipendi sono bassi o molto bassi, in cui a una crescita della produzione corrisponde un quasi identico aumento dell’occupazione perchè non vi è quasi alcuna dinamica a livello di miglioramento della produttività. Sono settori a basso valore aggiunto, come il turismo o la ristorazione, a maggior ragione se dominati, come è soprattutto in Italia più che altrove, da realtà piccole. La conseguenza sono salari scarsi, precari, che rimangono tali negli anni perchè la competenza specifica e l’appetibilità del lavoratore non crescono molto nel tempo".

Agi News

I mattoncini Lego sopravviveranno agli smartphone. Conquistando anche loro

“Digitalizzazione” e “globalizzazione”: sono le due parole chiave che la Lego ha consegnato a Niels B. Christiansen affidandogli il timone della barca otto mesi dopo l’ultimo cambio al vertice del Gruppo. Investito ufficialmente oggi, il nuovo ceo si insedierà a tutti gli effetti dal primo ottobre prossimo.

Perché sia stato scelto lui lo spiega con chiarezza un comunicato del Gruppo danese, marchio icona dagli anni Trenta del Novecento. Grazie ai suoi mattoncini eresse un edificio che perse molti pezzi nei primi anni Duemila, ma superata la crisi si consolidò coniugando tradizione e innovazione: fu una infilata decennale di esercizi positivi, che macinarono fatturato e utili, conseguiti anche grazie alle licenze per la realizzazione di set da “Star Wars”, “Harry Potter”, “Batman”, ai film d’animazione e ai videogiochi.

Come dare futuro (senza stravolgerle) alle imprese familiari

Nel 2016 l’ulteriore svolta, quando Lego ha rallentato la crescita del giro d’affari al +6% (cinque miliardi di euro in termini assoluti) e dell’utile netto al +2%, cioè i livelli più deboli del decennio. Il mercato suggeriva la ricerca di nuove strategie, ma nell’attesa – finiva l’anno – il gruppo mise nel ruolo di ceo Bali Padda, 61 anni, di origini indiane, conoscitore della macchina grazie a una esperienza interna di 15 anni e ricordato per essere il primo non danese a capo della Lego. Oggi il comando torna a un danese e a un manager più giovane: Christiansen ha dieci anni meno di Padda (che conserverà un incarico nel gruppo).

Soprattutto, però, Christiansen ha due caratteristiche: conosce la struttura di una impresa familiare – la Lego lo è per eccellenza, poiché i Kirk Kristensen discendenti dal fondatore Ole controllano ancora il 75% del capitale – e in secondo luogo sa come trasformarla in una compagnia all’avanguardia tecnologica.

Christiansen ha dimostrato queste doti al timone del colosso danese Danfoss, tenuto per nove anni fino al giugno scorso. “Ha trasformato una compagnia industriale tradizionale in un leader tecnologico. La sua esperienza nella digitalizzazione e globalizzazione, con l’attuazione di una strategia di trasformazione e la costituzione di un team internazionale flessibile e dalle elevate performance, beneficerà il Gruppo Lego”, ha spiegato Jørgen Vig Knudstorp, direttore esecutivo Lego: “Il cda è fiducioso – ha aggiunto – che sotto la guida di Niels il Gruppo continuerà a prosperare e a portare le esperienze del gioco a un numero maggiore di ragazzi in tutto il mondo”.

Danfoss (prodotti energetici) ha raddoppiato le dimensioni, rinnovato il portafogli e aumentato la presenza internazionale sotto la guida di Niels B. Christiansen, il quale ha raccontato che da bambino giocava anche lui alle costruzioni con i mattoncini Lego, e al termine degli studi cominciò la carriera alla McKinsey & Co.

Film, app e videogiochi

Come catturerà nuovi fan la compagnia danese? C’è nei programmi immediati il lancio di un nuovo film di animazione con la Warner, “Lego Ninjago” a settembre, l’apertura della ‘Lego House’ a Billund in Danimarca (12 mila metri quadrati per 23 metri di altezza) e lo sviluppo della nuova entità Lego Brand per le diversificazioni produttive, mentre avanzerà nel settore digitale, con app per smartphone e videogiochi. Christiansen è avvantaggiato da una posizione che non è un dettaglio: nell’annuale classifica stilata da ‘Brand Finance Global 500’, Lego nel 2017 è il marchio più potente al mondo, precedendo Google e Nike.

 Attualmente le vendite sono solide in Europa e hanno segnato considerevoli progressi in Cina, mentre meno soddisfazioni arrivano dall’altra sponda dell’Atlantico, dove pesa la concorrenza della Mattel più che altrove.

 

Agi News

Wall Street: rimbalza e anche il Nasdaq corre a +1,22%

New York – Wall Street rimbalza, dopo le pesanti perdite di ieri, legate alla multa di Google e al rinvio del voto in Senato sul Trumpcare. Anche il Nasdaq corre, registrando un rialzo dell'1,22%, mentre il Dow Jones sale dello 0,68% e lo S&P guadagna lo 0,86%. 

Agi News

“Se Uber entra nel mercato anche i tassisti lavorano di più”

L’apertura del mercato a Uber o ad altre forme di mobilità alternativa è vincente per tutti, compresi i tassisti e gli Ncc”: ne è convinto Carlo Carminucci, direttore scientifico dell’Istituto Superiore di Formazione e Ricerca per i Trasporti (Isfort) che ne ha spiegato i motivi in un’intervista all’Agi. La battaglia tra i tassisti e Uber, che si arricchisce venerdì di una nuova pagina della vicenda giudiziaria   che sancirà se il colosso californiano potrà operare o meno in Italia, potrebbe essere una sconfitta per tutti. “Se l’offerta è ampia – sostiene Carminucci – i cittadini si abituano a lasciare a casa la propria auto e a muoversi in città con mezzi alternativi, scegliendo tutte le soluzioni a costi relativamente contenuti”. Magari, spiega il direttore scientifico di Isfort, “si potrà assistere a un iniziale livellamento dei costi, ma alla lunga tutti lavoreranno di più”.

Nelle città in cui i servizi alternativi all’auto privati funzionano, continua Carminucci, “si crea una perfetta integrazione in cui tutti ne beneficiano e il saldo finale è positivo. Laddove, invece, i servizi arrancano, sono inefficienti, si opta nella maggior parte dei casi per l’auto privata”.

La mobilità alternativa che piace agli italiani

Ma i cittadini sono davvero pronti per i servizi di mobilità alternativi? Sì, secondo l’ultimo rapporto sulla mobilità pubblicato da “Audimob”, l’osservatorio Isfort. In particolare, nonostante l’auto resti il mezzo di trasporto per eccellenza e l’Italia il Paese con il più alto tasso di motorizzazione in Europa (62,4 vetture ogni 100 abitanti contro le 40,5 della Danimarca), due intervistati su tre non solo non solo conoscono il car sharing (l’auto condivisa) ma si dicono pronti a utilizzarlo come alternativa all’uso della propria macchina (54,4% degli intervistati) e dei mezzi di trasporto pubblici (20,6%). A fine 2015 il car sharing contava 5.400 veicoli, 700mila iscritti, 6.500.000 noleggi e 50milioni di chilometri percorsi. “Per ora i numeri sono ancora bassi e il mercato è di nicchia, ma il car sharing ha altissime potenzialità”, si legge nel rapporto.

E “sebbene non abbiamo ancora dati effettivi, i trend e le abitudini degli intervistati lasciano prevedere che dal car pooling a Uber, le nuove offerte non stenteranno a decollare, producendo un effetto moltiplicatore”, sostiene Carminucci.

Come e perché si muovono gli italiani

In media in un giorno feriale, gli italiani impiegano 57,7 minuti per muoversi ed effettuano oltre 100 milioni di spostamenti percorrendo circa 1,2-1,4 miliardi di chilometri, stima il rapporto che evidenzia una tendenza alla contrazione negli ultimi 15 anni. Perdono terreno le principali motivazioni legate a lavoro e studio che oggi incidono solo per un terzo. A queste ragioni si affiancano "gli spostamenti per la gestione della famiglia e per la fruizione del tempo libero". Ma soprattutto, per muoversi gli italiani non hanno dubbi: scelgono la macchina. E’ così per l’80% degli “spostamenti motorizzati”, il restante è rappresentato da tutti gli altri mezzi di trasporto. Chi siede al volante della propria auto sono soprattutto gli uomini, tra i 30 e i 65 anni, occupati e laureati.

Le due route (e un motore), invece, sono il mezzo di gran lunga preferito dai giovani, studenti o lavoratori, di sesso maschile e che vivono in città. "La segmentazione evidenziata è del tutto conseguente a questo forte asse di identificazione (“giovani-maschi-urbani”). Infatti, gli spostamenti in moto sono in larga misura di breve distanza (3-10km; 71%% del totale) e si associano quasi esclusivamente a motivazioni di lavoro (51%) e tempo libero. Elevato il peso degli spostamenti in moto effettuati da chi abita nelle medie e grandi città. 

Si pedala da Bolzano a Pisa

Quanto alla bici, "la maggior parte degli spostamenti non supera i 2 km ma il presidio del corto raggio (3-10km) è significativo e crescente (oltre il 40% dei viaggi)". Si usa inoltre la bici con regolarità e per spostamenti di lavoro/studio o tempo libero. Scelgono il pedale soprattutto gli uomini (60% gli spostamenti “maschili”), le classi di età più mature (22,7% gli spostamenti “over 65”), chi abita al Nord (Nord-Est in particolare) e nei piccoli e medi centri.

Ai dati di Isfort si sommano quelli del "1° Rapporto sull’economia della bici in Italia e sulla ciclabilità nelle città", realizzato da Legambiente, secondo cui a salire in sella sono quasi esclusivamente gli italiani che vivono al Nord. "Almeno il 15% della popolazione di Cremona, Rimini, Pisa, Padova, Novara e Forlì utilizza quotidianamente la bici per i propri spostamenti. Poi ci sono ancora Ravenna, Reggio Emilia, Treviso e Ferrara con percentuali di abitanti che preferiscono il manubrio al volante che oscilanno tra il 22% e il 27%. Per arrivare infine al top di Pesaro e Bolzano, dove circa un abitante su tre pedala per raggiungere il luogo di lavoro o di studio", si legge nel rapporto. "Tra le grandi città  si distingue Milano, dove lo sviluppo del sistema dei trasporti pubblici, l’introduzione dell’Area C, la rifunzionalizzazione di alcuni spazi è stata accompagnata dalla crescita della ciclabilità (oggi il 6% dei milanesi si sposta in bici), mentre Roma è in coda al gruppo: nella Capitale solo 5 persone su mille usano la bici".

L'auto l'unica alternativa fuori città

Secondo l'Isfrot, l'auto resta l'unica soluzione se si vive fuori città con l'85% degli italiani che la scelgono. "Nello specifico la forbice più significativa interessa l’ampiezza dei comuni di residenza: nel 2016 l’indice ha sfiorato il 50% nelle aree urbane maggiori (con oltre 250mila abitanti) mentre si è fermato a meno della metà (22,9%) nei comuni più piccoli o a poco più della metà (27%) in quelli piccolo-medi (10-50mila abitanti). Da sottolineare che il gap è cresciuto moltissimo dal 2001, per l’effetto congiunto della caduta verticale dell’indice nei piccoli centri (quasi 11 punti nei comuni fino a 10mila abitanti) e la leggera crescita nelle grandi città. Meno evidenti le differenze del tasso di mobilità sostenibile, invece, tra le circoscrizioni territoriali; l’indice è diminuito ovunque tra il 2001 e il 2016 con una tenuta solo nelle regioni del Centro".

“La vera partita da giocare non è tanto tra taxi e Uber, un fenomeno importante ma di nicchia, ma sulla creazione di una rete di trasporto efficiente e sostenibile al di fuori dei centri storici delle grandi città e nelle periferie. Potenziando il trasporto su gomma, creando corsie preferenziali e costruendo parcheggi nei punti di snodo”, commenta Carminucci. 

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