News

Sospesi i 126 licenziamenti a La Perla

Tregua d’agosto per la vertenza La Perla: sul tavolo al Mise, la proprietà (gli olandesi di Sapinda) ha accettato la sospensione della procedura di licenziamento per i 126 posti di lavoro, per la durata di 30 giorni, spiegando che si tratta di un primo segnale positivo di apertura al dialogo. Nessuna azione unilaterale verrà intrapresa dall’azienda, si legge in una nota diffusa dalla Regione Emilia Romagna, prima della nuova convocazione del tavolo presso il Mise per la prima metà di settembre.

Si tratta, informano istituzioni e sindacati, di un primo riconoscimento alle giuste richieste delle lavoratrici, in una situazione che rimane complessa ma nella quale almeno si apre uno spiraglio di dialogo e di tempo per trovare una soluzione alla crisi, con un nuovo piano industriale. In questo lasso di tempo, l’azienda e le organizzazioni sindacali “lavoreranno da subito per cercare soluzioni alternative – spiega ancora la Regione – per tutelare l’occupazione e assicurare l’applicazione degli ammortizzatori sociali”. L’obiettivo è “garantire la permanenza della produzione a Bologna e il varo di un piano industriale che possa rilanciare il marchio sui mercati nazionali e internazionali”.

La Perla nasce come laboratorio artigianale nel 1954 dalle mani sapienti e dal talento sartoriale di Ada Masotti, un’abile produttrice di bustier di Bologna. Oggi il brand, si legge sul sito aziendale ” è considerato dalle donne di tutto il mondo un punto di riferimento nell’ambito della luxury lingerie e del beachwear”.

La sospensione dei licenziamenti (il personale è quasi tutto femminile) arriva come una boccata di ossigeno nella calura agostana e viene accolto in maniera positiva dal presidente della Regione Emilia Romagna, Stefano Bonaccini, e dai sindacati: “Un primo importante passo per iniziare una trattativa di merito sul futuro della Perla a Bologna”, commenta la Filctem-Cgil di Bologna e la Cgil di Bologna.

“Non possiamo credere – conclude Daniele Piras della Uiltec – che la proprietà voglia togliere dal mercato una realtà troppo competitiva per sopprimerla anziché salvarla. Ora attendiamo dalla controparte un piano industriale degno di questo nome”.

Agi

La complicata vicenda che ha fatto crollare in Borsa la bolognese Bio-On

Bio-On crolla in borsa a due giorni dal report di Quintessential Capital Management che ne ha messo in dubbio l’assetto societario e il prodotto. L’azienda bolognese, quotata all’Aim, ha chiuso con un -69,76%, passando da 49,60 a 15 euro per azione. Nata nel 2007 e quotata dal 2014, la società capitalizzava prima del report circa un miliardo di euro. Dopo le ultime sedute di Borsa la capitalizzazione è crollata a 282 milioni, bruciando circa 758 milioni di euro in due giorni. 

Le accuse contenute nel report di Quintessential

Le accuse alla ex startup bolognese sono contenute in un report di 25 pagine redatto dal fondo newyorkese che in passato ha fatto le pulci, e con discreto successo, a diverse società. Buona parte di queste sono state poi costrette a chiudere. Quintessential titola il report senza mezzi termini: “Bio-On: Una Parmalat a Bologna?”. I documenti raccontano che la società avrebbe gonfiato i bilanci con crediti in buona parte derivanti da società controllate. Puntano il faro sul prodotto, definito “obsoleto e noto da almeno 100 anni” ma anche sui costi di produzione, ‘inspiegabilmente’ superiori fino a 15 volte rispetto alle principali società concorrenti. (AGI)

Gabriel Grego, il capo del fondo, dopo la pubblicazione del report ha registrato un video di circa 30 minuti su YouTube dove entra più nel dettaglio della sua inchiesta: “La parte più incredibile della storia di Bio-On è nella contabilità”. Cita testimonianze dirette: “Un ex dipendente che abbiamo consultato ci ha detto che nessuno ad oggi sta comprando plastica da Bio-On. Il 100% delle entrate arrivano dalla vendita di licenze, ma in realtà sono solo studi per vedere se la tecnologia funziona”. Ma oltre alle testimonianze ci sono i documenti, da cui risulterebbe che l’88% dei ricavi sarebbe fittizio, sostiene Quintessential, e ottenuto da transazioni con società controllate.

Il ‘sistema’ delle controllate

Così come gran parte delle immobilizzazioni, che verrebbero da questi contratti con società sussidiarie. Grego sostiene, attraverso documenti messi online, che la società bolognese abbia creato una serie di joint venture alle quali avrebbe venduto la propria tecnologia. Ma, essendo società inattive e senza capitali, “si tratta di debiti che non verranno mai estinti”. Mentre “nei pochi casi in cui Bio-On è riuscita a recuperare questi crediti”, spiega Grego, “lo ha fatto prendendo soldi dalla propria cassa, girandoli alla joint venture, e ripagandosi quindi coi propri soldi”. Nei documenti Quintessential ricostruisce questo ‘sistema’: 9 società controllate, “con gli stessi amministratori della Bio-On, ma senza sede né dipendenti”.

Il report inoltre sottolinea alcune incongruenze negli investimenti della società. L’impianto di produzione di Castel San Pietro, Bologna, che doveva costare 15 milioni, alla fine ne è costati 50, lanciando il sospetto di operazioni immobiliari dubbie. Ma il costo di produzione della bio plastica stessa sembrerebbe superiore di circa 6 volte rispetto ai principali concorrenti.

Il prodotto di Bio-On

Eppure il problema principale, secondo Quintessential, è proprio la promessa di una rivoluzione nella produzione delle bioplastiche attraverso l’uso del polimero PHA (polidrossialcanoati). L’opinione di alcuni esperti contattati dal fondo statunitense è unanime: “La base tecnologica scientifica è assurda e farneticante”, sintetizza. Il PHA sarebbe noto da almeno 100 anni e non avrebbe nulla di rivoluzionario. Al centro dell’inchiesta anche una serie di transazioni finanziarie definite ‘sospette’ e alcune operazioni che sembrerebbero finalizzate solo alla produzione di campagne di marketing per far salire il titolo in borsa, come l’annuncio della costruzione di nuovi impianti, in Brasile, in Francia o in Italia, a cui però non si è mai dato seguito. 

La replica della società

Bio-On ha replicato alle accuse di Quintessential in una nota in cui sostiene che sia incorretto “comparare i costi di produzione e costi di investimento di società terze” che operano nello stesso settore. Conferma la produzione di del bio-polimero PHA “e la commercializzazione dei prodotti a dimostrazione dell’effettivo funzionamento della tecnologia”.

E infine, pur non smentendo direttamente la ricostruzione sulle joint venture, rigetta l’accusa che si tratti di un sistema di società finte che presto porterà al collasso del gruppo, in quanto nel corso del 2019 “risultano già incassati crediti verso le joint venture per un totale di 12,5 milioni”, e che “il saldo verso le imprese collegate” ad oggi è di “euro 20,1”. La società assicura inoltre il pieno funzionamento dell’impianto di Castel San Pietro, e che al momento dà lavoro a 100 dipendenti. Rassicurazioni che però evidentemente non hanno convinto gli investitori. 

Il management di Bio-On, guidato da Marco Astori, contesta tutti i punti di questa storia. Vicenda che vede diversi attori in gioco. Banca Finnat, che ha redatto alcuni studi sul titolo di Bio-On e risulterebbe tra gli azionisti di una delle joint venture create dalla società bolognese, ha chiuso con un -3,5% in Borsa. EY risulta la società di consulenza che ha valutato e giudicato ‘positivi’ i bilanci di Bio-On, contattata da AGI spiega che non può commentare la vicenda per doveri di riservatezza. Ora toccherà alle istituzioni fare chiarezza su quello che è successo e verificare il report di Quintessential.  

 

@arcangeloroc

 

Agi

Come funziona e quanto costa un soccorso sull’Himalaya

Francesco Cassardo, l’alpinista torinese rimasto ferito mentre scendeva il Gasherbrum VII, in Pakistan, è in ospedale, ha qualche costola rotta ma nel complesso sta bene. La sua avventura sarebbe finita molto male se non fosse stato per l’aiuto del suo compagno di cordata – Cala Cimenti – e per i soccorsi tempestivi in un Paese molto complesso.

Ne è convinto Michele Cucchi, tecnico soccorso alpino e guida alpina di Alagna Valsesia, esperto di soccorso in aree extra-europee. “Sulle Alpi, siano esse italiane, svizzere, austriache, abbiamo un livello di servizio mostruosamente alto che ormai diamo per scontato”, ha commentato Cucchi all’Agi. “Ci si rompe una caviglia e nel giro di un’ora si è nel migliore ospedale del Nord Italia, grazie a un elitrasporto che costa migliaia di euro. E spesso chi viene soccorso non pronuncia nemmeno un grazie, tanta è l’assuefazione da servizi di alto livello. Ma nel resto del mondo, in Asia non è così. Quando si parte per una spedizione internazionale bisogna considerare non solo la complessità della vetta, ma anche il Paese e il livello di soccorsi”.

Ogni Paese le cui vette fanno parte della catena Himalayana – Cina, Nepal, Pakistan e India – “è a sé, ha le sue caratteristiche e le sue problematiche. In Cina, ad esempio – spiega Cucchi –  è tutto molto controllato, chiuso, militarizzato. Dei soccorsi in alta quota si occupa il governo e le skill che hanno i soccorritori sono quasi ridicole”.

In India, invece, “esiste l’aviazione civile, così come i gruppi di civili radunati in club, come quelli alpini per intenderci. Ma si tratta di soccorritori ancora poco preparati. Buona la preparazione dei gruppi di militari specializzati in soccorso in montagna. I cieli, invece, sono gestiti dall’esercito perché i confini tra India e Pakistan sono ad altissima tensione”.

Tra tutti, il Nepal è il Paese più preparato nel soccorso in alta quota. “Perlopiù è gestito a terra dagli sherpa assoldati per le spedizioni, che sono diventati molto bravi in alta quota e vantano un’esperienza molto importante. Nei cieli, invece, il soccorso è gestito principalmente dai militari ma da alcuni anni le rotte aeree sono state aperte anche ad aziende elicotteristiche civili. Sono stati molto furbi: per sviluppare questo business – perché lo è – hanno assunto piloti occidentali in grado di andare molto in alto. E negli ultimi anni sono sempre di più i piloti nepalesi che acquisiscono tecnica ed esperienza per andare molto in alto (dai 5 mila metri in su)”.

Il Pakistan, prosegue la guida, è “un discorso a parte. Sulle vette del Paese, tra le quali domina il K2, salgono qualche centinaio di scalatori in ogni stagione, contro le migliaia del Nepal”. I motivi sono diversi ma soprattutto “ce n’è uno politico: la percezione che gli occidentali hanno del Pakistan è di un Paese instabile. Si è quindi più restii a esplorare quelle vette. A ciò si aggiungono montagne più selvagge e una logistica più complessa e impegnativa”.

Quanto ai soccorsi, “se ne occupano gruppi di “portatori d’alta quota”: persone in grado di salire con una spedizione internazionale fino a 8.000 metri. Anche qui il rapporto è di 10 a 100: ce ne sono centinaia contro le migliaia del Nepal”. Pochi portatori, dunque, e molto poco preparati a livello tecnico”. Del soccorso aereo se ne occupa invece “Askari Aviation: un distaccamento dell’aviazione militare in cui lavorano piloti con anni di carriera”.

Ma quanto costa un salvataggio?

Dipende da molti fattori, spiega Michele Cucchi. “I costi di un’assicurazione oscillano anche di molto a seconda del Paese, del tipo di soccorso, del tempo impiegato, della visibilità che rallenta le operazioni”.

Le assicurazioni – spiega e raccomanda la guida italiana – vanno stipulate sempre. In tutti questi posti ci sono moltissime agenzie specializzate che sbrigano le pratiche. Il rischio di non farle è quello di dover pagare tutto di tasca propria o – come nel caso del Pakistan – di non ricevere affatto un servizio di soccorso”.

La spesa non è trascurabile: “In Nepal il costo medio è di 12 mila dollari per un soccorso di routine: sono al campo 2 dell’Everest e devo essere evacuato a causa del mal di montagna acuto. Se non sono al campo 2 e l’elicottero impiega due giorni per trovarmi il pezzo sale”.

In Pakistan i costi sono altissimi, almeno il doppio: “Si parte da 20 mila dollari per un servizio base e si sale di decine e decine di migliaia di dollari per un soccorso più complesso. In più, i piloti prima di partire per un’operazione di soccorso si accertano che la persona da salvare abbia stipulato un’assicurazione altrimenti non decollano”.

Senza gli elicotteri “per trasportare una persona che non cammina all’ospedale più vicino ci si impiegherebbe una settimana”. Nel caso di Cassardo, “trasportarlo giù da 6.000 metri sarebbe stata un’impresa epica, durata 5 giorni, con tutti i rischi che questo comporta”.

In linea generale – conclude Cucchi – “chi va a fare spedizioni dovrebbe avere una preparazione tecnica molto alta per cavarsela da solo finché può. E poi sarebbe auspicabile che parte del lavoro di cooperazione internazionale sia rivolto alla formazione tecnica di persone del posto e all’apertura al turismo internazionale per permettere loro di rimanere sulla montagna”.

Agi

Con il voto anticipato si apre lo scenario dell’esercizio provvisorio

Se dovesse concretizzarsi la crisi di governo e si tornasse al voto, tornerebbe prepotentemente alla ribalta lo spettro dell’esercizio provvisorio, e di conseguenza l’incubo dell’aumento dell’Iva. Con le elezioni infatti non ci sarebbe matematicamente il tempo di varare la manovra economica nei tempi previsti e cioè in autunno, e il governo in carica potrebbe essere costretto a ricorrere alla misura straordinaria.

Cos’è l’esercizio provvisorio

È un provvedimento, previsto dall’articolo 81 della Costituzione, che vincola il governo per un massimo di 4 mesi a gestire da solo mese per mese l’ordinaria amministrazione (riscuotere le entrate e pagare stipendi, pensioni, debiti), con margini di spesa estremamente ridotti, calibrati in tanti dodicesimi quanti sono i mesi di esercizio provvisorio. In questo modo, è possibile anche fare dei risparmi in quanto e’ consentito spendere solo lo stretto indispensabile (ad esempio gli stipendi degli statali).

L’autunno è tempo della legge di bilancio, che accorpa in un solo provvedimento sia la legge di stabilità che quella di bilancio. Il disegno di legge di bilancio va presentato alle Camere entro il 20 ottobre (tale termine segue il 15 ottobre, scadenza per la presentazione in sede europea del progetto di documento programmatico di bilancio) ed entro il 31 dicembre le Camere devono approvare la manovra triennale di finanza pubblica. Se ciò non avviene scatta appunto l’esercizio provvisorio. Se entro il 31 dicembre le Camere non approvano il disegno di legge di bilancio, il governo non avrebbe il potere né di accertare né riscuotere le entrate né di erogare le spese.

È sempre meglio evitarlo perché, potendo gestire solo le spese ordinarie, non si potrebbero effettuare gli investimenti preventivati nella manovra di bilancio. Ne risentirebbe la crescita economica, per non parlare della perdita di fiducia da parte degli investitori. Per questo motivo, è un’ipotesi che secondo gli esperti andrebbe scongiurata.

Da quando c’è la Costituzione della Repubblica, è stato adottato addirittura 33 volte, in pratica dal 1948 al 1968 c’è sempre stato. Ma dalla metà degli anni ’80, è stato usato solo due volte: con Craxi, per due mesi, nel 1986 e con Goria, tre mesi, nel 1988. Si rischiò l’esercizio provvisorio anche nel 2016, dopo il referendum costituzionale e le dimissioni da presidente del Consiglio di Matteo Renzi. In quel caso, però, per evitarlo Renzi rimase in sella per qualche giorno, in modo da approvare la manovra.

Aumento dell’Iva

La manovra del 2019 prevede che l’Iva ordinaria salga dal 22% al 25,2% nel 2020 e al 26,5% nel 2021 e l’Iva agevolata dal 10% al 13% nel 2020. Per disinnescare l’aumento, il governo dovrebbe trovare risorse per 23 miliardi di euro nel 2020 e quasi 29 miliardi nel 2021. Ovviamente, con l’esercizio provvisorio non ci sarebbero i margini per scongiurare questo rischio in quanto l’aumento dell’imposta è già previsto a legislazione vigente. 

Agi

Huawei investirà più di 3 miliardi di dollari in Italia

 

Huawei investirà 3,1 miliardi di dollari in Italia fra il 2019 e il 2021 di cui due terzi in acquisto di forniture da partner locali. L’annuncio di Thomas Miao, dato in occasione di un incontro con la stampa al Castello Sforzesco, segue di pochi mesi l’apertura del nuovo quartier generale italiano. L’amministratore delegato in Italia del colosso cinese ha annunciato un investimenti 1,2 miliardi di dollari in marketing e 52 milioni in ricerca e sviluppo con la creazione di tremila posti di lavoro: mille diretti e duemila indiretti.

“Solo da Stm (azienda che produce semiconduttori e componenti elettronici, ndr) abbiamo realizzato acquisti per 290 milioni e vogliamo crescere”, ha detto  Miao, convinto che in Italia l’azienda non avrà problemi derivanti da quelli innescati dal bando imposto dagli Stati Uniti, la cui sospensione scadrà il 19 agosto. Miao, ha citato le “politiche trasparenti e aperte” del governo: “Abbiamo un approccio sostenibile alla catena di forniture, con un piano A e un piano B: non importa se avremo le forniture americane, riusciremo comunque a garantire l’equipaggiamento”. Anche con i partner italiani è “business as usual”, ha aggiunto.

In ogni caso “aspettiamo buone notizie e speriamo di poter finalmente applicare il piano A perché il piano B è pensato per il peggior scenario e nessuno vuole lo scenario peggiore”.  “Voglio chiedere regole trasparenti, efficienti e giuste per il golden power sul 5G” ha detto, “Ora si applica solo ai fornitori non europei. Dovrebbe essere applicato a tutti perché la tecnologia è neutrale. Deve essere collegato a tutti gli attori per essere sicuri di avere dal primo giorno una rete sicura e affidabile. E’ una necessità per il Paese essere pronto prima del lancio”, ha aggiunto, spiegando che le regole sul tema non sono chiare e citando l’estensione del periodo di approvazione dei fornitori che “non rappresenta una semplificazione”.

Italia e Cina sono complementari dal punto di vista economico e saranno sempre più vicine, ha ancora detto Miao, “Sono due Paesi che da un punto di vista economico sono ben accoppiati. L’Italia ha bisogno della Cina e la Cina ha bisogno dell’Italia: da un punto di vista commerciale sono molto ottimista”. 

Huawei ha anche annunciato una collaborazione con l’Università di Pavia, con cui realizzerà il Microelectronics Innovation Lab, con un investimento di 1,7 milioni di dollari. II laboratorio sarà operativo a partire da settembre e impiegherà una quindicina di ricercatori, incluso personale di Huawei, presso locali all’interno dell’Università. “Il nuovo laboratorio opererà nel campo della microelettronica e delle tecnologie ad alta frequenza. Nello specifico, il Lab pavese, sotto la guida del professor Rinaldo Castello, si focalizzerà inizialmente sulla ricerca per lo sviluppo di nuove generazioni di dispositivi per applicazioni ottiche coerenti e non coerenti nelle tecnologie Cmos (Complementary Metal-Oxide Semiconductor) e FmFET (Fm-shaped Field Effect Transistor), con l’obiettivo di estendere, nel corso dei prossimi tre cinque anni, la ricerca all’innovazione tecnologica nel campo dei semiconduttori per applicazioni wireless nel contesto del 5G”, spiega una nota.

“Questa collaborazione con l’Università di Pavia è un’ulteriore conferma della centralità dell’Italia nella strategia globale di Huawei”, ha commentato Miao. “Vogliamo fornire nuove opportunità per favorire l’attrattività dell’Italia e frenare la cosiddetta ‘fuga dei cervelli’ che ha contribuito alla creazione del divario digitale oggi esistente con gli altri Paesi dell’Unione Europea”. 

Agi

Uber decolla a New York per vedere dall’alto il futuro dei taxi volanti

Non sono ancora i taxi volanti, ma per la prima volta Uber si stacca da terra. Il 9 luglio ha inaugurato Uber Copter, il servizio che collega Manhattan con l’aeroporto JFK: otto minuti di volo per coprire circa 25 chilometri con un elicottero, prenotato con l’app.

Un servizio “fedeltà”

Il trasporto urbano via cielo non è ancora arrivato a New York. L’elicottero collega solo due punti prestabiliti, attraverso due punti di decollo e atterraggio tradizionali. Tradizionale è anche il mezzo, un elicottero che non ha nulla a che vedere con i velivoli candidati a diventare i taxi del cielo. Quello che Uber Copter fa è appiccicare il proprio marchio sui servizi offerti da una compagnia di voli charter, Heliflite. Che così viene inclusa nell’applicazione accanto alle automobili.

Non tutti gli utenti di Uber, però, possono viaggiare sugli elicotteri. È concesso solo a quelli di “rango” più elevato, cioè quelli che si sono conquistati un profilo “Platinum” e “Diamond”. Come? Lo scorso novembre, la compagnia ha lanciato Uber Rewards: funziona più o meno come una raccolta punti. Solo che anziché regalare pirofile ai clienti, offre incentivi e buoni. Si accumulano punti ogni volta che si usano i servizi di Uber. Uno per ogni dollaro speso in quelli più popolari (le consegne a domicilio di Eats e i viaggi in condivisine di Pool), due per le corse in auto (UberX, UberXL o Select), tre se si scelgono le vetture di pregio (Black e Black Suv). Prima di poter salire sull’elicottero, servono almeno 2500 punti. Non pochi. Vuol dire aver speso, ad esempio, mille dollari su vetture base e 500 dollari in cibo a domicilio.  

Meglio esplorare che incassare

Le tariffe sono di 200-250 dollari a persona. In fondo non molto se si considera che un viaggio in taxi (che dura più di un’ora) costa circa 70 dollari e uno sulle vetture Uber va dai 70 ai 110 dollari. I biglietti non hanno certo prezzi popolari, ma – assieme al meccanismo di selezione all’entrata che passa da Rewards – svelano quale sia l’intenzione di Uber: guadagnare, adesso, non è importante; quello che conta è sollevarsi da terra e guardare New York dall’alto, in attesa che arrivino i taxi volanti.

I test cittadini inizieranno nel 2020 (a Los Angeles, Dallas e Melbourne) e dovranno incasellarsi in un quadro di regole tutto nuovo. Quello degli elicotteri non lo è: ci sono già alcune società che offrono voli charter a Manhattan, come Blade (non a caso conosciuta come “la Uber degli elicotteri”). Fa la stessa cosa di Copter, a prezzi simili: permette agli utenti di cercare e prenotare un posto a bordo, appoggiandosi (come fa Uber con Heliglite) ad altre società.

Ha fatto parlare di sé a maggio, quando un velivolo di un suo partner, Zip Aviation, si è schiantato nell’Hudson. Blade si è affrettato a dire che, in quel momento, l’elicottero non era impiegato in una corsa della compagnia. A bordo c’era solo il pilota, che si è salvato senza riportare ferite gravi. A giugno, però, dopo un altro incidente (questa volta fatale) di un elicottero dell’American Continental Properties, il sindaco di New York Bill de Blasio ha posto il problema del traffico aereo nella città.  

Il futuro in tre dimensioni

L’avvertimento di de Blasio non ha fermato Uber. Né i suoi futuri concorrenti. A giugno Voom, società di proprietà di Airbus con un servizio simile a Copter, ha rivelato che inizierà a operare negli Stati Uniti dal prossimo autunno. Fino a ora ha volato solo in America Latina. Non sono ancora note le città su cui atterrerà, ma Voom sembra agguerrita. Ha spiegato a Fast Company che i prezzi saranno “competitivi con le alternative via terra” e che il programma prevede di toccare 25 città in tutto il mondo entro il 2025.

Nel frattempo, Uber dovrebbe aver già lanciato Air, cioè i suoi taxi volanti veri e propri: elettrici e a decollo verticale, collegheranno diversi punti della città. La compagnia prevede di fornire questo servizio “a prezzi accessibili entro il 2023”. Servirà scegliere e testare i velivoli, costruire stazioni e mediare sulle regole. La strada però è tracciata: il ceo di Uber Dara Khosrowshahi ha più volte ripetuto che entro dieci anni le auto costituiranno meno del 50% del business.

Merito di bici e monopattini elettrici, dei servizi di logistica e (appunto) dei taxi volanti. Perché, come ha detto Khosrowshahi durante la conferenza parigina Viva Tech del 2018, “il trasporto del futuro sarà elettrico, condiviso e tridimensionale”. Avanti, indietro, in alto.  

Agi

Gli assegni scaduti li incassa lo Stato. In 9 anni 630 milioni, scrive Repubblica

In 9 anni lo Stato italiano ha portato a casa 634 milioni di euro grazie agli assegni non incassati dai beneficiari. È quanto emerge dalla Relazione diffusa dai magistrati contabili lo scorso 27 giugno. Si tratta di titoli di credito, spesso utilizzati come cauzione o deposito in diverse tipologie di transazione.

Dal 2007, scrive il quotidiano Repubblica, una legge prevede che i conti correnti non movimentati per dieci anni, le polizze vita non riscosse, così come gli assegni circolari non incassati entro tre anni, finiscano nelle casse dello Stato. Stando alla Relazione, 320.346.684 euro – meno della metà del totale – sono entrati da polizze non riscosse dai beneficiari, specialmente famigliari ignari dei contratti di assicurazione stipulati dai loro congiunti.

A prevalere però sono gli assegni circolari in cui ordinante e beneficiario coincidono. È il caso – si spiega – di casi in cui si sceglie di fatto di ritirare dal proprio conto corrente delle somme che non si vuole figurino sul proprio conto, ad esempio per ottenere un Isee più basso, o più generalmente per tenere le somme nascoste e non “aggredibili” ad esempio in caso di riscossione.

Più o meno come ritirare i propri risparmi e nasconderli in banconote sotto il  materasso o in una cassetta di sicurezza. Con la differenza però che le banconote occupano spazio, e quindi richiedono un luogo dove essere nascoste, ma anche però che mantengono inalterato il loro valore. L’assegno circolare invece dopo tre anni “scade”: e così molti, ignari, perdono la disponibilità dei propri fondi.

La legge, spiega ancora Repubblica, imporrebbe agli intermediari, cioè alle banche, entro 180 giorni dallo scattare della “dormienza”, l’obbligo di informare i titolari con una raccomandata all’ultimo indirizzo conosciuto ma a distanza di anni, o in caso di morte, le banche si trincerano dietro la difficoltà tecnica di effettuare la ricerca e spesso la prescrizione finisce per essere disattesa.

Agi

Come è messa l’Italia quanto a emissioni di gas-serra. Un rapporto

Seppure con differenze tra gli Stati membri, l’Unione europea è riuscita a ridurre del 20% le emissioni di gas serra che però nel mondo sono complessivamente cresciute del 57,5%. È uno dei dati del dossier di AGI/Openpolis “Clima e ambiente 2020” che scatta una fotografia sugli obiettivi energetici che l’Europa si è prefissa di raggiungere entro il 2020 per contribuire ad arginare il cambiamento climatico. Uno sforzo in cui l’Italia è indietro (anche se ha fatto progressi) mentre altri Paesi europei, come Malta, invece di ridurre le emissioni le hanno aumentate privilegiando la crescita del Pil, che si è irrobustita.

L’Unione Europea ha raggiunto l’obiettivo sulla riduzione dei gas serra

DESCRIZIONE: L’obiettivo della strategia Europa 2020 sulla riduzione dei gas serra del 20% è stato raggiunto, dall’Unione Europea nel suo complesso, nel 2014.

DA SAPERE: L’indice per le emissioni di gas a effetto serra fa riferimento al protocollo di Kyoto e considera come base di partenza che le emissioni di ogni paese, nel 1990, siano pari a 100.

 

L’Europa

L’Europa ha cercato di ridurre le emissioni di gas serra del 20% rispetto ai livelli del 1990. L’obiettivo è stato raggiunto – dall’Unione nel suo complesso – nel 2014, quando le emissioni sono diminuite del 22,48% (21,66% nel 2017) rispetto al ’90. Ma le differenze tra i vari Stati membri sono significative. Soltanto 15 hanno realmente raggiunto l’obiettivo. In alcune aree le emissioni sono come detto persino aumentate: Austria, Malta, Irlanda, Spagna, Portogallo e Cipro.

L’Italia, insieme alla Francia, non ha ancora raggiunto il risultato sperato e voluto: dal 1990 al 2017 le emissioni di gas serra sono diminuite del 15,92%. Il Regno Unito le ha abbassate del 37,6%. Questo dato può essere inquadrato nel processo degli ultimi decenni che ha visto i Paesi più avanzati passare da un’economia industriale ad una basata prevalentemente sul terziario avanzato. Da segnalare che la Gran Bretagna ha recentemente annunciato l’ambizioso obiettivo di eliminare completamente le emissioni di gas serra entro il 2050.

I 6 Paesi con le minori emissioni di gas serra appartengono tutti all’Europa dell’Est: Lituania, Lettonia, Romania, Estonia e Slovacchia. Andando poi a considerare il dato rispetto alla popolazione, è il Lussemburgo il Paese con le maggiori emissioni pro capite (nel 2016). Lussemburgo che è allo stesso tempo il Paese che ha ridotto maggiormente le emissioni pro capite tra il 2005 e il 2016, seguito da Regno Unito, Irlanda, Grecia, Danimarca e Belgio.

 

Il resto del mondo

Peggiore è la situazione nel resto del mondo dove le emissioni di CO2 risultanti dalla combustione dei carburanti tra il 1990 e il 2015 sono aumentate del 57,5%. A contribuire a questa crescita sono stati soprattutto i paesi emergenti, come la Cina.

Aumentano le emissioni di CO2 nel mondo

DESCRIZIONE: A partire dagli anni ’90 sono diminuite le emissioni di CO2 in Unione Europea, mentre nel resto del mondo sono aumentate.

DA SAPERE: Il dato considera le emissioni di CO2 derivanti dalla combustione dal 1990 al 2015.

Andando ad analizzare le emissioni di CO2 per la combustione di carburanti a livello pro capite emerge che una persona negli Stati Uniti produce mediamente oltre il doppio delle emissioni rispetto a una persona dell’Unione Europea. In entrambi i casi le emissioni pro capite sono diminuite rispetto al 1990, ma non è così ovunque: il dato è peggiorato in molti Paesi in via di sviluppo, come India, Indonesia, Brasile e Cina, ma anche in Arabia Saudita, Corea del Sud e, seppur di poco, in Canada e in Giappone.

 

La Svezia supera il 50% di energie rinnovabili

DESCRIZIONE: Il paese più virtuoso è sicuramente la Svezia, che arriva ben al 54,5% di fonti di energia rinnovabile. Seguono la Finlandia (41%) e la Lettonia (39%).

DA SAPERE: Il dato indica la quota di energia rinnovabile sul consumo finale di energia.

 

L’Italia

Quadro a luci e ombre per l’Italia. Sul fronte delle emissioni, il nostro Paese non ha ancora raggiunto l’obiettivo. Dal 1990 al 2017 le emissioni di gas serra sono diminuite ‘solo’ del 15,92%. Nel nostro Paese, spiega il rapporto Agi-Openpolis, le emissioni di gas serra sono costantemente aumentate dalla seconda metà degli anni ’90 fino al 2005. Analogamente, rispetto a quanto avvenuto nel resto dell’Unione, a seguito della crisi economica c’è stato un crollo nelle emissioni, seguito da una lieve risalita nel 2010.

Successivamente il dato è sceso in maniera costante fino al 2014. Nel 2015 la nostra performance è leggermente peggiorata, e nel 2016 non avevamo ancora raggiunto il nostro livello più basso di emissioni, registrato nel 2014. Rispetto ai paesi Ue membri del G7, siamo lo Stato che ha diminuito maggiormente il livello di emissioni a partire dal 2008. Tuttavia, né noi, né la Francia, abbiamo raggiunto l’obiettivo che prevedeva una riduzione delle emissioni del 20%.

L’Italia non ha ancora raggiunto l’obiettivo UE sulle emissioni di gas serra

DESCRIZIONE: I paesi più virtuosi appartengono all’Europa dell’est. In Austria, Malta, Irlanda, Portogallo, Spagna e Cipro, al contrario, le emissioni sono addirittura aumentate.

DA SAPERE: L’indice per le emissioni di gas a effetto serra fa riferimento al protocollo di Kyoto e considera come base di partenza che le emissioni di ogni paese, nel 1990, siano pari a 100.

 

Per quanto riguarda le rinnovabili (leggi in basso), l’obiettivo di Europa 2020 prevede che entro il 2020 la quota di energia prodotta da tali fonti sul consumo totale di energia arrivi al 20%. L’Unione è riuscita a raddoppiare questa percentuale rispetto al 2004 (8,53%) ma nel 2017 ancora non ha raggiunto l’obiettivo, essendosi fermata al 17,52%. Anche l’Italia non raggiunge l’obiettivo, ma supera di quasi un punto percentuale la media Ue: 18,27% la percentuale nel 2017.

 

Rispetto al 2014, in Italia aumentano le emissioni di gas serra

DESCRIZIONE: Il nostro paese è sistematicamente riuscito a diminuire le emissioni di gas serra a partire dal 2011 fino al 2014. Tuttavia, nel 2015 la nostra performance è leggermente peggiorata.

DA SAPERE: L’indice per le emissioni di gas a effetto serra fa riferimento al protocollo di Kyoto e considera come base di partenza che le emissioni di ogni paese, nel 1990, siano pari a 100.

 

Tra i paesi del Ue del G7 è l’Italia, in termini assoluti, la più virtuosa, ed è l’unica ad aver raggiunto il proprio target. C’è da ricordare tuttavia che per facilitare il percorso verso gli obiettivi di Europa 2020, i target generali sono stati tradotti da ogni paese Ue in target nazionali. In Italia il ricorso alle energie rinnovabili è molto aumentato tra il 2011 e il 2012, raggiungendo l’obiettivo nazionale, pari a una quota del 17% già nel 2014.

L’Italia è tra i paesi Ue del G7 che hanno diminuito maggiormente le emissioni di gas serra

DESCRIZIONE: Tutti i paesi Ue appartenenti al G7 hanno diminuito le proprie emissioni di gas serra rispetto al 2008. È Regno Unito ad avere, al 2017, il livello di emissioni più basso.

DA SAPERE: L’indice per le emissioni di gas a effetto serra fa riferimento al protocollo di Kyoto e considera come base di partenza che le emissioni di ogni paese, nel 1990, siano pari a 100.

 

Rinnovabili

Sul fronte delle rinnovabili l’Unione è riuscita a raddoppiare la percentuale di energia verde rispetto al 2004 (8,53%) ma nel 2017 ancora non ha raggiunto l’obiettivo, essendosi fermata al 17,52%.

L’aumento della quota di rinnovabili è dovuto soprattutto agli sviluppi tecnologici e all’abbassamento dei costi dei sistemi di produzione. Le misure politiche che più hanno incentivato il settore sono state sovvenzioni, crediti d’imposta e il conto energia, il programma europeo per incentivare la produzione di elettricità da fonte solare.

 

L’Italia è l’unico paese Ue del G7 ad aver raggiunto l’obiettivo sulle rinnovabili

DESCRIZIONE: Tra i paesi del Ue del G7 è l’Italia, in termini assoluti, la più virtuosa, ed è l’unica ad aver raggiunto il proprio obiettivo nazionale.

DA SAPERE: Il dato indica la quota di energia rinnovabile sul consumo finale di energia.

 

La maggior parte dell’energia rinnovabile in Europa proviene da biocarburanti solidi, liquidi e gassosi, che sono utilizzati soprattutto per riscaldamento, produzione di energia elettrica e trasporti. Anche se complessivamente l’obiettivo sulle rinnovabili non è stato raggiunto, tutti i Paesi dell’Unione hanno incrementato la percentuale di rinnovabili tra il 2004 e il 2017 e 15 hanno raddoppiato la loro quota (anche se talvolta partendo da un utilizzo molto basso).

Il Paese più virtuoso è la Svezia, che arriva ben al 54,5% di fonti di energia rinnovabile. Segue, in seconda posizione, un altro Paese del Nord Europa, la Finlandia, con il 41% di rinnovabili, e in terza la Lettonia (39%). Quarto posto per la Danimarca (35%) e quinto per l’Austria (32%).

Agi

Per il Movimento la revoca delle concessioni ad Autostrade è un dovere morale 

“Il Ponte Morandi è stato definitivamente demolito e presto comincerà l’opera di ricostruzione, ma l’obiettivo fondamentale, oggi come ieri, è fare giustizia: lo dobbiamo alle persone che hanno perso la vita, ai loro familiari, ai cittadini che ci danno fiducia ogni giorno”. Comincia così il duro post che il Blog delle Stelle con cui i pentastellati tornano ad invocare come “dovere morale” lo stop alle concessioni pubbliche alla società Autostrade per l’Italia (Aspi).

“Per fare giustizia – si legge – occorre punire chi ha consentito che in un Paese come l’Italia un ponte crollasse in testa a 43 persone, uccidendole. Dal punto di vista penale ci penserà la magistratura, ma dal punto di vista politico lo deve fare il governo. E lo farà, perché a Genova è stata la mancanza di manutenzione ad uccidere. Lo ripetiamo forte e chiaro, a scanso di equivoci”.

Quindi l’indice accusatorio dei 5 stelle punta al “sistema Benetton” e alla “convenzione vergogna” garantita alla società Autostrade dai partiti del passato. “Aspi – si ricorda – ha incassato circa 9,5 miliardi di euro di utili da quando si chiama Autostrade per l’Italia. Se invece si considerano i conti dal 1999, quando è stata privatizzata la gestione della grande rete stradale, la società ha guadagnato oltre 10 miliardi. La gran parte dei quali affluiti sotto forma di dividendi nella holding Atlantia, che li ha utilizzati per remunerare i suoi soci e finanziare l’attività di diversificazione della società”.

“E gli investimenti? I numeri – prosegue il j’accuse – dicono che negli ultimi anni i profitti sono cresciuti, ma gli investimenti sono calati. Il ministero dei Trasporti ha fatto sapere che nel 2016 Autostrade ha incassato 3,1 miliardi con 624 milioni di utile al netto delle tasse grazie anche all’aumento dei pedaggi. Al casello il prezzo è salito in 10 anni del 30%. Lo stesso non si può dire per la manutenzione. Le cifre che tutti i gestori (non solo Autostrade per l’Italia) hanno speso in investimenti sono calate e anche la manutenzione di base è scesa in un anno del 7%. E sapete quanto ha speso Aspi per la manutenzione strutturale del Ponte Morandi? 23 mila euro annui. Nulla. Prima della privatizzazione del 1999, invece, si spendevano 1,3 milioni di euro tutti gli anni sullo stesso Ponte (fonte Commissione ispettiva Ministero dei Trasporti sulle ragioni del crollo). Questa è la tragica differenza tra una gestione attenta agli interessi dei cittadini e una gestione finalizzata esclusivamente al profitto privato”.

Per i 5 stelle Aspi ha quindi “lucrato guadagni incredibili da convenzioni blindate per legge, che garantivano i seguenti vantaggi:

  1. Il ritorno al costo medio ponderato del capitale oltre il 10% lordo, corrispondente ad una rendita del 7-8% netto a fronte di rendimenti dei titoli di Stato intorno al 2-3%. Ritorni di capitale altissimi, fuori mercato;
  2. Condizioni capestro nel caso in cui si volesse revocare anticipatamente la concessione, con l’obbligo per lo Stato di risarcire al concessionario i presunti profitti che avrebbe percepito fino alla fine della concessione (nel caso di Aspi fino al 2038);
  3. Extra profitti sui dati del traffico: nei piani finanziari i concessionari tenevano basse le previsioni di traffico per poter giustificare aumenti di tariffa e quando il volume di traffico reale si dimostrava superiore alle previsioni i ricavi tornavano solo in piccola parte in un fondo speciale, mentre la maggior parte veniva intascata dai concessionari;
  4. Scarsi controlli da parte del concedente del Ministero per quanto riguarda la manutenzione: i controlli venivano fatti spesso e volentieri senza andare a provare sul campo le condizioni delle autostrade.  

Il Ministero “si fidava” delle carte del Concessionario; Vantaggi tanto più odiosi tenendo conto che la rete autostradale e’ un monopolio naturale, cioe’ una infrastruttura che per sua natura non rientra nelle logiche della concorrenza e del libero mercato, perché a livello di costi è conveniente che se ne occupi un solo attore. Regalare un monopolio naturale ad un privato e’ un delitto, ma farlo alle condizioni folli appena ricordate è anche peggio”.

Secondo i pentastellati “dobbiamo mettere fine a tutto questo, e in questo anno di governo abbiamo già iniziato a correggere alcune distorsioni, bloccando ad esempio gli aumenti ai caselli autostradali fino a giugno. Ora tutti i concessionari, compresa Autostrade per l’Italia, hanno deciso che fino al 15 settembre non scatteranno i rincari previsti dal primo luglio. Quando lo Stato torna a farsi sentire i privati si adeguano, se non vogliono pagare dazio”.

“Ma – si sottolinea – nel caso di Autostrade il sacrosanto stop agli aumenti delle tariffe non puo’ bastare. Come governo abbiamo il dovere di sottrarre le autostrade italiane dalle mani di chi ha guadagnato cifre mostruose senza investire adeguatamente nella manutenzione e nella sicurezza dei cittadini. Lo stop alla concessione pubblica e’ un dovere morale”.

Agi

Di Maio: “Se mettiamo Atlantia dentro Alitalia mettiamo in difficoltà anche la linea aerea”

“Se mettiamo Atlantia dentro Alitalia mettiamo in difficoltà anche la linea aerea”. Lo ha detto il vicepremier e ministro dello Sviluppo Economico, Luigi Di Maio. Dichiarazioni che hanno provocato l’immediata reazione del gruppo. “Le dichiarazioni odierne del vice presidente Di Maio perturbano l’andamento del titolo Atlantia in Borsa, anticipando la presunta conclusione di un procedimento amministrativo che il ministro Toninelli ha affermato solo ieri ‘essere ancora in corso’, e determinano gravi danni reputazionali per la società” afferma una nota del gruppo. 

“La società – prosegue la nota – si riserva di attivare ogni azione e iniziativa legale a tutela dei propri interessi, dei dipendenti, degli azionisti, dei bondholders e degli stakeholders tutti. Si ricorda che, sulla base del contratto di concessione in essere, ogni ipotesi di revoca – ove mai ne venissero accertati i presupposti – richiederebbe il previo pagamento del valore della concessione stessa, nei termini contrattualmente previsti e approvati per legge”.
 

Agi