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Come funziona la Blockchain: la tecnologia che rivoluziona il futuro

La Blockchain è una delle tecnologie più innovative degli ultimi anni, in grado di rivoluzionare diversi settori, dall’industria finanziaria alle applicazioni in campo medico e scientifico. Ma cos’è esattamente la Blockchain e come funziona?

Cos’è esattamente la Blockchain e come funziona?

La Blockchain è una tecnologia di registro distribuito che consente la memorizzazione e la condivisione sicura di informazioni tra più parti senza la necessità di un intermediario centrale. La Blockchain si basa sulla decentralizzazione, cioè sulla presenza di numerosi nodi (computer) che mantengono una copia identica della catena di blocchi (Blockchain) e che collaborano per validare le transazioni e garantire la sicurezza del sistema.

Ogni blocco della catena contiene informazioni su una o più transazioni, insieme a un hash (una stringa di caratteri univoca) che identifica il blocco stesso. Questo hash viene utilizzato come una sorta di “firma digitale” per garantire l’immutabilità del blocco: una volta che un blocco viene aggiunto alla catena, non può essere modificato o cancellato.

La validazione delle transazioni avviene attraverso un processo di mining, che consiste nel risolvere un complesso problema matematico per creare un nuovo blocco e confermare le transazioni in esso contenute. Questo processo richiede l’utilizzo di risorse informatiche considerevoli, ma garantisce la sicurezza e l’integrità della catena di blocchi.

Quali sono le principali applicazioni della Blockchain al di fuori delle criptovalute?

Pur essendo nata come tecnologia alla base delle criptovalute, la Blockchain sta trovando sempre più applicazioni anche in altri settori. Ad esempio, la Blockchain può essere utilizzata per la gestione sicura e trasparente delle informazioni mediche, per la tracciabilità delle materie prime e dei prodotti alimentari, per la gestione degli archivi pubblici e delle identità digitali.

Inoltre, la Blockchain può essere utilizzata per la creazione di smart contract, cioè di contratti digitali che si eseguono automaticamente sulla base di determinate condizioni. Gli smart contract possono essere utilizzati in numerosi settori, dalla gestione dei diritti d’autore alla gestione delle transazioni finanziarie.

Quali sono le differenze tra una Blockchain pubblica e una privata?

Esistono due tipi principali di Blockchain: quella pubblica e quella privata.

La Blockchain pubblica, come quella alla base delle criptovalute, è aperta a tutti e non prevede alcun tipo di controllo centrale. Chiunque può diventare un nodo della rete e partecipare alla validazione delle transazioni. La Blockchain pubblica garantisce la massima decentralizzazione e trasparenza, ma può essere meno efficiente e scalabile rispetto a quella privata.

La Blockchain privata, invece, è gestita da un gruppo ristretto di nodi (ad esempio, da un’azienda o da un consorzio di aziende) e prevede un controllo centrale sulla validazione delle transazioni. La Blockchain privata garantisce maggiore efficienza e scalabilità, ma riduce la trasparenza e la decentralizzazione.

Quali sono i vantaggi della Blockchain rispetto alle tecnologie di registro tradizionali?

La Blockchain offre numerosi vantaggi rispetto alle tecnologie di registro tradizionali. In primo luogo, la Blockchain garantisce un alto livello di sicurezza, grazie alla criptografia dei dati e alla validazione distribuita delle transazioni.

Inoltre, la Blockchain offre una maggiore trasparenza e tracciabilità, grazie alla registrazione di tutte le transazioni in una catena di blocchi immutabile e condivisa tra tutti i nodi.

Infine, la Blockchain offre la possibilità di eliminare gli intermediari e ridurre i costi di transazione, grazie alla creazione di smart contract che eseguono automaticamente le operazioni previste dai contratti.

Come si garantisce la sicurezza dei dati in una Blockchain?

La sicurezza dei dati in una Blockchain viene garantita attraverso l’utilizzo di algoritmi di criptografia avanzati e la validazione distribuita delle transazioni. In una Blockchain pubblica, la sicurezza viene garantita dalla presenza di un elevato numero di nodi indipendenti che collaborano per validare le transazioni e garantire l’integrità della catena di blocchi.

Inoltre, ogni blocco della catena viene criptato con un hash univoco che funge da “firma digitale” e garantisce l’immutabilità dei dati. Qualsiasi tentativo di modificare un blocco già registrato nella catena verrebbe rilevato e annullato dalle operazioni di validazione distribuita dei nodi.

Quali sono le possibili applicazioni della Blockchain nel settore finanziario?

La Blockchain offre numerose possibilità di applicazione nel settore finanziario, grazie alla creazione di criptovalute, smart contract e tecnologie di pagamento digitali sicure e efficienti. La Blockchain può essere utilizzata per la creazione di monete digitali, per la gestione dei titoli azionari, per la tracciabilità dei pagamenti e per la creazione di sistemi di identificazione e autenticazione sicuri.

Inoltre, la Blockchain può essere utilizzata per eliminare gli intermediari e ridurre i costi di transazione, favorendo la creazione di nuovi modelli di business e la riduzione delle disuguaglianze.

Quali sono i limiti attuali della tecnologia Blockchain?

Nonostante le numerose potenzialità della Blockchain, esistono ancora alcuni limiti tecnologici e pratici che ne ostacolano la diffusione su larga scala. Uno dei principali limiti della Blockchain è la sua scalabilità: il processo di validazione distribuita delle transazioni richiede un notevole consumo di energia e risorse informatiche, rendendo difficile l’adozione su larga scala della tecnologia.

Inoltre, la Blockchain presenta ancora alcune limitazioni in termini di velocità di transazione e di compatibilità con le infrastrutture esistenti, che ne limitano l’utilizzo in alcuni settori.

Quali sono le implicazioni etiche della Blockchain, ad esempio per la privacy e la sicurezza dei dati personali?

La Blockchain presenta alcune implicazioni etiche importanti, in particolare per quanto riguarda la privacy e la sicurezza dei dati personali. La registrazione pubblica e immutabile delle transazioni potrebbe rappresentare una minaccia per la privacy, soprattutto se si considera che alcune informazioni sensibili potrebbero essere registrate in forma criptata ma comunque accessibile.

Tuttavia, la Blockchain offre anche la possibilità di creare sistemi di autenticazione e di identificazione sicuri e trasparenti, che potrebbero contribuire a ridurre la diffusione di frodi e di pratiche illegali.

Quali sono le possibili conseguenze della diffusione della Blockchain sull’economia globale?

La diffusione della Blockchain potrebbe avere un impatto significativo sull’economia globale, favorendo l’eliminazione di intermediari e la riduzione dei costi di transazione. Inoltre, la creazione di nuovi modelli di business basati sulla Blockchain potrebbe favorire l’innovazione e la creazione di posti di lavoro.

Tuttavia, la diffusione della Blockchain potrebbe anche comportare la scomparsa di alcune professioni e l’emergere di nuove disuguaglianze economiche, oltre a rappresentare una sfida per i sistemi regolatori e di governance esistenti.

Quali sono i progetti più interessanti basati sulla tecnologia Blockchain che stanno emergendo in questo momento?

Attualmente, esistono numerose startup e progetti che stanno sperimentando nuove applicazioni della Blockchain in diversi settori. Ad esempio, esistono progetti che utilizzano la Blockchain per la gestione delle informazioni mediche, per la tracciabilità delle materie prime e dei prodotti alimentari, per la creazione di identità digitali sicure e per la gestione delle transazioni immobiliari.

Inoltre, esistono anche progetti che utilizzano la Blockchain per la creazione di piattaforme di crowdfunding, per la gestione dei diritti d’autore e per la creazione di mercati decentralizzati.

Conclusioni

La Blockchain rappresenta una delle tecnologie più innovative e promettenti degli ultimi anni, in grado di rivoluzionare diversi settori e di favorire l’eliminazione degli intermediari e la riduzione dei costi di transazione. Tuttavia, la diffusione su larga scala della tecnologia richiederà ancora numerosi progressi tecnologici e regolamentari, oltre a una maggiore consapevolezza delle possibili implicazioni etiche e sociali della tecnologia.

Nonostante ciò, la Blockchain rappresenta un’opportunità unica per la creazione di un futuro più sicuro, trasparente e decentralizzato, in cui la fiducia tra le parti può essere garantita senza la necessità di intermediari centrali.



Come funziona la Blockchain: la tecnologia che rivoluziona il futuro

Uber decolla a New York per vedere dall’alto il futuro dei taxi volanti

Non sono ancora i taxi volanti, ma per la prima volta Uber si stacca da terra. Il 9 luglio ha inaugurato Uber Copter, il servizio che collega Manhattan con l’aeroporto JFK: otto minuti di volo per coprire circa 25 chilometri con un elicottero, prenotato con l’app.

Un servizio “fedeltà”

Il trasporto urbano via cielo non è ancora arrivato a New York. L’elicottero collega solo due punti prestabiliti, attraverso due punti di decollo e atterraggio tradizionali. Tradizionale è anche il mezzo, un elicottero che non ha nulla a che vedere con i velivoli candidati a diventare i taxi del cielo. Quello che Uber Copter fa è appiccicare il proprio marchio sui servizi offerti da una compagnia di voli charter, Heliflite. Che così viene inclusa nell’applicazione accanto alle automobili.

Non tutti gli utenti di Uber, però, possono viaggiare sugli elicotteri. È concesso solo a quelli di “rango” più elevato, cioè quelli che si sono conquistati un profilo “Platinum” e “Diamond”. Come? Lo scorso novembre, la compagnia ha lanciato Uber Rewards: funziona più o meno come una raccolta punti. Solo che anziché regalare pirofile ai clienti, offre incentivi e buoni. Si accumulano punti ogni volta che si usano i servizi di Uber. Uno per ogni dollaro speso in quelli più popolari (le consegne a domicilio di Eats e i viaggi in condivisine di Pool), due per le corse in auto (UberX, UberXL o Select), tre se si scelgono le vetture di pregio (Black e Black Suv). Prima di poter salire sull’elicottero, servono almeno 2500 punti. Non pochi. Vuol dire aver speso, ad esempio, mille dollari su vetture base e 500 dollari in cibo a domicilio.  

Meglio esplorare che incassare

Le tariffe sono di 200-250 dollari a persona. In fondo non molto se si considera che un viaggio in taxi (che dura più di un’ora) costa circa 70 dollari e uno sulle vetture Uber va dai 70 ai 110 dollari. I biglietti non hanno certo prezzi popolari, ma – assieme al meccanismo di selezione all’entrata che passa da Rewards – svelano quale sia l’intenzione di Uber: guadagnare, adesso, non è importante; quello che conta è sollevarsi da terra e guardare New York dall’alto, in attesa che arrivino i taxi volanti.

I test cittadini inizieranno nel 2020 (a Los Angeles, Dallas e Melbourne) e dovranno incasellarsi in un quadro di regole tutto nuovo. Quello degli elicotteri non lo è: ci sono già alcune società che offrono voli charter a Manhattan, come Blade (non a caso conosciuta come “la Uber degli elicotteri”). Fa la stessa cosa di Copter, a prezzi simili: permette agli utenti di cercare e prenotare un posto a bordo, appoggiandosi (come fa Uber con Heliglite) ad altre società.

Ha fatto parlare di sé a maggio, quando un velivolo di un suo partner, Zip Aviation, si è schiantato nell’Hudson. Blade si è affrettato a dire che, in quel momento, l’elicottero non era impiegato in una corsa della compagnia. A bordo c’era solo il pilota, che si è salvato senza riportare ferite gravi. A giugno, però, dopo un altro incidente (questa volta fatale) di un elicottero dell’American Continental Properties, il sindaco di New York Bill de Blasio ha posto il problema del traffico aereo nella città.  

Il futuro in tre dimensioni

L’avvertimento di de Blasio non ha fermato Uber. Né i suoi futuri concorrenti. A giugno Voom, società di proprietà di Airbus con un servizio simile a Copter, ha rivelato che inizierà a operare negli Stati Uniti dal prossimo autunno. Fino a ora ha volato solo in America Latina. Non sono ancora note le città su cui atterrerà, ma Voom sembra agguerrita. Ha spiegato a Fast Company che i prezzi saranno “competitivi con le alternative via terra” e che il programma prevede di toccare 25 città in tutto il mondo entro il 2025.

Nel frattempo, Uber dovrebbe aver già lanciato Air, cioè i suoi taxi volanti veri e propri: elettrici e a decollo verticale, collegheranno diversi punti della città. La compagnia prevede di fornire questo servizio “a prezzi accessibili entro il 2023”. Servirà scegliere e testare i velivoli, costruire stazioni e mediare sulle regole. La strada però è tracciata: il ceo di Uber Dara Khosrowshahi ha più volte ripetuto che entro dieci anni le auto costituiranno meno del 50% del business.

Merito di bici e monopattini elettrici, dei servizi di logistica e (appunto) dei taxi volanti. Perché, come ha detto Khosrowshahi durante la conferenza parigina Viva Tech del 2018, “il trasporto del futuro sarà elettrico, condiviso e tridimensionale”. Avanti, indietro, in alto.  

Agi

La sanità vale il triplo degli smartphone e potrebbe essere il futuro di Apple

Il ceo Tim Cook lo ha detto: “Il più grande contributo che Apple può dare all’umanità riguarda la salute”. Non parlava solo di soldi, ma pare ormai chiaro che nuovi servizi sanitari farebbero bene non solo agli utenti ma anche alle casse della Mela.

Un’analisi di Morgan Stanley, diffusa da Bloomberg, ipotizza che Apple trarrà da servizi e prodotti legati alla salute un fatturato tra i 15 e i 313 miliardi di dollari entro il 2027. L’escursione è massiccia e racconta quanto il mercato sia giovane e quanto dipenda da Cupertino decidere di cogliere o meno le opportunità che propone. Un’altra analisi, firmata da Loop Ventures lo scorso marzo, parlava già di “roadmap” di Apple verso la sanità.

In un momento complicato per i dispositivi mobili, spiega Morgan Stanley, “l’assistenza sanitaria ha un mercato potenziale tre volte più grande rispetto a quello globale degli smartphone”. Un mercato che, in più, ha una serie di vantaggi rispetto a quello degli smartphone. Primo: non teme saturazione e, anzi, in una popolazione sempre più anziana, tenderà a crescere. Secondo: come altri servizi, non ha forti oscillazioni stagionali (la cura della salute non arriva solo a Natale). Terzo: Apple è in una posizione di vantaggio rispetto ad altre società tecnologiche, soprattutto grazie ai suoi dispositivi indossabili.

Il ruolo di Apple Watch e AirPods

Oggi il segmento wearable rappresenta il 5% del fatturato di Apple. Loop Ventures stima che arriverà all’8% entro cinque anni. Gli Apple Watch venduti dal loro esordio, nel 2015, sarebbero circa 67 milioni, per l’85% ancora in uso. Probabilmente l’orologio non arriverà mai alla diffusione dell’iPhone (900 milioni di unità attualmente attive), ma basterebbe un progresso più contenuto per avere un impatto notevole. Loop Ventures stima che le unità in circolazione potrebbero quadruplicarsi. E questo farebbe bene alle casse, con 35 miliardi di vendite annuali.

In gioco però non c’è solo la vendita diretta, ma molto di più. I dispositivi indossabili, muniti di sensori sempre più sofisticati, costituirebbero la piattaforma con cui distribuire i propri servizi sanitari. Oggi l’Apple Watch ha già un elettrocardiografo integrato. Morgan Stanley suggerisce infatti di sviluppare sistemi in grado di rilevare, anche con gli AirPods, pressione sanguigna, livello di glucosio, monitoraggio del sonno. Le due analisi concordano quindi sul ruolo centrale di Apple Watch e AirPods, leader nei mercati degli orologi tecnologici e degli auricolari senza fili. Sono le sentinelle dei servizi finanziari che verranno.

Primi mattoni di un nuovo ecosistema

Per Morgan Stanley, Cupertino ha già piazzato i “primi mattoni” di un “nuovo ecosistema”. E vista la sua posizione attuale, potrebbe fare con la sanità quello che ha fatto con iTunes nel settore musicale o con l’App Store nei servizi mobile. La domanda, a questo punto, è: come trasformare le potenzialità in fatturato? Una parte, che con il tempo dovrebbe diventare sempre più marginale, arriverà dalle vendite dei dispositivi. Il resto da una gamma di servizi, tra i quali un abbonamento pagato dagli utenti o, più probabilmente, da medici, cliniche e compagnie assicurative. Secondo Loop Venture, potrebbe cosare circa 10 dollari al mese, che Apple riceve per aggregare, monitorare e studiare i dati raccolti da Watch e AirPods.

Con i nuovi servizi, sottolinea Morgan Stanley, i dispositivi potrebbero non solo essere venduti direttamente, ma diventare un accessorio coperto dai professionisti della salute. Già oggi, ad esempio, alcune compagnie scontano le polizze e regalano uno smartwatch se i clienti accettano di indossarlo. Il loro ragionamento è questo: conosco i tuoi dati e capisco prima i fattori di rischio. Tu vivi più a lungo, io personalizzo la tua polizza e sborso meno.

Certo, ci sono problemi di privacy fondamentali. Ma avere un dispositivo che monitori gli utenti, consenta di dialogare a distanza con i medici e favorisca interventi tempestivi potrebbe ridurrebbe le spese sanitarie, visto che la cura costa più della prevenzione. Il settore è così ghiotto che Morgan Stanley prevede che Apple possa presto acquisire una società specializzate nel settore sanitario.

Agi

Il futuro dell’auto elettrica

Dopo l'approfondimento sugli uragani, e quelli dedicati alla bomba atomica e al fondo sovrano norvegese, un nuovo long form di AGI su stato e prospettive dell'auto elettrica. L'obiettivo non cambia: in questa serie di articoli cerchiamo di fare chiarezza, in modo semplice e il più esaustivo possibile, sui grandi temi di attualità. Come metodologia di lavoro abbiamo scelto di mettere in campo le competenze che stiamo sperimentando ormai da un anno nei campi del data journalism e del fact-checking. Quello che vi apprestate a leggere è dunque un approfondimento condotto in pool dai nostri giornalisti con i colleghi di Formica Blu (Elisabetta Tola e Marco Boscolo) e di Pagella Politica (Giovanni Zagni e Tommaso Canetta). L'articolo può essere letto dall'inizio alla fine, oppure, andando direttamente alle sezioni di interesse, cliccando sui titoli del sommario che trovate qui sotto. Contenuto realizzato in collaborazione con Eni.

1) Da Mr. Parker al 2040

Silenziosa, più sicura, poco (o sicuramente meno) inquinante, l’auto elettrica si imporrà veramente, come molti studiosi sostengono e come auspicano in tanti, quale vettura del prossimo futuro? E’ una idea che nasce, in realtà, nel lontano passato degli albori dell’automobile, perché la paternità della prima auto elettrica risale all’inventore vittoriano Thomas Parker, che ne varò un rudimentale prototipo nel 1884, anche se un modello a batterie risulta presentato già a Parigi dal francese Gaston Trouvé nel 1881.

Parker sul prototipo di auto elettrica

E fu agli albori dell’auto, fra Otto e Novecento, che i veicoli elettrici riscossero un successo che solo adesso, specialmente per gli anni a venire, risulta realizzabile. Perché all'epoca furono soppiantati molto presto dai veicoli a combustibile, le cui prestazioni risultavano decisamente maggiori e su cui si concentrarono gli investimenti della nascente industria.

Il sogno di cavalcare l'elettricità

Un problema fu quello che è stato, ed è tuttora studiato, perché non sia più ostativo o quantomeno scoraggiante. Oggi e in futuro: costo e prestazione delle batterie nonché l'accessibilità a una ricarica quanto più possibile efficiente. Ma ci sono numeri in rapido progresso, destinati a essere più favorevoli quanto più crescerà la produzione dei veicoli e la loro diffusione. L’autonomia media di un’auto elettrica era stimata a 150 chilometri nel 2016, ma se ne è già annunciato il raddoppio per alcuni modelli Renault, Opel e Golf, ed è quantificata fra 450 e 600 chilometri per il 2020. La californiana Tesla Motors già offre, con il (costoso) Model S, un’autonomia che può superare i 600 chilometri per la versione top.

Tesla Model S

E' sicura una cosa: il litio, elemento essenziale per la costruzione delle batterie, non scarseggerà anche qualora il mercato dell’auto elettrica si dovesse ampiamente sviluppare. Sulla Terra ve ne sono risorse utilizzabili in quantità tale – il dato è  dell’Us Geological Survey – che saranno largamente sufficienti a alimentare senza difficoltà il parco auto mondiale per 185 anni.

Non c’è dubbio circa la maggiore efficienza energetica dell’auto elettrica o la convenienza dei costi operativi, come vedremo più avanti, ma qualche perplessità sul miglioramento dell’impatto ambientale è stata sollevata da autorevoli fonti.

Marchionne: "Un'arma a doppio taglio"

Si registrano da ultimo le dichiarazioni dell’ad di Fca, Sergio Marchionne: “Le auto elettriche possono sembrare una meraviglia tecnologica, soprattutto per abbattere i livelli di emissioni nei centri urbani, ma si tratta di un’arma a doppio taglio”, perché “le emissioni di un’auto elettrica, quando l’energia è prodotta da combustibili fossili, nella migliore delle ipotesi sono equivalenti a un’auto a benzina”, rileva Marchionne, considerando che nel mondo “due terzi dell’energia elettrica derivano da fonti fossili” e che di queste il carbone rappresenta circa il 40%. Tuttavia, nei giorni scorsi, una ricerca della VUB (Libera Università di Bruxelles) commissionata dal think tank T&E (Transport & Environment) ha riaffermato l’opzione elettrica, accertando che un veicolo elettrico emette mediamente la metà di CO2 rispetto a un diesel, anche tenendo conto dell’intero ciclo di vita della vettura, che va dalla realizzazione allo smaltimento di tutti i suoi componenti.

“L’anno scorso, riguardo all’elettrificazione, ci siamo trovati di fronte a un sacco di fake news messe in giro dall’industria dei combustibili, ma in questo studio si può constatare che oggi persino in Polonia risulta più vantaggioso per l’ambiente guidare un veicolo elettrico che un diesel” dichiara Yoann Le Petit, portavoce di T&E.

Sergio Marchionne

Cruciale, in ogni caso, pare l’intervento dei governi attraverso misure di incentivo all’acquisto delle autovetture a propulsione elettrica e la disponibilità di un’efficiente rete per la ricarica. All’avanguardia la Norvegia, grazie a una politica di detassazione e di agevolazioni per gli acquirenti dell’auto elettrica, inclusivi di parcheggi e ricariche gratuite e dei permessi per la circolazione nelle aree interdette ai veicoli tradizionali a combustibile.

Anche in Francia la politica di incentivazioni è abbastanza spinta, con un bonus fiscale fino a 6.300 euro sull’acquisto dell’auto elettrica cui si aggiungono, sovente, bonus regionali.

Il ministro della Transizione ecologica Nicolas Hulot ha annunciato – fra gli altri punti del piano governativo – l’obiettivo di proibire la commercializzazione di veicoli a benzina e a diesel per il 2040, meta piuttosto ambiziosa considerando che questi veicoli hanno costituito oltre il 95% delle immatricolazioni francesi nel primo semestre di quest’anno.

Per l’Italia, il ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda ha di recente ribadito che "stiamo ragionando, nell'ambito della Sen (Strategia energetica nazionale), sulla possibilità di incentivare il passaggio alle auto elettriche e alle auto a metano e ibride", e che si tratterà di agevolazioni "soprattutto per le famiglie che hanno redditi più bassi e macchine più vecchie".

Il ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda

Prosegue intanto il progetto Eva+, coordinato da Enel insieme con vari partner (società elettrica Verbund, Smatrics, Renault, Nissan, BMW, Volkswagen, Audi) con l’obiettivo di arrivare in tre anni a 180 postazioni in Italia e ad altre 20 in Austria. Con le colonnine Fast Recharge di Enel si può fare un “pieno” di energia elettrica in 20-30 minuti a un costo compreso tra i  4 e i 7 euro a seconda del veicolo. Per raggiungere lo scopo sono stati investiti 8,5 milioni di euro, finanziati per metà dalla Ue.

2) I numeri della flotta elettrica mondiale

Fin dal titolo, Two millions and counting (“Due milioni e in crescita”), il rapporto pubblicato a giugno scorso dall’Agenzia Internazionale per l’Energia (IEA) metteva in chiaro che nel 2016 si è raggiunto un obiettivo simbolico importante per l’auto elettrica, superando quota due milioni di auto in circolazione a livello globale. Il risultato è ancora più impressionante se si considera che nell’anno precedente si era appena passato il milione: praticamente un raddoppio in 12 mesi.

Tradotto in termini di immatricolazioni, significa che lo scorso anno sono state oltre 750 mila, sebbene non ripartite in maniera omogenea tra i paesi. L’altro dato da sottolineare dal rapporto IEA è il superamento della Cina sugli Stati Uniti, che da sola rappresenta il 40% delle vendite 2016.

Nonostante questi numeri, la fetta dell’auto elettrica rimane comunque marginale rispetto al mercato generale dell’automotive. In Cina, Francia e Regno Unito, per esempio, le auto elettriche rappresentano l’1,5% del totale. Ci sono notevoli eccezioni. In primis, la Norvegia, dove l’auto elettrica rappresenta il 29% del mercato; seguita da Paesi Bassi (6,4%) e Svezia (3,4%).

Secondo gli analisti dell’OCSE, che hanno recentemente pubblicato l’annuale Rapporto sul settore trasporti, nonostante i numeri ancora sostanzialmente bassi, il futuro è comunque dell’auto elettrica, che nel 2040 potrebbe superare quota 150 milioni. “Sebbene ad oggi,” si può leggere nel Rapporto, “la percentuale di auto elettriche nella flotta mondiale sia ancora solamente lo 0,1%, si tratta comunque di una crescita storica. La recente crescita delle auto elettriche è il risultato di continui miglioramenti tecnologici e della spinta delle politiche a supporto”.

Fattori che potrebbero verosimilmente portare la Cina a essere un mercato enorme, con una previsione di oltre 60 milioni di veicoli elettrici nel 2040.

Come mostrato dai dati IEA, l’Europa oggi rappresenta complessivamente il secondo mercato in termini assoluti. Come già accennato, siamo di fronte a una distribuzione disomogenea. Guardando ai numeri della flotta attualmente in circolazione, provenienti dal database dello European Alternative Fuels Observatory, possiamo vedere che la Norvegia, oltre a essere il paese con la fetta più consistente di auto elettriche rispetto al totale, è anche il paese che ne ha il maggior numero in termini assoluti. I dati aggiornati a giugno del 2017 parlano di oltre 285 mila veicoli. Al secondo posto ci sono i Paesi Bassi (230 mila), seguiti dal Regno Unito (223 mila), Francia (203 mila) e Germania (185 mila).

L’Italia si trova all’undicesimo posto in questa particolare classifica con una flotta di poco più di 21 mila auto.

In termini di modelli e marchi più venduti in Europa, le classifiche da prendere in considerazione sono due. Da una parte quella che riguarda i modelli totalmente elettrici e dall’altra invece quelli delle auto ibride, benzina più elettrico. Per i primi, si parla in gergo di BEV, ovvero Battery Electric Vehicle: automobili che sono alimentate esclusivamente dal motore elettrico e che devono essere ricaricate alle colonnine apposite.

La seconda tipologia è quella delle auto ibride, che possono circolare sfruttando sia il motore a scoppio tradizionale sia l’alimentazione elettrica.

3) Le prospettive italiane

Il mercato italiano è ancora relativamente piccolo e l’auto elettrica nel 2017 rappresenta solamente lo 0,2% del totale dell’automotive.

Complessivamente la flotta è ancora un decimo (poco più di 21 mila auto contro 285 mila) rispetto a quella norvegese, ma la continua crescita delle immatricolazioni, sia per quanto riguarda le auto puramente elettriche (BEV) sia per quanto riguarda le ibride (PHEV), lascia intravedere un potenziale di crescita importante.

In termini di modelli, con alcune differenze, l’andamento rispecchia grossomodo quello degli altri mercati europei, almeno per quanto riguarda il 2017, con Nissan, BMW, Renault e Volkswagen a giocare complessivamente la parte dei leoni.

4) La rete delle ricariche

A sostenere questa crescita è stato anche l’aumento delle colonnine di ricarica, aspetto fondamentale per garantire di circolare con tranquillità sul territorio, garantendo la ricarica del mezzo durante la sosta. Dopo una situazione stazionaria dal 2012 al 2014, con 1350 punti ricarica sparsi nelle venti regioni, dal 2015 il numero è cominciato a crescere fino a raggiungere quasi 2000 colonnine. Inoltre, negli ultimi tre anni hanno fatto la loro comparsa anche stazioni High Power che garantiscono una maggior velocità di ricarica.

Per individuare le colonnine più vicine e pianificare i propri viaggi, si può consultare il sito Open Charge Map, una mappa realizzata dal basso da utenti di tutto il mondo, che identifica i punti di ricarica di tutto il mondo, avvalendosi di tutte le informazioni e le verifiche. Oltre a essere uno strumento di utilità, permette anche di vedere che la distribuzione in Italia non è omogenea. Colpisce, per esempio, la situazione della Sardegna e la differenza, attesa, tra grandi centri urbani e il resto del territorio.

5) Certezze e incognite ambientali

Il fatto che le auto elettriche non producano direttamente emissioni nocive dal tubo di scappamento non significa che non abbiano un impatto ambientale.

Come viene prodotta, infatti, l’energia elettrica con cui si alimentano le batterie dei veicoli elettrici? Se immaginiamo che quell’energia venga tutta da centrali a carbone, l’inquinamento da CO2 prodotto per la produzione dell’energia elettrica sarebbe più o meno equivalente a quello prodotto dai veicoli a motore non elettrico con emissioni basse.

Questi ultimi producono – considerando i valori dichiarati nei cicli di omologazione, che sono spesso “ottimisti” rispetto alla realtà – all’incirca 100 grammi di CO2 al chilometro. Un’auto completamente elettrica (BEV) di ultima generazione – in realtà la larga maggioranza di quelle vendute oggi sono ibride (PHEV) – ha una batteria da 41 kWh (chilowattora) che, sempre facendo riferimento ai valori dichiarati, può durare fino a 400 km.

In base a quanto riporta uno studio dell’ufficio “Scienza e Tecnologia” del Parlamento britannico, il carbone produce 1.000 g di CO2 per produrre 1 kWh: si può sostenere, quindi, che a queste condizioni anche un’auto elettrica possa produrre (anche se in modo indiretto) 100 g di CO2 al chilometro. Insomma, quanto un motore a combustibile a basse emissioni.

È però un caso assolutamente teorico. A oggi il mix energetico mondiale secondo la World Bank vede il carbone pesare solo per il 40,7% del totale. Il resto proviene da fonti nettamente meno inquinanti, come ad esempio il gas (21,6%), il nucleare (10,6%) e le fonti rinnovabili (22,2%, considerando anche l’idroelettrico).

Una centrale a carbone

Queste fonti producono molta meno CO2 rispetto al carbone: 650 g/kWh il petrolio, meno di 500 g/kWh il gas. Le rinnovabili e il nucleare non ne producono direttamente.

In Italia, inoltre, il mix è ancora meno inquinante, visto lo scarso ricorso al carbone e l’ampio utilizzo del gas naturale.

Possiamo quindi dire che l’energia che fa funzionare le elettriche viene normalmente prodotta generando, nel rapporto CO2/km, meno emissioni rispetto a quelle delle auto a combustibile.

Non c'è solo CO2

C’è una serie di altre variabili che bisogna valutare, a proposito delle emissioni. Per le auto non elettriche, ad esempio, si dovrebbero considerare anche le sostanze inquinanti prodotte dagli impianti di raffinazione e produzione del gasolio e della benzina, oltre a quelle prodotte dal trasporto dei combustibili nei vari punti di distribuzione. Si dovrebbero soprattutto considerare anche le altre emissioni, oltre alla CO2, come polveri sottili, ossido di azoto eccetera.

Per le auto elettriche, specularmente, si dovrebbe invece considerare il tasso di dispersione della rete elettrica. La quantità di energia prodotta all’origine non è, insomma, la stessa che arriva alla colonnina di ricarica delle auto elettriche. Questo perché anche i materiali isolanti conservano comunque una minima conduttività. Nell’Unione europea, ad esempio, il tasso di dispersione (dato IEA) nel 2015 è stato del 6,41%.

Gli elementi da considerare sono potenzialmente infiniti, se si vuole risalire la catena di produzione: le emissioni prodotte per la creazione dei diversi motori, elettrici e non, per la batteria, quelle per la creazione degli impianti delle rispettive filiere e via dicendo.

Cosa nasconde una batteria

Le batterie delle auto elettriche, al di là della questione emissioni, contengono materie prime potenzialmente nocive. A seconda del tipo possono contenere nichel, piombo o litio. Si pone dunque il problema dello smaltimento di questi materiali.

Tuttavia, se riciclate in modo adeguato, le batterie non generano grossi problemi all’ambiente.

Una batteria tradizionale

Ma se da un lato c’è interesse a recuperare le “terre rare” che sono contenute nelle batterie (materiali preziosi sempre più difficili da reperire in natura), dall’altro per diversi materiali – in particolare il litio – è, ad oggi, meno conveniente riciclarli che acquistarli sul mercato.

L’Unione europea ha varato una normativa in materia di smaltimento delle batterie, la direttiva 2006/66/CE (recepita in Italia col D.Lgs. n. 188/2008), per promuovere un elevato livello di raccolta e di riciclaggio. Il provvedimento ha fissato precisi obiettivi sulle percentuali di riciclaggio che devono essere ottenuti attraverso le diverse metodologie di processo di riciclo dedicati ai diversi tipi di famiglie di batterie esauste.

La pericolosità, soprattutto nel futuro, che deriva dallo smaltimento delle batterie elettriche sembra insomma dipendere soprattutto dalla capacità degli Stati di varare e far rispettare stringenti normative a tutela dell’ambiente, più che non dalle tecnologie stesse.

La ricarica di un veicolo elettrico

Di certo si può dire che anche le auto elettriche producano indirettamente emissioni. Meno, sembra emergere dal confronto, rispetto a quelle prodotte dalle auto non elettriche (che pongono anche il problema delle altre emissioni oltre alla CO2, come poveri sottili, ossidi di azoto etc.).

Oltretutto, migliorando il mix energetico globale con un maggior ricorso a fonti meno inquinanti del carbone, la prospettiva è che il confronto diventi sempre più favorevole per le auto elettriche.

 

Agi News

Le scommesse sul futuro di Bitcoin fanno schizzare il suo valore oltre i 7mila dollari

Bitcoin fa un nuovo record e supera i 7.000 dollari. La criptovaluta oggi ha anche toccato il suo massimo storico a 7.392,95 dollari. Ricordiamo che solo dieci giorni fa si celebrava il record dei 6mila dollari, era il 21 ottobre. La nuova impennata si deve probabilmente alla notizia, arrivata nei giorni scorsi, che Cme Group, la piattaforma con sede a Chicago specializzata in scambi di future e opzioni sui derivati e le materie prime, lancerà un future sui Bitcoin entro la fine dell'anno. Gli effetti sono ancora in atto, e si faranno sentire in futuro. A inizio settembre il Bitcoin aveva toccato per la prima volta quota 5.000 dollari per poi arretrare sotto i 4.000 dollari sull'onda della stretta messa in atto dalle autorità cinesi. Da allora, tra alti e bassi, è iniziata l'impennata che ha portato la moneta digitale lo scorso 21 ottobre a superare i 6.000 dollari. 

Dal 2018 si potrà scommettere sui rialzi e ribassi di Bitcoin

Si è detto che Cme Group, la società che gestisce il più ampio mercato di derivati al mondo, il 31 ottobre aveva annunciato che entro la fine dell'anno lancerà i futures sui bitcoin. Ovvero, si potranno sottoscrivere e scambiare contratti per vendere e acquistare moneta digitale in una data futura. Cioè puntare su un suo rialzo o su un suo ribasso.

Restano ancora alcune incognite sul piano regolatorio, ma CME, afferma il ceo del gruppo Terry Duffy, ha voluto assecondare “il crescente interesse dei clienti nel mercato delle criptovalute”. Un interesse confermato dai dati pubblicati dalla società: il mercato delle criptovalute vale 172 miliardi di dollari, 94 dei quali sono costituiti da bitcoin. In un periodo di forte crescita, la notizia dei futures ha spinto la valutazione della più diffusa moneta virtuale ai nuovi massimi, oltre quota 6400 dollari.

Il prezzo dei bitcoin, esposto a un'elevata volatilità, avrà come riferimento il “CME CF Bitcoin Reference Rate”, un indice creato nel novembre 2016 che determina la valutazione raccogliendo dati dalle maggiori piattaforme di scambio e fissa, una volta al giorno, il prezzo in dollari.  

 

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I robot ‘ruberanno’ tre milioni di posti in Italia. Ma il lavoro ha un futuro

Il Club Ambrosetti ha fatto i conti cercando di capire quanto la rivoluzione industriale in atto, la quarta, quella dei robot, potrà minacciare i posti di lavoro finora occupati dagli uomini. La domanda delle domande, quella alla quale da diversi anni oramai si cerca di rispondere. “Tutto dipende da come si affronta il cambiamento” scrive oggi La Stampa citando i dati raccolti dal Club Ambrosetti nel report. “Per il mercato del lavoro italiano non sarà una passeggiata: nei prossimi 15 anni verranno meno più di tre milioni di occupati nei settori tradizionali, fino a 4,3 nello scenario più pessimista. Ma è possibile crearne altrettanti in quelli innovativi”. 

Cosa ci insegnano l’industria dell’auto, e Amazon

Partiamo dalla manifattura e dal commercio: “Perderanno rispettivamente 840 mila e 600 mila unità”, scrive l’inviato a Cernobbio.  “Nel giro di quindici anni le attività immobiliari – che oggi impiegano più di due milioni e mezzo di italiani – perderanno trecentomila addetti, agricoltura e pesca più di duecentomila”.  E la perdita dell’occupazione sarà rapida: “130 mila all’anno nei primi cinque, 290 mila negli ultimi cinque”. E i rischi maggiori saranno per le nuove generazioni. “Il rischio di sostituzione è del 20 per cento per i lavoratori fra i 20 e i 24 anni, del 16 per cento fra i 25 e i 29, del 13 per cento fra i 60 e i 64 anni”. 

E' possibile evitare che i robot ci rubino il lavoro? 

“Secondo la ricerca sarebbe sufficiente mettere in campo iniziative capaci di creare 42 mila posti all’anno nei prossimi cinque”, scrive La Stampa. Occorre però puntare sui settori che oggi impiegano più di ogni altro: “alta tecnologia, scienze della vita, ricerca di base”. Lo studio quindi racconta che per ogni nuovo posto in un settore avanzato se ne creano altri 2,1 nell’indotto: quarantamila posti l’anno nei settori chiave sono tre milioni di occupati in 15 anni. 

L’importanza di un titolo di studio adeguato

Quello che emerge è abbastanza scontato: in futuro più le qualifiche acquisite saranno basse, più sarà alta la possibilità di restare disoccupati. “Chi ha in tasca una specializzazione universitaria ha appena l’un per cento di probabilità di perdere il posto; al contrario, per chi non ha almeno una laurea il rischio sale al 17 per cento: si tratta di 17 milioni di italiani” si dice nel report. 

Di chi è il futuro del lavoro? 

“Il futuro”, scrive il quotidiano, “è per chi svolge mansioni complesse, con una forte componente intellettuale e non facilmente sostituibili dalle macchine. I settori che rischiano meno sono i servizi per la salute e la comunicazione. Il futuro del lavoro è nelle qualità umane, quelle che le macchine non potranno mai sostituire: creatività, innovazione, capacità di relazione. 

La credenza che i robot rubino il lavoro, è appunto una credenza

“Non è vero per niente che il destino delle società avanzate sia segnato”, scrive oggi Luca Ricolfi nel suo primo editoriale per Il Mattino: “La credenza che automazione e intelligenza artificiale distrugga più posti di lavori di quanti ne creino è per l’appunto una credenza, non una legge generale dell’economia”.

Cosa lo dimostra? Secondo Ricolfi la paura italiana è data da un punto di vista particolare, quella di un Paese che ha sì perso posti di lavoro, ma non a causa dei robot. “Diego anni di instabilità economica e di spettacolari progressi tecnologici non hanno impedito a 21 Paesi avanzati su 35 di aumentare i propri tassi di occupazione, spesso già molto elevati nel 2007. 

 
 
 
 

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“Sulle startup in Italia solo proclami, la Francia abbraccia il futuro”

Loro Macron, noi micron. Sarebbe il titolo perfetto per raccontare la distanza tra noi e la Francia in tema di startup. Ieri su Agi.it Riccardo Luna ha scrittoquesto post "Startup, sveglia Italia! Siamo fermi al palo". La nostra è una vera "Emergenza Innovazione", che stiamo provando ad indagare, coinvolgendo i massimi esperti sull'argomento. Ma ci piacerebbe coinvolgere tutti, anche quelli che massimi esperti non sono. Se volete contribuire scriveteci qui:dir@agi.it A presto. 

"Le startup italiane hanno il potenziale per creare almeno 100mila posti di lavoro, se si fanno crescere. Ma così non è". Gianmarco Carnovale è un imprenditore romano (è amministratore delegato di Scuter) e presidente di Roma Startup, associazione che lo vede impegnato per contribuire alla crescita di un ecosistema favorevole all'innovazione nella Capitale. E' tra le voci più schiette della startup scene italiana, ne ha seguito l'evoluzione, ne conosce i freni, il potenziale. E, per ora, le promesse spesso disattese come testimoniano i dati degli investimenti in startup dei primi sei mesi del 2017. 

 

75 milioni nel primo semestre, prima decrescita dopo 3 anni. Che succede? 
"Succede che non succede niente: di fatto la nostra 'filiera delle startup' non è stata né propriamente stimolata né messa nelle condizioni di crescere di scala nell'offerta di capitale di rischio. Anzi, se vogliamo dirla tutta, al di là dei proclami ci sono stati veri disincentivi: negli ultimi 4 anni la tassazione sul capital gain (cioè quanto sono tassati i guadagni dalle vedite delle azioni, anche in startup, ndr) è cresciuta dal 12.50% al 26%. Inoltre i requisiti per aggregare investimenti sono stati irrigiditi da Banca d'Italia".

In che modo?
"Oggi per gestire 500 mila euro raccolti da dieci conoscenti per fare un invetimento in startup ha gli stessi oneri di vigilanza e governance di un fondo da mezzo miliardo. La stessa Banca d'Italia ci mette anche 18 mesi per autorizzare quei malaugurati che volessero avviare una nuova società di gestione del risparmio. E il nostro omologo dei "fondi di fondi" – ruolo svolto qui da FII – invece di essere un grande "serbatorio" per una quota della dotazione degli operatori di venture capital opera come piccolissimo serbatoio e con l'altra mano fa concorrenza ai propri beneficiari. Non solo disincentivi ma anche confusione di ruoli per anni, quindi crescita piatta, fino ad arrivare 2017 dove i pochi fondi italiani hanno quasi tutti terminato l'investment period e non avranno soldi da investire fino al 2018".

Quindi non è un calo che deve sorprendere. 
"È anche poco il calo che si è visto, se si togliessero dal calcolo i fondi esteri intervenuti in alcuni dei round maggiori vedremmo un calo ben più forte".

Si parla molto di startup come volano per la crescita economica, ma serve a poco. Quali sono le cause secondo te? 
"Le startup sono un volano per la crescita economica, per la redistribuzione di ricchezza, per l'efficientamento dei mercati. Quando le si sviluppa davvero. Il problema è che la classe politica di questo paese è legata ai vecchi poteri, a categorie economico-produttive che vogliono incamerare il fenomeno è possibilmente archiviarlo senza subire la disruption che l'innovazione porta. Se vuoi sintetizzo in 'protezionismo': non sia mai che venga fuori quel qualcuno che metta in crisi il modello di business di aziende del secolo scorso, bisogna impedirlo a nuovi imprenditori italiani e impedire l'accesso agli stranieri".

C'è una vulgata che comincia a diffondersi: le startup italiane non valgono molto, sono scarse. Quanto c'è di vero? 
"Questa sembra essere la soluzione narrativa in via di adozione da parte di tutti i signori che vogliono tentare di archiviare il finto tentativo di apertura al movimento startup – operato secondo modelli fantasiosi e inventati di sana pianta rispetto alle practice internazionali – come inadeguato all'Italia per una presunta minore qualità dei nostri founder. Fa ridere solo a sentirla".  

In Francia di Macron ha ingranato la sesta, e non è un Paese poi così diverso dall'Italia. 
"La Francia si è lanciata verso un abbraccio del domani forte e convinto, per cavalcare la tecnologia, mentre l'Italia naviga verso una totale e cieca protezione del passato, guidata da una classe politica convinta di potersi disinteressare del vero interesse collettivo e perfino fare nefandezze perchè quel che conta è controllare i titoli dei giornali e telegiornali per guidare l'opinione pubblica. Il brutto è che hanno in parte ragione perché questo è un paese di anziani che si informano così, ma diventa meno vero con ogni anziano che si digitalizza ogni giorno che passa". 

Secco: cosa dovremmo fare per invertire la tendenza?
"Di fare sul serio, seguendo le practice internazionali, copiando anzichè inventando di sana pianta modelli e schemi. E togliere fiato e visibilità ai benaltristi che confondono, intorbidiscono, e sguazzano nella confusione. La filiera delle startup e del venture business sono strettamente connesse e ben codificate, basta conoscerle per applicarne normativamente le logiche, ed inserire incentivi laddove si debba temporaneamente stimolare alcune categorie a fare delle cose in un certo modo. Servono interventi forti lungo tutta la filiera delle startup, sia a favore delle startup stesse che delle varie tipologie di soggetti che ne costituiscono il terreno di crescita, il concime e l'acqua. Abbiamo un vero Statista da qualche parte? Qualcuno che non solo come facciata pensi allo sviluppo del Paese, anziché alla spartizione delle sue spoglie? L'Italia ha tranquilllamente il potenziale per impiegare oltre 100mila persone in nuove startup tecnologiche in un ciclo virtuoso che crea e distribuisce ricchezza".  

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Alimentare:Strada dei Vini rilancia sfida per il futuro del Garda

(AGI) – Roma, 7 lug. – “Abbiamo creato le basi di un percorso destinato a dare nuovo slancio all’azione della Strada dei Vini e dei Sapori del Garda: ora dobbiamo concretizzare le alleanze con le altre realta’ del territorio per marciare uniti con un obiettivo condiviso”.
E’ il messaggio lanciato dalla presidente Giovanna Prandini ai Soci della Strada dei Vini e dei Sapori del Garda, riuniti in assemblea all’agriturismo Macesina di Bedizzole per l’approvazione del bilancio oltre che per il rinnovo delle cariche sociali: fra gli ospiti Alessandro Luzzago, presidente del Consorzio Valtenesi, e Gianluca Ginepro, responsabile comunicazione del Consorzio Garda Lombardia.
“Termino il mio mandato con un bilancio molto positivo – ha detto Giovanna Prandini -. In particolar modo sono felice di aver posto le basi per una nuova politica unitaria di promozione del territorio gardesano, stringendo nuove ed importanti alleanze con il Consorzio Garda Lombardia, rinsaldando la collaborazione con il Consorzio dell’Olio Garda Dop e con i Consorzi del Vino: la presenza delle cantine nella nostra base sociale e’ un patrimonio importante, che rappresenta per altro un elemento fondante della nostra Associazione. Il dialogo e il confronto anche dialettico sono importanti per definire al meglio i rispettivi ruoli e concordare una strategia che abbia ricadute positive per tutti”.
Sotto questo profilo assume particolare rilevanza il percorso avviato con i Consorzi di Valtenesi e Lugana per un progetto di grande rilevanza, che punterebbe a far confluire nella Strada tutte le aziende associate ai due organismi.
“Sarebbe un risultato importantissimo per il Garda – ha affermato Giovanna Prandini -. Dobbiamo avere l’ambizione di pensare in grande: oggi ci sono le persone giuste per superare certi steccati del passato e promuovere congiuntamente un territorio per arricchire il lavoro che abbiamo fatto con una nuova progettualita’. Credo di poter dire che per altro il vantaggio economico sarebbe decisamente rilevante per i Soci, spero davvero che il prossimo Cda continui su questa Strada”.
“E’ necessario trovare un punto d’incontro fra tutte le istanze del territorio e metterle insieme – ha detto il presidente del Consorzio Valtenesi Alessandro Luzzago -. Da qui e’ nata negli ultimi mesi la volonta’ di rilanciare il dialogo con la Strada dei Vini, ragionando su un percorso che la Franciacorta ha gia’ da tempo intrapreso per portare nel Consorzio tutte le aziende, che in buona parte sono attive sia in Lugana che in Valte’nesi compenetrando di fatto i territori”.
Durante l’assemblea e’ stato presentato il progetto di prenotazione visite online gia’ sperimentato in alcune cantine della Franciacorta: un vero e proprio sistema di booking basato su una proposta molto semplice che consente ad ogni azienda di mantenere la propria unicita’ proponendo un pacchetto di visite ed iniziative che possano consentire agli utenti di scegliere la formula a loro piu’ adatta. “E’ uno strumento di cui sono particolarmente orgogliosa, insieme al nostro blog – ha concluso Giovanna Prandini – Non solo perche’ non ha costi, ma anche perche’ puo’ diventare un viatico straordinario per aumentare le occasioni di business per i nostri associati, nell’ottica di una sempre piu’ ampia ed efficace promozione di questo nostro straordinario territorio”.
Prandini ha deciso di non ricandidarsi e di passare il testimone: il vice presidente uscente Francesco Averoldi, viticoltore e produttore di vino a Bedizzole, appare avviato verso la leadership che sara’ annunciata nei prossimi giorni nella prima riunione del nuovo consiglio.
I soci hanno poi proceduto all’elezione del nuovo Consiglio di Amministrazione che risulta composto da: Giovanna Prandini, Lucia Zuliani, Francesco Averoldi, Paolo Venturini, Sergio Berardi, Cristiano Malinverni, Attilio Pasini, Irene Tincani, Nicoletta Manestrini, Giovanna Maestranzi, Luigi Del Prete, Cristina Vezzola, William Donini.(AGI)
Bru

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