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Si dimette il ceo Neumann: cosa sta succedendo a WeWork

Bella ma fragile. WeWork, la società che gestisce spazi di coworking, in pochi giorni ha rimandato l’Ipo e perso il suo ceo. Adam Neumann, fondatore della società, si è dimesso. Troppe le pressioni dopo lo slittamento della quotazione. Troppo fredda l’accoglienza degli investitori, nonostante un prezzo scontato rispetto alla valutazione in sede privata.

WeWork, prima persona singolare

Adam Neumann resterà presidente non esecutivo, mentre la poltrona di ceo è stata ceduta in coabitazione ad Artie Minson, ex direttore finanziario, e Sebastian Gunningham, ex vice-presidente del cda. Il motivo dell’addio è tutto in una frase del fondatore: “Nonostante il business non sia mai stato così forte, nelle ultime settimane l’attenzione nei miei confronti è diventata una distrazione significativa”. Mi tiro indietro per cercare di salvare la quotazione. L’organizzazione societaria è stata infatti uno dei punti che più hanno sollevato perplessità.

I documenti inviati alla Sec lo scorso agosto in vista dell’Ipo, affermavano che il ruolo di Neumann è “determinante”, che “i futuri successi dipendo in larga parte” da lui. E che, anche per questo, “controllerà la maggioranza dei diritti di voto”. Insomma: “We” Work, ma “io” decido. L’approccio dell’uomo solo al comando non è detto che sia un male per le casse di una compagnia (vedi Mark Zuckerberg). Ma negli ultimi tempi, è stato valutato dagli investitori come un fattore di rischio (vedi le fibrillazioni causate dall’instabilità di Elon Musk). Non basta questo per rimandare un’Ipo, ma è stato un di sicuro un fattore. Defilandosi, con tutta probabilità spinto dalle pressioni dei grandi azionisti come SoftBank, Neumann crea un’intercapedine tra il controllo (che al momento resta saldo) e la guida della compagnia (che abbandona). Una mossa per rendere WeWork più appetibile, l’unica possibile nell’immediato. Per riparare le altre crepe, non bastano poche ore e un cambio di ruolo.

Da zero alla conquista di Manhattan

WeWork ristruttura edifici, li trasforma in uffici privati o da condividere e li affitta. Un coworking dotato di grande appeal, grazie a sedi di design piazzate in zone prestigiose. Per capire con quanta velocità si sia allargato WeWork, ancor più dei bilanci basta questo dato: nel 2010 non esisteva, nel settembre 2018 è diventata l’entità privata che occupa più spazio a Manhattan. Fino ad allora era stata JP Morgan. Tutto era partito da un edificio di un solo piano in Grand Street, nel quartiere di Soho. Oggi, tra già aperte o in arrivo, la rete di WeWork conta 834 sedi in 126 città. Stanno arrivando anche in Italia, a Milano: cinque edifici in centro. Il primo in via Turati, a dicembre. Prezzi: per un ufficio privato, pensato per le compagnie, serve qualche migliaio di euro al mese. Per piccole società e liberi professionisti una scrivania costa quanto una stanza in affitto: 550 euro euro per un posto fisso, 400 per uno mobile.

La picchiata dopo i 47 miliardi

L’espansione ha fatto lievitare la valutazione della compagnia. WeWork ha raccolto oltre 12 miliardi di dollari, da – tra gli altri – SoftBank, Benchmark, T. Rowe Price, Fidelity e Goldman Sachs. Nell’ultimo investimento dello scorso gennaio ha raggiunto una valutazione superiore ai 47 miliardi. Come già successo con Uber e Lyft, altri due unicorni arrivati a Wall Street nel 2019, il percorso verso la borsa è stato complicato. WeWork, infatti, avrebbe ridimensionato (di molto) le aspettative, ambendo a una valutazione in sede di Ipo meno che dimezzata, tra i 15 e i 20 miliardi. Non è bastato, tanto che adesso il prezzo sarebbe ancora più basso. Le perplessità sono molte: un fondatore che mantiene grande controllo; un cassa che brucia dollari a grande velocità; il fatturato cresce, ma la perdita netta continua a sprofondare, senza che il modello scelto dal coworking offra garanzie per il futuro.

I conti di WeWork

Come sempre accade, un quadro finanziario più chiaro emerge solo quando le società inviano alla Sec i documenti richiesti prima della possibile Ipo. WeWork (o meglio The We Company, la società che la controlla) lo ha fatto ad agosto, rivelando uno scenario dove prevale un colore: il rosso. Nel 2018, il business dei coworking ha perso 1,6 miliardi di dollari, quasi il doppio dell’anno prima. Nei primi sei mesi del 2019, il passivo sfiora i 690 milioni, ma le perdite operative (un indice che suggerisce quanto sia sostenibile l’azienda) è stata di 1,37 miliardi di dollari. Colpa delle spese, lievitate a 2,9 miliardi, il doppio del primo semestre 2018. Non basta aver raddoppiato anche il fatturato, arrivato tra gennaio e giugno a 1,53 miliardi.

Spese lunghe, affitti brevi

Alle giovani società è concesso un passivo, anche pesante, a patto che mostrino capacità di sopportarlo e prospettive di crescita. Il fatturato dimostra che WeWork sa crescere e attrarre clienti: a giugno, i posti disponibili nei suoi coworking erano arrivati a 604.000, il doppio rispetto a un anno prima. E 527.000 erano già occupati. Preoccupano però altri numeri. La società ha 2,5 miliardi pronti all’uso, ma brucia tantissima cassa (2,36 miliardi tra gennaio e giugno) e ha quindi bisogno di continue iniezioni di denaro. Il dubbio è che questo sistema non sia sorretto da fondamenta equilibrate. Da un lato, infatti, ci sono spese importanti (come quelle per affitti e ristrutturazioni degli edifici) e prestiti da ripagare spalmati negli anni. Dall’altra, gli incassi arrivano dal noleggio di uffici e scrivanie che vengono decisi mese dopo mese o (nel caso delle aziende) qualcosa di più. Spese certe di lungo periodo (WeWork ha già sulla groppa 22 miliardi di debiti) si confrontano quindi con incassi incerti nel breve. È vero che il settore del coworking promette di crescere anche nei prossimi anni e che WeWork è leader del mercato, ma qualche contratto in meno potrebbe pesare su una società che non può permettersi di rallentare.

Tra prestiti e SoftBank

The We Company ha fatto sapere in una nota che “valuta con estremo favore l’imminente Ipo” e ritiene che “sarà completata entro la fine dell’anno”. Nel comunicato in cui ringraziano Neumann per i lavoro svolto, i nuovi co-ceo Minson e Gunningham affermano che valuteranno “la tempistica ottimale di un’Ipo”. WeWork avrebbe quindi solo preso tempo, ma nessun passo indietro. Ci sarebbero almeno 6 miliardi di buoni motivi che spingono verso la borsa, tanti quanti i dollari che la società potrebbe veder sfumare se la tirasse troppo per le lunghe. La compagnia avrebbe sottoscritto un accordo per un maxi-prestito con un gruppo di banche.

A condizione però che si quoti entro la fine del 2019. Certo, non sono soldi che dovrebbe restituire, ma se l’Ipo slittasse al 2020, WeWork dovrebbe trovare altrove 6 miliardi di dollari. E vista la velocità con cui brucia cassa, ne avrebbe molto bisogno. In direzione contraria, però, va un grande azionista: SoftBank e il suo Vision Fund. I giapponesi sono gli investitori che, a gennaio, hanno fatto schizzare la valutazione a 47 miliardi. Hanno quindi pagato salatissima una quota di WeWork. Approdare in borsa con una valutazione molto più bassa costringerebbe SoftBank a registrare una perdita secca. Ecco perché la società non avrebbe fretta. Meglio rimandare, in attesa di uno scenario più favorevole, senza Neumann. Tra i soggetti che avrebbero voluto alleggerire il peso dell’ex ceo, SoftBank è infatti il principale indiziato. Anche perché c’è un precedente. Quando la società nipponica entrò in Uber pretese la testa del fondatore Travis Kalanick.

Domino in Giappone (e a Wall Street?)

Uber e WeWork sono, al momento, due grane per SoftBank. La prima, dopo essere stata conquistata a colpi di miliardi, non brilla in borsa. La seconda a Wall Street non ci è neppure arrivata. Due problemi che potrebbero generare un piccolo domino nel piano d’investimenti nipponico. Dopo il primo fondo Vision, con una dotazione da 100 miliardi di dollari, SoftBank sta perfezionando il secondo, un gemello. I due principali contributori dovrebbero essere il fondo sovrano saudita e quello di Abu Dhabi, che in Vision I hanno messo 45 e 15 miliardi.

Secondo Bloomberg, però, starebbero riconsiderando la propria posizione. Non un disimpegno, ma un alleggerimento, a quanto pare indotto dai dubbi sollevati dagli investimenti in WeWork e Uber. Se i due fondi sovrani si tirassero indietro, non sarebbe un bel segnale. E non solo per qualche miliardo perso (da cercare altrove), quanto perché i potenziali investitori potrebbe iniziare a nutrire qualche dubbio su una scommessa da 100 miliardi. Soprattuto se, dopo Lyft, Uber e WeWork, passasse la moda di presentarsi a Wall Street in (profondo) rosso.    

Agi