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Costo del denaro alle stelle, i nuovi mutui sono i più cari dal 2013

AGI – Sotto la spinta della stretta monetaria avviata dalla Bce, continuano a salire i tassi sui nuovi prestiti a gennaio, con il costo dei nuovi mutui che balza al top da novembre 2013. In particolare, segnala il Bollettino mensile dell’Abi, il tasso medio sul totale dei prestiti è risultato pari al 3,51% (3,20% nel mese precedente e 6,18% prima della crisi, a fine 2007), quello sulle nuove operazioni di finanziamento alle imprese si è attestato al 3,70% (3,55% a dicembre; 5,48% a fine 2007) e quello sulle nuove operazioni per acquisto di abitazioni è il 3,53% (3,01% a dicembre, 5,72% a fine 2007).

“Quanto alla dinamica dei finanziamenti per acquisto di abitazioni”, ha sottolineato il vicedirettore generale dell’Abi, Gianfranco Torriero, presentando il rapporto, “non disponiamo di informazioni dirette su quello che può essere l’impatto dei tassi di interesse, che rimangono in un territorio relativamente contenuto: sicuramente a dicembre 2007 i valori erano estremamente più elevati. Il tema rilevante, piuttosto, è che la domanda di abitazioni non è solamente funzionale ai tassi praticati ma soprattutto ai prezzi delle abitazioni e al reddito disponibile. Ci sono un insieme di fattori che incidono direttamente sulla domanda di abitazioni. Per il momento dobbiamo attendere le indicazioni che avremo nel prossimo futuro dall’Agenzia delle Entrate, con i loro monitoraggi abituali, per quanto riguarda soprattutto la compravendita delle abitazioni. Perchè è il sottostante che poi rileva in misura significativa. In questo momento permane una dinamica di finanziamenti alle famiglie che è comunque sicuramente positiva, come confermato dall’ultimo dato disponibile a dicembre 2022 dei prestiti alle famiglie (+3,3% su base annua)”. 


Costo del denaro alle stelle, i nuovi mutui sono i più cari dal 2013

Niente più blackout in casa, le auto elettriche diventano generatori 

AGI – Possedete un’auto elettrica? Bene, d’ora in poi non abbiate più timore dei blackout improvvisi. La vostra auto potrà funzionare come un generatore, una centralina elettrica autonoma e continuerà ad erogare energia, anche se – certo – per un tempo limitato (minimo tre giorni).

Stando all’esperienza di Nate Graham di Albuquerque, nel New Mexico, è andata proprio così: sparita l’elettricità, lui aveva con sé un dispositivo per convertire la corrente continua delle batterie nella corrente alternata necessaria per far funzionare gli elettrodomestici, che ha così collegato alla sua nuova Chevy Bolt, un veicolo elettrico. Costo del convertitore: 150 dollari. “La batteria della Bolt ha alimentato facilmente il frigorifero, le luci e tutti gli altri dispositivi essenziali, mentre fuori tutto il resto del suo quartiere era immerso nell’oscurità. La sua vita domestica invece ha proseguito nella più totale normalità.

Oggi Graham alimenta principalmente i suoi elettrodomestici con i pannelli solari sul tetto ma, quando la corrente s’interrompe, mette in funzione la sua Chevy Bolt. Un vero vantaggio, perché così facendo “ha ridotto la sua bolletta energetica mensile da circa $ 220 a $ 8 al mese”, stando al resoconto del Washington Post, che sottolinea come “l’esperienza di Graham sia un’anticipazione di ciò che alcune case automobilistiche promettono a chiunque abbia un veicolo elettrico: un’enorme batteria domestica su ruote che può invertire il flusso di elettricità per alimentare l’intera casa attraverso il generatore principale”.

Oltre a fungere da generatore di riserva privo di emissioni, la batteria Ev ha il potenziale per rivoluzionare il ruolo dell’auto nella società americana, trasformandola da elemento di un’esistenza ad alta intensità di carbonio “in un passaggio chiave nella transizione verso l’energia rinnovabile”, sostiene il giornale.  


Niente più blackout in casa, le auto elettriche diventano generatori 

Per Bankitalia il contante costa agli esercenti più delle carte

AGI – La Banca d’Italia avverte che le norme contenute nella legge di bilancio sull’innalzamento del tetto per l’utilizzo del contante e sulla rimozione delle multe per gli esercenti che non consentono di utilizzare il Pos fino a 60 euro rischiano di entrare in contrasto con la modernità proposta dal Pnrr e di non favorire la lotta all’evasione fiscale e all’economia sommersa. Così come alcune misure di tregua fiscale. Nella deposizione alle Commissioni Bilancio congiunte di Camera e Senato, Fabrizio Balassone, capo del servizio struttura economica del Dipartimento Economia e Statistica della Banca d’Italia, ha analizzato la legge di bilancio evidenziandone le criticità riscontrate e i punti di forza.

“Le norme in materia di pagamenti in contante e l’introduzione di misure che riducono gli oneri tributari per i contribuenti non in regola rischiano di entrare in contrasto con la spinta alla modernizzazione che anima il Pnrr e con l’esigenza di ridurre l’evasione fiscale”, ha spiegato il dirigente di Bankitalia.

“I pagamenti elettronici riducono l’evasione”

Balassone ha ricordato: “Il tetto sul contante rappresenta un ostacolo per la criminalità e l’evasione. Degli studi degli ultimi anni suggeriscono che soglie più alte favoriscono l’economia sommersa. C’è inoltre evidenza che l’uso dei pagamenti elettronici, grazie al loro tracciamento, riduce l’evasione fiscale”. La manovra prevede, invece, l’innalzamento a partire dal 1 gennaio 2023 da mille a cinquemila euro del limite per l’utilizzo nei pagamenti.

Il dirigente di Palazzo Koch ha specificato inolte che il contante “ha dei costi legati alla sicurezza, visto i furti a cui è soggetto”, segnalando che le statistiche su dati 2016 elaborate da Bankitalia riportavano come “per gli esercenti il costo per il contante è stato superiore a quello delle transazioni digitali con carta di credito o di debito”.

 Bankitalia osserva inoltre come una serie di misure fiscali contenute nella legge di bilancio presenti “aspetti critici più volte segnalati in riferimento a misure analoghe”. Perché, secondo Balassone, “la discrepanza di trattamento fiscale tra dipendenti e lavoratori autonomi, e tra questi quelli sottoposti a regime forfetario, risulta accresciuta”.

Quanto all’estensione della flat tax, il dirigente di Bankitalia ha specificato: “In un periodo di inflazione elevata la coesistenza di un regime a tassa piatta e uno soggetto a progressività comporta una ulteriore penalizzazione per chi è soggetto al secondo”.

Una manovra con una “impostazione prudente”

Al netto dei rilievi, la banca centrale valuta che “vista l’elevata incertezza del quadro economico e gli spazi di bilancio limitati”, l’impostazione scelta dal governo per il documento di programmazione di bilancio “appare prudente”. La congiuntura nel Paese “ha mostrato sinora una tenuta”, con un andamento “ancora favorevole degli investimenti”. Gli inndicatori più recenti, però, ha sottolineato Balassone, “indicano un rallentamento del trimestre in corso. E il quadro macroeconomico delineato nel documento di programmazione sostanzialmente non si discosta da questo scenario”.

Resta ferma un’altra raccomandazione sul deficit. “Dato il livello alto del debito pubblico – ha concluso il dirigente – l’incertezza sulle prospettive economiche ed il livello alto dei tassi di interese, l’obiettivo della riduzione del rapporto debito/Pil nel triennio è una scelta necessaria”.

Non si placa dunque la discussione sulle due misure in materia di utilizzo del contante, tra le più dibattute tra quelle contenute del documento di programmazione. Ieri la premier Giorgia Meloni ha sostenuto che più abbassi il tetto al contante più favorisci l’evasione”. Mentre sul Pos ha aggiunto: “La soglia può essere meno di 60 euro”.

Le critiche delle opposizioni

Ma le opposizioni replicano che le norme vanno stralciate. “Oggi anche la Banca d’Italia, dopo la Corte dei conti e Confindustria, boccia la manovra. Viene cancellato il reddito di cittadinanza e viene introdotta l’evasione di cittadinanza”, ha detto il leader M5s Giuseppe Conte.

Anche il senatore Pd Antonio Misiani ha incalzato il governo: “Dopo la Corte dei Conti anche la Banca d’Italia boccia le norme della legge di bilancio su Pos e contanti. Giustamente. Favoriscono l’evasione, complicano la vita ai tanti italiani che usano la moneta elettronica e mettono a rischio il Pnrr. Il governo le tolga di mezzo”. 


Per Bankitalia il contante costa agli esercenti più delle carte

L’inflazione sfiora il 9% e costa alle famiglie italiane più di 3.000 euro

AGI – Non si arresta la corsa dell’inflazione. A settembre, comunica l’Istat, l’indice nazionale dei prezzi al consumo per l’intera collettività, al lordo dei tabacchi, ha registrato un aumento dello 0,3% su base mensile e dell’8,9% su base annua (da +8,4% del mese precedente). Il dato tendenziale è il più alto da novembre 1985.

L’ulteriore accelerazione dell’inflazione su base tendenziale a settembre si deve soprattutto ai prezzi dei beni alimentari (la cui crescita passa da +10,1% di agosto a +11,5%) sia lavorati (da +10,4% a +11,7%) sia non lavorati (da +9,8% a +11,0%) e a quelli dei servizi ricreativi, culturali e per la cura della persona (da +4,6% a +5,7%).

Contribuiscono, in misura minore, anche i prezzi dei beni non durevoli (da +3,8% a +4,7%) e dei beni semidurevoli (da+2,3% a +2,8%). Pur rallentando di poco, continuano a crescere in misura molto ampia, i prezzi dei beni energetici (da +44,9% di agosto a +44,5%) sia regolamentati (da +47,9% a + 47,7%) sia non regolamentati (da +41,6% a +41,2%); decelerano anche i prezzi dei servizi relativi ai trasporti (da +8,4% a +7,2%). L'”inflazione di fondo”, al netto degli energetici e degli alimentari freschi, accelera da +4,4% a +5,0% e quella al netto dei soli beni energetici da +5,0% a +5,5%. 

Il cibo non costava così tanto da quasi 40 anni

Su base annua accelerano i prezzi dei beni (da +11,8% a +12,5%), mentre è sostanzialmente stabile la crescita di quelli dei servizi (da +3,8% a +3,9%); si amplia, quindi, il differenziale inflazionistico negativo tra questi ultimi e i prezzi dei beni (da -8,0 di agosto a -8,6 punti percentuali).

Accelerano, al top da luglio 1983, i prezzi dei Beni alimentari, per la cura della casa e della persona (da +9,6% a +11,1%) – il cosiddetto ‘carrello della spesa’ – e quelli dei prodotti ad alta frequenza d’acquisto (da +7,7% a +8,5%). L’aumento congiunturale dell’indice generale è dovuto prevalentemente ai prezzi dei Beni alimentari non lavorati (+2,0%), dei Beni semidurevoli (+1,0%), degli alimentari lavorati (+0,8%) e dei Beni durevoli (+0,6%) ed è in parte frenato dal calo dei prezzi dei Servizi relativi ai trasporti (-4,2% dovuto per lo piu’ a fattori stagionali). L’inflazione acquisita per il 2022 e’ pari a +7,1% per l’indice generale e a +3,6% per la componente di fondo.

Secondo le stime preliminari, l’indice armonizzato dei prezzi al consumo (Ipca) aumenta dell’1,7% su base mensile, anche per effetto della fine dei saldi estivi di cui il Nic non tiene conto, e del 9,5% su base annua (da +9,1% nel mese precedente). L’inflazione acquisita per il 2022 è pari a +7,1% per l’indice generale e a +3,6% per la componente di fondo.

La stangata e lo tsunami

“L’inflazione all’8,9% determina una stangata per gli italiani, considerata la totalità dei consumi di una famiglia ‘tipo’, pari a +2.734 euro, di cui 657 euro solo per la spesa alimentare, conto che sale a +3.551 euro annui per una famiglia con due figli” afferma il Codacons, commentando i dati diffusi dall’Istat. “Siamo di fronte a uno tsunami economico senza precedenti, e la crescita dei prezzi al dettaglio e’ destinata purtroppo ad aggravarsi nelle prossime settimane – spiega il presidente Carlo Rienzi – Il maxi-aumenti del 59% delle bollette elettriche che scatteranno dall’1 ottobre, e i nuovi incrementi del gas alle porte, spingeranno al rialzo l’inflazione, non potendo imprese, esercizi commerciali e attività produttive assorbire costi energetici così elevati, che saranno inevitabilmente scaricati sui listini al pubblico”.

“Il rischio è quello di un crollo verticale dei consumi delle famiglie negli ultimi mesi del 2022, con effetti a cascata sull’economia. Per tale motivo chiediamo al nuovo Governo di disporre subito il taglio dell’Iva sugli alimentari, che a settembre hanno registrato una impennata dell’11,8% con ripercussioni per +657 euro a famiglia, e sui generi di prima necessità, in modo da alleggerire la spesa delle famiglie e contenere gli effetti disastrosi dell’inflazione”, conclude Rienzi.

“Per cibo e bevande, decollati dell’11,8%, una famiglia pagherà in media 665 euro in più su base annua. Una batosta che sale a 907 euro per una coppia con 2 figli, 819 per una coppia con 1 figlio. Nel caso delle coppie con 3 figli, poi, si ha una mazzata record di 1.084 euro nei dodici mesi”.

Lo afferma l’Unione nazionale consumatori, secondo cui “un terremoto si sta abbattendo sulle famiglie, svuotando il loro conto in banca, visato che certo lo stipendio non può più bastare per arrivare a fine mese“. Secondo Massimiliano Dona, presidente dell’Unione Nazionale Consumatori, “urge un nuovo bonus per le famiglie, ma deve essere almeno il triplo rispetto ai 200 euro del Governo Draghi, così da coprire quasi tutte le maggiori spese per mangiare e bere”. “Per quanto riguarda l’inflazione nel suo complesso, il +8,9% significa, per una coppia con due figli, una stangata complessiva, in termini di aumento del costo della vita, pari a 2.956 euro su base annua, di cui 1.211 per abitazione, elettricità e combustibili, 940 per il solo carrello della spesa.

Per una coppia con 1 figlio, la spesa aggiuntiva annua è pari a 2.738 euro. In media per una famiglia il rincaro è di 2.336 euro, 691 per il solo carrello della spesa. Il primato spetta ancora una volta alle famiglie numerose con più di 3 figli con una scoppola pari a 3.321 euro, 1.116 per i beni alimentari e per la cura della casa e della persona” conclude Dona.

 Secondo Assoutenti, le famiglie italiane dovranno affrontare un vero e proprio “dramma d’autunno”, con prezzi al dettaglio in forte ascesa e bollette alle stelle. “I prezzi hanno raggiunto i livelli piu’ alti degli ultimi 40 anni, e le previsioni per i prossimi mesi sono addirittura peggiori – spiega il presidente Furio Truzzi – I listini dei generi alimentari sono letteralmente esplosi, segnando a settembre una crescita del +11,8%: questo significa che una famiglia con due figli deve mettere in conto una maggiore spesa solo per il cibo pari a +883 euro su base annua (+657 euro la famiglia “tipo”)”.

“Con questi numeri una consistente fetta di popolazione sarà spinta verso la soglia di povertà, e ci saranno ripercussioni immediate sul fronte dei consumi – prosegue Truzzi – Una emergenza nazionale che il prossimo Governo dovrà affrontare con urgenza , perché i rischi economico-sociali sono elevatissimi e non c’è più un solo giorno da perdere”.

Il caro energia – dice la Coldiretti – investe consumatori e agricoltori che sono colpiti direttamente dall’aumento delle bollette ma anche indirettamente per l’impatto sui costi di produzione. Un trend che porta gli italiani a tagliare gli acquisti di frutta e verdura dell’11% in quantita’ nel 2022 rispetto allo scorso anno, su valori minimi da inizio secolo (secondo l’analisi della Coldiretti sulla base dei dati Cso Italy/Gfk Italia), aggravando una situazione che nel primo semestre del 2022 ha visto il consumo di frutta delle famiglie attestarsi a 2,6 milioni di tonnellate in quantità.

Gli italiani – precisa la Coldiretti – hanno ridotto del 16% le quantità di zucchine acquistate, del 12% i pomodori, del 9% le patate, del 7% le carote e del 4% le insalate, mentre per la frutta si registra addirittura un calo dell’8% per gli acquisti di arance, considerate unanimemente un elisir di lunga vita. Una situazione destinata ad avere un impatto sulle famiglie più deboli che riservano una quota rilevante del proprio reddito all’alimentazione. “Occorre lavorare per accordi di filiera tra imprese agricole ed industriali con precisi obiettivi qualitativi e quantitativi e prezzi equi che non scendano mai sotto i costi di produzione come prevede la nuova legge di contrasto alle pratiche sleali e alle speculazioni” afferma il presidente della Coldiretti Ettore Prandini nel sottolineare che “bisogna intervenire subito per contenere il caro energia ed i costi di produzione con misure immediate per salvare aziende e stalle e strutturali per programmare il futuro. 


L’inflazione sfiora il 9% e costa alle famiglie italiane più di 3.000 euro

Le aziende e startup italiane che rendono il food delivery più sostenibile

AGI – Quanto incide il lavoro di distribuzione delle grandi multinazionali del delivery sulla sostenibilità complessiva, sull’ambiente e la qualità della vita complessivamente? Non ultima, quella dei rider che ci lavorano e che recentemente hanno dato vita ad un movimento di rivendicazione dei propri diritti ottenendo pronunce giuridiche favorevoli che ne tutelano i tempi e le modalità del lavoro.

Alla domanda iniziale risponde un’indagine dell’Osservatorio eCommerce B2C del Politecnico di Milano, secondo il quale il mercato del Food delivery è in forte espansione, in seguito ai due anni di pandemia e solo nel 2020 è arrivato a occupare una quota compresa tra il 20 e il 25% dell’intero mercato delle consegne a domicilio.

Ciò ha delle conseguenze dirette e immediate sul settore della logistica, che ha un’incidenza fino al 30% per esempio sul traffico urbano, specie per quanto riguarda l’ultimo miglio delle consegne. I furgoni sono ingombranti e occupano spazio pubblico non indifferente, specie nei centri storici, aumentando le criticità del traffico e quindi della viabilità urbana. Ma tutto questo ha anche una ripercussione direttamente proporzionali sulla qualità dell’aria, a causa delle emissioni degli scarichi.

Tuttavia il mercato del Food delivery, sempre secondo il Politecnico di Milano, vale sul piano complessivo 1,5 miliardi di euro e nel 2021 ha avuto un’impennata del 59%, complice appunto la pandemia che già aveva dato il suo contributo di spinta al settore. Ancora poco regolamentato, quello del delivery enogastronomico rischia però di diventare sempre più centrale nella nostra dimensione quotidiana, ciò che richiama la necessità di una maggiore sostenibilità complessiva del settore, attraverso azioni di innovazione.

Piccoli esempi di sostenibilità possibile

Nell’ottica di una maggiore efficienza, alcune piattaforme di distribuzione si sono mosse per cercare di rendere più agevole e meno impattante l’ultimo miglio, che si rivela anche il momento più costoso dell’intera consegna. Perciò c’è chi ha deciso di usare solo mezzi leggeri come bici e motorini per far arrivare nelle nostre case i prodotti che vengono ordinati dai clienti (l’azienda è la milanese Blink).

E se in Italia oggi come oggi circa il 67% ha di fatto solo potenzialmente accesso ai servizi di delivery, la bergamasca TvbEat-Almé punta a coprire le zone soprattutto provinciali dalle quali le multinazionali se ne stanno un po’ alla larga per difficoltà di copertura. Nata inizialmente nella provincia di Bergamo, TvbEat è poi cresciuta fino a coprire Lodi, Cremona, Tortona, Alessandria e più di 50 comuni più piccoli.

Insomma, c’è chi come la romana Deliverart, cerca di creare soluzioni per rendere più efficiente il servizio di asporto: aggrega tutti gli ordini che arrivano da sito web, app, telefono e piattaforme di delivery in un’unica piattaforma, automatizza il processo suggerendo l’orario migliore in base al carico di lavoro, crea il percorso più veloce per la consegna e mette a disposizione una banca dati con statistiche, storico ordini, performance dei corrieri, prodotti più venduti e clienti più affezionati, e chi per esempio nel campo delle bevande punta a cambiare il paradigma con cui vengono acquistate acqua e bevande proponendo un servizio ecologico a prezzi competitivi organizzando anche un servizio di ritiro del vuoto a rendere. Come la milanese Bevy. Insomma, l’esigenza estrema di sostenibilità, alla fine aguzza l’ingegno.  


Le aziende e startup italiane che rendono il food delivery più sostenibile

Sui conti correnti di famiglie e imprese 100 miliardi in più in solo un anno

AGI – Dopo il Covid, la guerra tra Russia e Ucraina continua a far crescere le riserve e i risparmi di famiglie e imprese italiane: da maggio 2021 a maggio 2022, il totale delle somme lasciate in banca dalla clientela privata è cresciuto di oltre 105 miliardi di euro. Il saldo totale dei conti correnti e dei depositi ammonta a 2.101 miliardi di euro in aumento di oltre il 5% rispetto ai 1.995 miliardi di un anno fa.

Le riserve delle famiglie sono cresciute dei oltre 48 miliardi arrivando a 1.178,8 miliardi complessivi (+4%), mentre quelle delle aziende sono salite di quasi 29 miliardi fino a quota 416 miliardi (+7%). Sono questi i dati principali di un’analisi del Centro studi di Unimpresa, secondo la quale sui conti correnti ci sono quasi 100 miliardi in più. Il saldo complessivo è pari a 1.481 miliardi, in crescita dal 7% rispetto ai 1.384 miliardi di maggio 2021: su questa cifra pesano i rischi legati alla crescita costante dell’inflazione che riduce sensibilmente il potere d’acquisto dei risparmi infruttiferi.

“Per far ripartire i consumi delle famiglie e gli investimenti delle imprese servirebbe fiducia, ma le tensioni nella maggioranza e l’ormai conclamata crisi di governo rappresentano un freno clamoroso per la ripresa e, allo stesso, favoriscono gli atteggiamenti conservativi. Ci stiamo avvitando in una spirale negativa e la prospettiva della recessione nel 2022, purtroppo, è sempre più realistica. Il decreto annunciato dal governo per la fine di luglio deve rappresentare una risposta concreta ai bisogni del Paese”, commenta il presidente onorario di Unimpresa, Paolo Longobardi.

Secondo l’analisi di Unimpresa, che ha elaborato dati della Banca d’Italia, da maggio 2021 a maggio 2022 il totale delle riserve delle famiglie e delle aziende italiane è passato da 1.995,9 miliardi a 2.101,1 miliardi, in aumento di 105,1 miliardi (+5,27%) su base annua.

Nel dettaglio, sono cresciuti di 45,5 miliardi (+4,29%) da 1.130,3 miliardi a 1.170,8 miliardi i risparmi delle famiglie, mentre quelli delle aziende sono saliti di 28,9 miliardi (+7,47%), da 387,1 a 416,1 miliardi, i depositi delle imprese familiari sono aumentati di 8,8 miliardi (+11,33 %), da 78,1 a 86,9 miliardi. Su di 2,3 miliardi (+11,33%) i salvadanai delle onlus, saliti dai 32,9 miliardi della primavera 2021 ai 35,2 miliardi di maggio 2022, mentre sono aumentati di 41 milioni (+0,19%) i depositi degli enti di previdenza (da 21,42 miliardi a 21,46 miliardi).

La liquidità dei fondi d’investimento è salita di 16,8 miliardi (+5,24%), da 321,1 miliardi a 338,1 miliardi. L’incremento complessivo sarebbe stato ancora piu’ marcato se non fossero calate le riserve di due comparti: nel dettaglio, risultano in calo di 331 milioni (-1,48%) i depositi delle assicurazioni (da 16,4 miliardi a 16,1 miliardi) e di 43 milioni (-0,63%) quelli dei fondi pensione (da 8,38 miliardi a 8,32 miliardi).

Quanto all’analisi per strumento, la crescita delle riserve si deve per la quasi totalità ai 96,8 miliardi aggiuntivi (+7,00%) lasciati sui conti correnti, passati dai 1.384,4 miliardi di maggio 2021 ai 1.481,2 miliardi di maggio scorso.

L’altro strumento col saldo attivo è quello dei depositi rimborsabili, saliti di 1,8 miliardi (+0,59%) da 317,1 miliardi a 318,9 miliardi. In calo, invece, i depositi vincolati, scesi di 18,8 miliardi (-9,54%) da 197,3 miliardi a 178,5 miliardi: nel dettaglio, quelli con scadenza fino a 2 anni sono diminuiti di 9,9 miliardi (-24,30%) passati da 40,9 miliardi a 30,9 miliardi, mentre quelli con scadenza oltre due anni sono calati di 8,8 miliardi (-5,68%) da 156,4 miliardi a 147,5 miliardi.

In fortissimo incremento, invece, l’esposizione verso i pronti contro termine, salita complessivamente di 25,2 miliardi (+25,98%) da 97,1 miliardi a 122,3 miliardi. “I comportamenti delle famiglie e delle imprese, fotografabili dall’analisi per strumento, mettono in evidenza un atteggiamento orientato soprattutto alla massima prudenza. Se i cittadini proseguono nel frenare la spesa, le aziende continuano a congelare qualsiasi investimento di breve e medio periodo. Non solo: le scelte fatte dalle aziende e dalle famiglie portano alla luce, inoltre, la volonta’ di accumulare denaro con forme di deposito particolarmente liquido e, contestualmente, evidenziano la sensibile riduzione dei servizi bancari con vincoli di durata (per esempio, i depositi fino a 2 anni o oltre)”, osservano gli analisti del Centro studi di Unimpresa.


Sui conti correnti di famiglie e imprese 100 miliardi in più in solo un anno

Il colosso cinese che vende più auto elettriche di Tesla

AGI – BYD, il colosso automobilistico cinese che è in parte di proprietà della Berkshire Hathaway di Warren Buffett, ha superato Tesla diventando il più grande produttore di veicoli elettrici al mondo per vendite, segnalando il crescente dominio della Cina sul settore. Secondo quanto riporta il Financial Times, il brand automobilistico, con sede a Shenzhen, ha venduto 641.000 veicoli nei primi sei mesi dell’anno, con un balzo di oltre il 300% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, a fronte dei 564.000 veicoli venduti da Tesla.

L’azienda guidata da Elon Musk ha invece lamentato un secondo trimestre difficile alle interruzioni della catena di approvvigionamento e delle vendite in Cina, causate a sua volta dai lockdown per il Covid-19. L’ascesa di BYD, ricorda FT, “sottolinea il rafforzamento della posizione della Cina nel settore delle energie rinnovabili, che può basarsi su vantaggi di scala e di costo in gran parte della catena di fornitura di veicoli elettrici, batterie, energia eolica e solare”.

Non solo, ma BYD ha anche superato la sudcoreana LG come secondo produttore mondiale di batterie per veicoli elettrici, dietro alla cinese Contemporary Amperex Technology, nota come CATL. Secondo gli analisti, ciò è avvenuto in parte a causa delle interruzioni nello stabilimento Tesla di Shanghai, dopo che la città più popolosa della Cina è stata costretta a un lockdown di due mesi.

Tesla, insieme a una serie di produttori cinesi di veicoli elettrici, tra cui Li Auto, Xpeng e Nio, sono stati colpiti più duramente di BYD, che ne ha beneficiato perché la maggior parte delle sue fabbriche non ha sede nelle regioni e nelle città che hanno subito le restrizioni più severe. Gli analisti considerano l’ascesa dell’industria automobilistica nazionale cinese come un precursore di un cambiamento nel mercato automobilistico globale, in quanto i produttori del paese del Dragone di auto elettriche iniziano a concentrarsi sui mercati di esportazione.

Lo dimostra il fatto che l’anno scorso la Cina, il più grande mercato automobilistico del mondo, ha esportato più di mezzo milione di veicoli elettrici, piu’ del doppio rispetto all’anno precedente. Tuttavia, ricorda il FT riportando il parere dei ricercatori del Mercator Institute for China Studies, un think tank con sede a Berlino, circa un terzo delle esportazioni cinesi in Europa era costituito da marchi europei di proprietà cinese, come Volvo e MG Motor, mentre solo il 2% rappresentava marchi cinesi. Quasi la metà proveniva da Tesla e il restante 14% da joint-venture europee in Cina.  


Il colosso cinese che vende più auto elettriche di Tesla

Nell’edilizia è diventato più conveniente fermare i cantieri che tenerli aperti

AGI – “Non è chiaro ancora a tutti, ma molto presto ogni cittadino se ne renderà conto: con i prezzi dei materiali fuori controllo, per le imprese edili è diventato più vantaggioso fermare i cantieri avviati piuttosto che proseguirli“. Lo ha detto il presidente di Ance Fermo, Massimiliano Celi, parlando dell’aumento incontrollato dei prezzi delle materie prime e dei contratti “blindati da prezzari di riferimento di per sé già bassi”.

Per spiegare l’impatto, il presidente degli edili fa alcuni esempi: “Il legno, arrivando dal nord Europa, subisce il rincaro dei trasporti. Normalmente il tavolame per i ponteggi costa 280 euro al metro cubo, ora è passato a 500 euro. Il costo del ferro è passato da circa 1.05 al chilo dal fornitore a 1,60. Sembra poco, ma il ferro non si compra a chili, quindi l’aumento è grande”.

E poi il cemento, “su cui impattano il costo del gas dovuto al conflitto in Ucraina e la speculazione finanziaria”, e il calcestruzzo, “che dal primo maggio aumenterà di 15 euro al metro cubo”. L’Ance ha chiesto un incontro al commissario straordinario per la ricostruzione post sisma, Giovanni Legnini: “Ha parlato di un aumento massimo del 15% rispetto al prezzario cratere 2018, ma noi avevamo chiesto il 25%, altrimenti è impossibile coprire i costi”.

Celi ha evidenziato un ulteriore problema: “Non ha senso un prezzario unico per quattro regioni. Se in Abruzzo la manodopera ha un costo minore, chiaro che gli aumenti impattano meno. Aggiungiamoci pure gli sgravi fiscali ed ecco che le Marche sono doppiamente penalizzate”. “È preferibile non lavorare e attendere a tempo indeterminato che i prezzi delle materie prime diminuiscano tornando ai livelli di fine 2020“, ribadisce il presidente di Ance Fermo.


Nell’edilizia è diventato più conveniente fermare i cantieri che tenerli aperti

Le Pmi pagano di più elettricità e gas rispetto alle grandi aziende. L’analisi della Cgia 

AGI – “Il caro energia sta colpendo indistintamente tutte le nostre imprese, anche se le piccole, ben prima degli aumenti boom registrati negli ultimi mesi, subiscono un trattamento di ‘sfavore’ rispetto alle grandi realtà produttive”. Questa è la posizione presa dalla Cgia di Mestre.

Secondo gli ultimi dati Eurostat relativi al primo semestre 2021, infatti, le piccole aziende pagano l’energia elettrica il 75,6% e il gas addirittura il 133,5% in più delle grandi. “Questo differenziale, a scapito dei piccoli, colpisce anche le realtà di pari dimensioni presenti nel resto d’Europa, sebbene negli altri Paesi questo gap sia più contenuto del nostro”.

“Se ancora ce ne fosse bisogno, questa è un’ulteriore dimostrazione che il nostro Paese non è a misura di piccole imprese. Sebbene queste ultime costituiscono oltre il 99% delle aziende presenti in Italia, diano lavoro ad oltre il 60 per cento degli addetti del settore privato e siano la componente caratterizzante il made in Italy nel mondo, continuano ad essere ingiustificatamente discriminate”, spiega l’analisi della Cgia.

Ormai si lavora di notte

In questa prima settimana di rientro dopo le vacanze natalizie, ad esempio, molte di queste realtà hanno deciso di introdurre o di potenziare il turno di notte per abbattere i costi energetici. Pertanto, tra assenze legate al Covid e la necessità di rimodulare il ciclo produttivo per tagliare il costo delle bollette, non sono poche le attività che hanno organici ridotti all’osso e grosse difficoltà a garantire processi produttivi efficienti.

Le misure introdotte dal governo 

Per abbattere i costi delle bollette di luce e gas il Governo Draghi a messo a punto una serie di interventi che sono entrati in vigore nella seconda parte del 2021, per un importo complessivo pari a 8,5 miliardi di euro. I principali sono:

  1. La conferma dell’azzeramento degli oneri generali di sistema applicato alle utenze elettriche domestiche e alle utenze non domestiche in bassa tensione, per altri usi, con potenza disponibile fino a 16,5 kW e la sostanziale riduzione degli oneri per le restanti utenze elettriche non domestiche;
  2. Per tutte le utenze la riduzione dell’Iva al 5% del il gas naturale;
  3. L’annullamento, già previsto nel quarto trimestre 2021, degli oneri di sistema per il gas naturale, per tutte le utenze, domestiche e non domestiche;
  4. Il potenziamento del bonus applicato ai clienti domestici del settore elettrico e del gas naturale in condizione economicamente svantaggiata ed ai clienti domestici in gravi condizioni di salute.

I piccoli sono più penalizzati

In merito alle tariffe dell’energia elettrica, ad aver aumentato lo storico differenziale tra piccole e grandi imprese ha contribuito l’entrata in vigore, dal primo gennaio 2018, della riforma degli energivori. L’effetto prodotto da questa novità legislativa, che prevede un costo agevolato dell’energia elettrica per le grandi industrie, di fatto ha azzerato a queste ultime la voce ‘Oneri e Imposte’, ridistribuendola a carico di tutte le altre categorie di imprese escluse dalle agevolazioni, spiega la Cgia. 

È altresì vero che a seguito delle misure messe in campo dal Governo Draghi nella seconda parte del 2021, questo gap si è leggermente ridotto. Per quanto concerne il gas, invece, il divario tariffario è riconducibile al fatto che tutte le grandi imprese ricevono dai fornitori delle offerte personalizzate con un prezzo stabilito su misura e sulla base delle proprie necessità.

Pertanto, in sede di trattativa, il peso dei consumi è determinante per ‘strapparè al fornitore una tariffa molto vantaggiosa. Possibilità che, ovviamente, alle piccole imprese è preclusa. Va altresì ricordato che nel mercato libero le offerte di prezzo possono interessare solo la componente energia; le altre voci di spesa – come le spese di trasporto, gli oneri di sistema, la gestione del contatore etc. – sono stabilite periodicamente dall’Autorità per l’Energia e sono uguali per tutti i fornitori.

Anche in Europa le Pmi pagano di più

Concentrando l’attenzione solo sulle piccole imprese, dal confronto con le realtà produttive europee di pari dimensione emerge che in Italia i costi energetici sono tra i più elevati. Tra tutti i paesi dell’Area euro, infatti, solo rispetto alla Germania le nostre imprese pagano meno (del 12,6%).

Rispetto alla media europea, invece, i nostri piccoli imprenditori pagano mediamente il 15% in più. Quando si analizza il costo del gas, invece, tra i Paesi dell’Area euro le Pmi italiane sono al terzo posto (dopo Finlandia e Portogallo) per la tariffa più elevata. Se, come riportato più sopra, quella mediamente applicata nel nostro Paese per ogni MWh (Iva esclusa) consumati è pari a 53,7 euro, registriamo una variazione di prezzo rispetto alla media dei paesi che utilizzano la moneta unica del +7,6%.

L’incidenza delle imposte è al top

Assieme all’andamento del costo della materia prima, in Italia la componente fiscale è l’altra voce che contribuisce in maniera determinante ad innalzare il costo delle tariffe. Sempre nel primo semestre 2021, per la bolletta elettrica, ad esempio, in riferimento alle piccole imprese il 40,7% del costo totale è riconducibile a tasse e oneri: la media dell’Area euro, invece, è del 35,7%.

Per quella del gas, invece, se in Italia l’incidenza percentuale della tassazione sul costo totale a carico delle piccole aziende è del 27%, nell’Area euro si attesta attorno al 25%. “Come segnalavamo più sopra, va comunque ricordato che a seguito delle misure messe in campo dal Governo Draghi, l’incidenza del peso del fisco sul costo complessivo delle tariffe energetiche è leggermente diminuito”, conclude la Cgia.  


Le Pmi pagano di più elettricità e gas rispetto alle grandi aziende. L’analisi della Cgia 

Le grandi città sono quelle che soffrono di più per l’assenza di turisti per Covid

AGI – Nel 2021 le grandi città e i comuni a vocazione montana sono quelli che registrano le maggior perdite a livello di presenze turistiche. Lo rileva l’Istat in un report sul movimento turistico in Italia nei primo nove mesi dello scorso anno. La categoria “grandi città” (composta dai 12 comuni italiani con più di 250mila abitanti), che nell’anno precedente la pandemia aveva registrato circa un quinto delle presenze dell’intero territorio nazionale, subisce la maggiore riduzione della domanda rispetto allo stesso periodo del 2019 (-71% contro -38,4% della media nazionale) ma recupera leggermente nel confronto con il 2020 (+3,0% le presenze).

Le difficoltà delle grandi città si confermano anche in estate, quando registrano una flessione delle presenze dei clienti residenti pari a circa -18% rispetto allo stesso trimestre del 2019.

Tra i territori più colpiti vi sono poi i comuni con un turismo a vocazione prevalentemente montana (-42,1%), a causa, come già evidenziato, della mancata stagione invernale. Questi stessi comuni avevano mostrato nel 2020 una maggiore capacità di tenuta. 

Rispetto allo stesso periodo del 2019, cali meno intensi sono stati registrati dai comuni a vocazione lacuale (-21,8%) e dai comuni a vocazione marittima (-25,0%) che recuperano ampiamente nel confronto con i primi nove mesi del 2020 (rispettivamente +80,8% e +36,3%). I comuni a vocazione culturale, storica, artistica e paesaggistica registrano invece una flessione pari al 35% rispetto allo stesso periodo del 2019 e un recupero del 33,2% sul 2020.

Focalizzando l’attenzione sui clienti residenti nel periodo estivo (la componente più rilevante nell’estate 2021), emerge la loro preferenza per i comuni a vocazione culturale, storica, artistica e paesaggistica (+26,5% ad agosto 2021 su agosto 2019), verso i comuni montani, che nel trimestre estivo registrano un recupero rispetto all’inesistente stagione invernale e vedono un aumento sia ad agosto (+6,5%) sia a settembre (+23,7%) e verso le località del turismo lacuale (+17,5% ad agosto e +37,8% a settembre rispetto agli stessi mesi del 2019).

Come nel 2020, anche nell’estate del 2021 la scelta degli italiani si è orientata verso destinazioni presumibilmente meno affollate, a discapito delle destinazioni estive più tradizionali come le località balneari. I comuni a vocazione marittima chiudono infatti il trimestre estivo con un -5,6% rispetto allo stesso trimestre del 2019.


Le grandi città sono quelle che soffrono di più per l’assenza di turisti per Covid