Tag Archive: quasi.

In arrivo quasi 47 miliardi di tredicesime (ma 11,4 finiranno al Fisco)

AGI – In arrivo quasi 47 miliardi di euro di tredicesime, di cui 11,4 finiranno nelle casse dell’Erario. I pensionati cominceranno a riscuoterla giovedì prossimo; i dipendenti pubblici e quelli privati, invece, entro le prossime tre o quattro settimane. Lo afferma l’Ufficio studi della Cgia che ha già fatto i primi conti: quest’anno l’ammontare complessivo toccherà i 46,9 miliardi di euro, di cui 11,4 verranno “assorbiti” dal fisco.

I destinatari di questa gratifica ammontano a 33,9 milioni di italiani: 16,1 milioni di pensionati e 17,8 milioni di lavoratori dipendenti. Probabilmente una buona parte di questa mensilità aggiuntiva sarà spesa nel mese di dicembre per pagare, in particolar modo, le bollette di luce e gas, la rata del mutuo, il saldo dell’Imu della seconda abitazione, ma è altrettanto auspicabile che la rimanente parte venga utilizzata per rilanciare i consumi natalizi. Una voce, quest’ultima, che ha una incidenza molto importante sul bilancio annuale di molti artigiani e di altrettanti piccoli commercianti.

Va ricordato che per quanto riguarda i lavoratori dipendenti, tutti i contratti nazionali di lavoro prevedono, per legge, la tredicesima mensilità. Infine, secondo una stima dell’Ufficio studi della Cgia, sono tra i 7,5 e gli 8 milioni i lavoratori dipendenti del settore privato che beneficiano anche della 14esima (pari a poco più della metà dei dipendenti privati totali).

I principali contratti nazionali di lavoro che prevedono questa mensilità aggiuntiva che tradizionalmente viene erogata a luglio sono: l’agricoltura, l’alimentare, l’autotrasporto, il commercio/turismo/ristorazione e il comparto pulizia/multiservizi.

L’Ufficio studi della Cgia stima che la spesa per i regali natalizi di quest’anno dovrebbe toccare almeno la stessa soglia registrata l’anno scorso, quando sfiorò i 9,5 miliardi di euro. Niente a che vedere, tuttavia, con quanto spendevamo prima della grande crisi del 2008-2009, quando per i regali natalizi gli italiani facevano acquisti per 18/19 miliardi di euro.

La contrazione registrata in questi ultimi anni in parte è anche ascrivibile al fatto che molti italiani anticipano a novembre l’acquisto dei regali, approfittando del “black friday”. Con meno acquisti, tuttavia, a pagare il conto sono stati soprattutto i negozi di vicinato, mentre gli outlet e, almeno in parte, la grande distribuzione organizzata sono riusciti ad ammortizzare il colpo.


In arrivo quasi 47 miliardi di tredicesime (ma 11,4 finiranno al Fisco)

Nel 2021 quasi un italiano su due ha smesso di andare fisicamente in banca  

AGI – La strada della digitalizzazione nel settore bancario, anche a seguito della situazione creatasi con il Covid-19, sembra segnata: ne sono una conferma il 45% degli italiani che nel 2021 hanno diminuito o cessato il rapporto fisico con la filiale a favore di mobile e home banking rispetto al 2019. Percentuali che salgono al 50% e al 47% se si considerano rispettivamente le fasce d’età 18-29 anni e 30-44 anni.

Lo rivela l’Osservatorio Hybrid Lifestyle di Nomisma in collaborazione con CRIF, secondo cui gli italiani detengono la propria liquidità principalmente in un unico istituto di credito. In Italia ci sono circa 47,7 milioni di correntisti (fonte: Banca d’Italia), più della metà dei rispondenti ha rapporti con un unico istituto di credito (66%).

Gli italiani che hanno rapporti con più di un istituto di credito sono prevalentemente uomini e appartengono alla fascia d’età 30-44 anni. Secondo lo studio, il 68% degli italiani bancarizzati preferisce l’utilizzo del mobile banking (da smartphone) rispetto agli altri canali di contatto con l’istituto di credito. Un fenomeno che interessa maggiormente gli uomini (70% vs 66% donne) e le fasce d’età dei più giovani (74% tra i 18 e i 29 anni, 73% tra i 30 e i 44 anni).

Il 56% degli italiani preferisce l’uso dell’home banking (da pc) rispetto agli altri canali, si tratta in particolare dei “meno giovani” della fascia d’età 55-65 anni che hanno saputo trasformare una necessità in una virtù (63%).

Oltre alla propensione e alla intensità di utilizzo a cambiare è stata anche l’esperienza digitale: per il 64% è migliorata la fruizione dei servizi bancari online – quota di soddisfazione che sale al 68% tra coloro che hanno rapporti con più di un istituto.

Per un utente su 3, l’esperienza digitale, favorita dall’attuale situazione pandemica, è diventata elemento fondante della relazione in quanto fattore positivo in grado di rafforzare il livello di fiducia con il proprio istituto di credito, soprattutto tra coloro che hanno rapporti con più banche.

La trasformazione digitale e le mutate esigenze dei clienti – sempre più esigenti e smart – rappresentano una sfida – fa notare l’indagine – ma anche una grande opportunità per incrementare la loyalty e quindi una relazione di lungo periodo.

Per il 66% degli italiani l’elemento che maggiormente aiuterebbe ad incrementare la soddisfazione nei confronti del proprio istituti di credito è la gestione del conto corrente e delle operazioni semplice ed intuitiva. A richiederlo sono principalmente le donne (70% vs 62% uomini) e la fascia d’età dei meno giovani (55-65 anni 78% vs 18-29 anni 59%) che hanno approcciato la trasformazione digitale come “non nativi”.

Una gestione del conto intuitiva deriva da una interfaccia web altrettanto semplice, richiesta dal 40% degli italiani, ma anche sicura (38%). 

Importante è anche la visione complessiva del patrimonio da poter tenere sempre cotto controllo (34% scelta a risposta multipla), elemento riconosciuto particolarmente di valore dalla fascia d’età 30-44 (41%).
Nella stessa area di interesse rientrano quei servizi in grado di facilitare la gestione dell’economia familiare, come l’analisi delle spese, con la categorizzazione per tipologia merceologica, grafici di trend (27%) – 36% per i più giovani tra i 18 e i 29 anni – e la possibilità di collegare i conti correnti posseduti presso altri istituti, per visualizzare il patrimonio totale (26%).

Esigenze lato domanda che trovano sempre più un riscontro nell’offerta di alcuni istituti di credito che danno un servizio di aggregazione di conti con un livello di sicurezza elevato, nel pieno rispetto degli standard previsti dalla direttiva europea PSD2 in ambito open banking.

Ing


Nel 2021 quasi un italiano su due ha smesso di andare fisicamente in banca  

Il lockdown mette a rischio quasi mezzo milione di piccole e medie imprese

AGI – Sono 460.000 le piccole imprese italiane (con meno di 10 addetti e sotto i 500.000 euro di fatturato) a rischio chiusura a causa dell’epidemia: l’11,5% del totale, capace di un fatturato complessivo di 80 miliardi di euro e di impiegare un milione lavoratori. È quanto emerge dal ‘Secondo Barometro Censis-Commercialisti sull’andamento dell’economia italiana’, realizzato in collaborazione con il Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili.

Secondo il rapporto, a causa delle conseguenze del lockdown per arginare la pandemia da Covid-19 potrebbe sparire il doppio delle microimprese che sono morte tra il 2008 e il 2019, come conseguenza della grande crisi. “Sarebbe un doloroso addio ai nostri piccoli imprenditori vittime di una strage annunciata, con gravi ricadute sulla crescita: è in pericolo il meglio del motore antico del modello di sviluppo italiano”, si legge in una nota del Censis.

Il 29% dei commercialisti coinvolti nella ricerca rileva che più della metà delle microimprese clienti ha almeno dimezzato il proprio fatturato (il dato scende al 21,2% nel caso dei commercialisti che si occupano di imprese medio-grandi). Sono quindi 370.000 le piccole imprese che hanno subito un crollo di più della metà dei ricavi.

Inoltre, il 32,5% dei commercialisti registra in più della metà della clientela una perdita di liquidità superiore al 50% nell’ultimo anno (il dato scende al 26,2% tra i commercialisti che seguono imprese di maggiori dimensioni). Sono cioè 415.000 le piccole imprese che oggi dispongono di meno della metà della liquidità di un anno fa.

Le misure pubbliche adottate durante l’emergenza ottengono una valutazione tra luci e ombre da parte dei commercialisti. Il sostegno alle imprese (moratoria sui mutui, garanzie statali sui prestiti) viene giudicato positivamente dal 45,2%, in modo negativo dal 34%. Gli aiuti al lavoro (divieto di licenziamento, ricorso alla Cassa integrazione in deroga) sono promossi dal 43,4%, bocciati dal 34,9%. Il sostegno alle famiglie (bonus babysitter, congedi parentali, Reddito di emergenza) è visto con favore dal 36,6%, mentre il 37,5% ne dà un giudizio negativo.

La sospensione dei versamenti fiscali e contributivi per le imprese più penalizzate è valutato bene dal 33,3%, male dal 46,9%. Per i commercialisti lo sforzo statuale nel supportare gli operatori economici e i lavoratori durante il blocco di mercati e imprese va apprezzato, ma non basta.

Per evitare la moria di piccole imprese, secondo i commercialisti bisogna intervenire agendo su quello che non ha funzionato. Il 79,9% dei commercialisti auspica più chiarezza nei testi normativi, il 76,7% chiede tempestività nei chiarimenti sulle prassi amministrative, il 70,7% molti meno adempimenti, il 67,2% una migliore distribuzione delle risorse pubbliche tra i beneficiari, il 61,1% una più efficace combinazione delle misure adottate, il 58,4% un taglio netto dei tempi necessari per l’effettiva erogazione degli aiuti economici, il 49,9% ritiene necessari stanziamenti economici più consistenti.

Se gli strumenti di sussidio per i diversi beneficiari vengono promossi, viene però bocciata l’effettiva applicazione delle misure a causa dei detriti burocratici che rallentano tutto. Secondo i dati raccolti dai commercialisti occorre snellire gli adempimenti burocratici e i passaggi formali per rendere gli interventi più efficaci. Per i commercialisti è in corso uno smottamento continuato dell’economia. Per il 41% bisogna essere pronti a tutto perché tutto può succedere.

Il 27,6% sottolinea l’ansia pervasiva provocata dalla nuova ondata di contagi. Come in un videogioco con tante scelte possibili e altrettanti finali: appare così il destino delle imprese italiane, tra virus, restrizioni e burocrazia che non funziona. Per il 40,7% dei commercialisti ci vorrà molto tempo per uscire dalla crisi, il 26,9% ritiene che occorre adattarsi subito alle nuove condizioni o non ci sarà crescita, il 24,2% pensa che molti settori vitali siano ancora in difficoltà. 

Agi

Altro che salvataggio. Gli aiuti alla Grecia sono finiti quasi tutti alle banche

La 'troika' abbandona la Grecia dopo otto anni di commissariamento che lasciano un Paese stremato da tagli durissimi al welfare e una popolazione impoverita dagli effetti recessivi della dottrina dell'austerità. Certo, due anni fa l'economia ha ripreso a crescere e quest'anno dovrebbe raggiungere un'espansione superiore al 2%. I conti sono tornati in ordine, con un deficit sceso lo scorso anno sotto l'1% del Pil. Il costo sociale delle riforme imposte da Ue, Bce e Fmi è stato però elevatissimo. Secondo l'ultimo rapporto Eurostat sulle povertà estreme, un cittadino greco su cinque non riesce a pagare le utenze di luce e gas o acquistare carne regolarmente. Ci sono studi secondo i quali dal 2010 al 2015 la percentuale di greci che ha dovuto rinunciare a spese mediche per mancanza di denaro, potendo contare sempre meno sul sistema sanitario pubblico, è più che raddoppiata, dal 10% al 22%. Il tasso di suicidi, in precedenza bassissimo, e il numero di persone colpite da depressione, nel frattempo, sono aumentati. 

Una vulgata da confutare

Ovviamente Atene ha le sue responsabilità, nelle spese allegre per le Olimpiadi che spinsero i governi di allora a truccare i conti per nascondere la voragine nei bilanci. Ciò non rende però meno inaccettabile la vulgata sugli operosi nordeuropei costretti a mettere mano al portafoglio per "salvare" gli scialacquatori levantini. E non solo perché, a conti fatti, il governo di Berlino ha guadagnato 1,3 miliardi dai prestiti concessi durante la crisi ellenica. I tre piani di prestiti alla Grecia, un totale di 241 miliardi dal 2010 al 2018, sono stati prima di tutto uno strumento per consentire alle banche francesi e tedesche (minima era l'esposizione di quelle italiane) di salvaguardare i propri investimenti nel Paese egeo, investimenti che una 'Grexit' avrebbe ridotto in poltiglia con i prevedibili effetti domino sulle rispettive economie nazionali. A confermarlo fu uno studio dell'European School of Management and Technology di Berlino risalente al maggio 2016, che analizzò la destinazione dei 216 miliardi di prestiti erogati fino ad allora.

I contribuenti europei hanno salvato i privati

Dallo studio risulta che il 95% della somma era stata assorbita dalle banche dell'Eurozona e solo il 5% era concretamente finito nelle casse statali di Atene. "L'Europa e il Fondo Monetario Internazionale negli anni scorsi hanno salvato soprattutto le banche europee e altri creditori privati", spiegò ad Handelsblatt Jorg Rocholl, direttore dell'istituto. Gli economisti che hanno partecipato allo studio hanno esaminato singolarmente ogni prestito per stabilire dove sia finito il denaro e hanno concluso che solo 9,7 miliardi di euro sono stati messi a bilancio dal governo greco a beneficio dei cittadini laddove 86,9 miliardi di euro sono stati utilizzati per rimborsare vecchi debiti, 52,3 miliardi per il pagamento degli interessi e 37,3 miliardi per la ricapitalizzazione delle banche elleniche. "È un qualcosa che tutti sospettavano ma che pochi sapevano davvero. Ora uno studio lo conferma: per sei anni l'Europa ha tentato invano di porre fine alla crisi in Grecia attraverso i prestiti e chiedendo riforme e misure sempre più dure", sottolineò il quotidiano tedesco, "del fallimento, come ovvio, è maggiormente responsabile la pianificazione dei programmi di salvataggio che il governo greco". In sostanza, chiosò Rocholl, "i contribuenti europei hanno salvato gli investitori privati".

L'Italia ha pagato il conto per gli altri

Buona parte dell'esposizione – attraverso i fondi salva-Stati europei Efsf ed Esm – è passata quindi dalle banche agli Stati. Il problema è che la cifra concretamente versata dagli Stati come quota dei prestiti non ha corrisposto certo all'esposizione del proprio sistema bancario, bensì alla propria partecipazione nei suddetti fondi. Pertanto la Francia, che nel 2011 risultava la più esposta con 60 miliardi di crediti a rischio, se l'è cavata sborsando 46 miliardi di euro, (considerando prestiti bilaterali e quote in Bce, Efsf ed Esm) laddove l'Italia, sempre al 2015, aveva versato ben 40 miliardi a fronte di un'esposizione pari ad appena 10 miliardi. Ancora peggio è andata alla Spagna, che è passata da un'esposizione quasi nulla a 25 miliardi. La Germania – secondo i dati della Banca internazionale dei regolamenti – risultava esposta per 40 miliardi e ne avrebbe versati in totale 60. Ci ha perso pure Berlino, quindi? Non è così semplice, e non solo perché questi dati, non tengono conto dei successivi, complessi spostamenti delle esposizioni e delle plusvalenze sui prestiti realizzate nei tre anni successivi.

"A guardare più da vicino, la ripartizione del credito per tipologia mostra che in realtà sono le banche tedesche le più esposte perché hanno 22,7 miliardi di debito governativo ellenico contro i 15 miliardi della Francia", spiegava allora Formiche, "ed è proprio il debito governativo quello su cui focalizzarsi, come specifica Boris Groendahl in un articolo di Bloomberg". Non solo. Se a settembre 2014, “in valore assoluto solo Belgio e Germania avevano incrementato la loro esposizione al settore pubblico greco", sottolineò Bruegel, "l’unico Paese dove l’esposizione pubblica è aumentata in maniera massiccia come percentuale sul totale è l’Italia”. Tutto questo oggi non potrebbe più accadere. Con la direttiva sul bail-in, a sopportare il prezzo di una crisi bancaria sarebbero i creditori degli istituti, non i contribuenti europei.

@CiccioRusso_Agi

Agi News

Lo stato del digitale in Italia: 5,5 miliardi di spese, risultati zero o quasi. Un’inchiesta

La trasformazione digitale della Pubblica amministrazione per ora non ci sarà. Mancano persone competenti, i progetti sono portati avanti con ritardi inaccettabili, spesso non vengono nemmeno finiti, e quelli portati a termine spesso non producono alcun beneficio ai cittadini.

È la fotografia emersa da un’indagine della Commissione parlamentare di inchiesta sul livello di digitalizzazione e innovazione della pubblica amministrazione e sugli investimenti nel settore delle tecnologie: 160 pagine da cui emerge una situazione si assoluta arretratezza dell’Italia digitale, fatta di ritardi, sprechi e disservizi che hanno come unica conseguenza lo “scarsissimo utilizzo dei servizi online da parte dei cittadini”, che mostrano un basso gradimento di quanto fatto finora. La Commissione era composta da 20 parlamentari, guidati dal presidente Paolo Coppola (Pd), e due vice: Federico D’Incà (M5S) e Mara Mucci (gruppo misto). A colloquio con Agi, Coppola spiega: "Hanno la testa nel secolo scorso. Chi ha potere decisionale non capisce il digitale. E ne ostacola l'applicazione". 

5.5miliardi di spesa, pochissimi risultati

“Dai lavori della Commissione non si può desumere che la spesa ICT sia eccessiva (5,5 miliardi calcolati, 85 euro per ogni cittadino, ndr), ma sicuramente emerge una scarsa capacità di controllo della qualità della spesa, soprattutto per quanto riguarda i sistemi informativi e l’impatto che dovrebbero produrre, sia in termini di risparmi, sia in termini di miglioramento della qualità dei servizi, che non viene quasi mai misurato”.

Non solo: “La mancanza di adeguate competenze interne impedisce alla PA di contrattare adeguatamente con i fornitori, di progettare correttamente le soluzioni necessarie, di scrivere bandi di gara che selezionino il prodotto o il servizio più adeguato e aperto a nuove implementazioni e, infine, di controllare efficacemente lo sviluppo e la realizzazione delle soluzioni informatiche”. Questo comporta che “si portano avanti i progetti, spesso con ritardi inaccettabili, ma anche quando sono conclusi sembra che non abbiano portato nessun miglioramento sostanziale e si passa quindi al progetto successivo, in un circolo vizioso”. Ma è solo una delle criticità emerse.

Le principali criticità emerse

Anagrafe digitale: ritardi ed errori 

“Il progetto dell’Anagrafe nazionale della popolazione residente ha sofferto problemi di scarse competenze tecnologiche lato ministero dell’Interno e manageriali lato sia ministero sia Sogei (la controllata dell’Economia che si occupa dei servizi informatici della pubblica amministrazione, ndr)”. A fronte di una spesa consistente: “23 milioni di euro stanziati non sono stati sufficienti a portare a compimento il progetto a causa di ritardi anche nella definizione dei decreti attuativi, errori nella perimetrazione dettata dalla legge inizialmente troppo limitata all’anagrafe e non estesa allo stato civile, scarso coinvolgimento degli stakeholder nella fase di progetto e realizzazione”.

Il caso dell’anagrafe è quello che ha portato la Commissione ad evidenziare un’idea “coercitiva della digitalizzazione” che ha “sottovalutato la complessità del dominio portando a ritardi che hanno sicuramente comportato sprechi in quanto parte della cifra stanziata ha dovuto essere utilizzata per continuare a mantenere in esercizio per un tempo maggiore di quello preventivato il vecchio sistema”. Fino a quando tutto non è passato in mano al team digitale del Commissario straordinario Diego Piacentini che, si legge, “ha apportato le necessarie competenze manageriali”. 

Sistema informativo agricolo: un caso simbolo di scarsa competenza

Una delle inchieste che hanno maggiormente impegnato la commissione è stata quella della Sian, il Sistema informativo agricolo nazionale che assicura i servizi necessari alla gestione delle politiche comunitarie. “Rispetto al Sian le criticità maggiori emerse riguardano l’eccessivo sbilanciamento delle competenze tecnologiche presenti nei fornitori e quasi totalmente assenti nella parte pubblica con la conseguente sostanziale impossibilità di controllo di qualità e di adeguato dimensionamento della spesa”, si legge nella relazione della Commissione.

La scelta della pubblica amministrazione di affidare la gestione del servizio “ad un misto di pubblico e privato” ha portato “ad un sistema inefficace in cui la qualità del servizio non è sufficiente”. Oggetto di inchieste giornalistiche, per Sian è stato programmato un software la cui complessità “rende impossibile valutare se funzioni o meno”. Ma emergono comunque criticità come “duplicazione dei dati” e “problemi dell’interfaccia web tra cui l’apertura di centinaia di pop-up e log-in sumultanei”. Sian è “un esempio paradigmatico di una serie di errori nella gestione della spesa ICT”: la Commissione “si è trovata di fronte ad un caso in cui la carenza di competenze tecniche dal lato della committente pubblica ha portato l’amministrazione ad affidarsi completamente alle dipendenze del fornitore”. 

2 milioni di sprechi per 'oroscopi e servizi erotici'

Chiamate ai call center, oroscopi, giochi e servizi erotici sono una fonte di spreco per la pubblica amministrazione. I servizi Ict offerti, infatti, vengono utilizzati per servizi che caricano sullo Stato “spese aggiuntive”. La Commissione ha ottenuto da Tim una stima: gli sprechi ammontano a 8,3 milioni di euro. Monitorando queste spese tra aprile e giugno, la Commissione ha potuto accertare in cosa consistono. Tra le voci più consistenti c'è quella per i servizi di call center di compagnie telefoniche, banche e imprese di trasporti. Ma ci sono anche spese per “intrattenimento premium”, cioè “servizi interattivi” (spesso via sms) su notizie, oroscopi, giochi, informazione sportiva e servizi erotici per adulti. Spesa: 428 mila euro in tre mesi. 
 

L'intervista: "Corruzione e paura: perché i burocrati italiani non vogliono il digitale"
 

La relazione parla di servizi “inutili”: “Il quadro emerso certifica uno spreco di risorse pubbliche. Per evitare un tale spreco di denaro pubblico, sarebbe necessario ed opportuno prevedere, all’interno delle convenzioni con i gestori di telefonia, il blocco automatico dei servizi aggiuntivi descritti per i contratti con la Pubblica Amministrazione. Il fatto che le Pubbliche Amministrazioni non abbiano bloccato negli anni l’uso di questi servizi è una indicazione chiara della mancanza di controlli sugli addebiti in fattura”.

Errori innumerevoli nella banca dati dei contratti pubblici. È inutilizzabile

Da quanto emerge dall’inchiesta, il filone d’indagine sulla Banca Dati Contratti Pubblici dell’Anac, autorità nazionale anticorruzione, non ha potuto produrre alcun risultato. Il motivo è che sono stati immessi male, tanto da renderla inutile. “Le analisi delle tipologie di gara, della distribuzione dei fornitori, dei tempi medi di aggiudicazione, degli scostamenti tra bandito e aggiudicato, del numero di partecipanti, che potrebbero essere ottimi strumenti di controllo tesi a verificare l’esistenza di schemi corruttivi, non possono essere utilizzati.

Gli errori presenti nella banca dati sono innumerevoli” e dall’indagine emerge che “l’intero processo di acquisizione dei dati è estremamente inefficiente e inefficace”. Un esempio? “I dati vengono immessi più volte, in tempi diversi, senza un vero controllo in fase di inserimento, con il personale di Anac impiegato nel faticoso, quanto poco utile, compito di controllare a posteriori i dati e chiedere le correzioni o integrazioni necessarie, rendendo tutto il processo uno spreco di tempo, e quindi di denaro pubblico”. 

Altro che digitale, il pubblico è ancora il regno della carta

La digitalizzazione della PA viaggia “a due velocità”. Da una parte si assiste a un progresso dei servizi a contatto con i cittadini. Dall'altra c'è un grave ritardo nella gestione dei processi interni, ancora troppo dipendenti dalla carta. La relazione sottolinea alcuni elementi positivi: “I siti web delle amministrazioni tendono ad offrire contenuti sempre più uniformi e standardizzati”, c'è “impegno nel favorire gli open data”, e alcuni servizi come la fatturazione elettronica sono sempre più diffusi. Dietro le quinte, però, “le amministrazioni palesano gravi criticità, ritardi, resistenze ed inadempienze”, afferma la Commissione.

La PA “si affida ancora troppo alla carta”. Un esempio citato racconta più di mille numeri: due ministeri hanno risposto alle domande della Commissione sullo stato di digitalizzazione “facendo pervenire un documento cartaceo contenuto in una busta, trasportata e consegnata per mezzo di un motociclista”. Se dai ministeri si va nei comuni, la situazione è simile: l’86% prevede ancora dei procedimenti che hanno bisogno di timbri, firme e sigle a margine. E solo il 26% dei servizi è accessibile attraverso Spid. Ci sono quindi forti resistenze, nonostante l'80% dei municipi affermi che ha risparmiato grazie alla digitalizzazione.

Nalla Pa lavorano 32mila dipendenti sull'Ict, eppure servono competenze

Nonostante la Commissione di inchiesta parlamentare sulla digitalizzazione abbia evidenziato la mancanza di competenze nella PA, secondo le stime del Piano triennale dei costi per l’informatica nella Pubblica Amministrazione redatto dall’Agid sarebbero 32 mila i dipendenti pubblici che lavorano nel campo dell’ICT, ai quali si aggiungono altri 10 mila dipendenti delle società in house centrali e locali. Il piano stima anche l’esistenza di circa

  • 11.000 data center delle pubbliche amministrazioni,
  • 25 mila siti web e circa
  • 160 mila basi dati, sui quali si appoggiano oltre 200 mila applicazioni. 

Alla frammentazione si aggiunge un altro problema: “Dalla seduta della Commissione del 14 dicembre 2016 è emerso come si tenda ad esternalizzare molto, con la conseguenza di incrementare la difficoltà nell’effettuare investimenti mirati e necessari”. Un freno che cozza la spending review: “La razionalizzazione dei costi- afferma la Commissione – risulta molto più semplice quando si rielaborano i processi in chiave digitale”. 

67 audizioni, un terabyte di dati raccolti: "Servono profili adeguati"

Il lavoro di indagine è durato un anno: 67 audizioni tra istituzioni e società di consulenza e un terabyte di documenti analizzati che inchiodano la macchina statale, la cui maggiore criticità è quella di disporre di un personale inadeguato al compito di digitalizzare il Paese. Nel testo si legge che la Pa “non può più procrastinare un adeguamento delle competenze del personale dirigenziale” sia attraverso un “massiccio investimento in formazione, sia attraverso una ineludibile immissione di nuovo personale soprattutto a livelli apicali”.

Dunque, prima di tutto, nella pubblica amministrazione mancano le figure necessarie alla digitalizzazione del Paese. Eppure la normativa italiana prevedeva queste figure già dal 1993, e, andando ancora più indietro, nel 1981 il Cnel parlava dell’informatica come “strumento di riforma di una pubblica amministrazione che voglia essere moderna e produttiva”. Trentasei anni dopo, la nostra macchina burocratica manca ancora di queste figure. Ma cambiare il passo della digitalizzazione dell’Italia non passa soltanto dal fornire la PA di nuove figure, meglio formate. 

Le soluzioni: rafforzare l'Agid e cambiare mentalità

Una seconda indicazione riguarda “il rafforzamento dell’Agenzia per l’Italia digitale, sia dal punto di vista finanziario, sia da quello della dotazione organica” perché secondo la Commissione “non riesca a svolgere tutte le sue funzioni” rispetto alla “vigilanza e controllo sul rispetto delle norme del Codice dell’amministrazione digitale”. Ma molto passa anche da una revisione delle linee guida per la fornitura dei sistemi informativi “che preveda studi di fattibilità e progettazione prima della messa a bando della realizzazione, in modo da specificare meglio gli obiettivi di digitalizzazione e gli indicatori di risultato del progetto”. Un cambiamento culturale profondo, che passi dalla logica “al massimo ribasso sul costo” ad una logica di prodotto, “con opportune metriche di qualità”.

@arcangelorociola

 

Agi News