Tag Archive: euro

Gas: tocca 100 euro per megawattora, ai minimi da metà giugno 

AGI – Il prezzo del gas tocca i 100 euro per megawattora, ai minimi da meta’ giugno, il giorno dopo che i ministri europei dell’Energia hanno trovato la ‘quadra’ politica sul price cap a 180 euro per megawattora. L’intesa e’ stata raggiunta a maggioranza qualificata durante il Consiglio Affari Energia.

All’hub di riferimento per l’Europa, il Ttf, i future hanno toccato un minimo di 100,2 euro, in calo del 7,7%, per poi risalire a 104,6 euro, in calo del 3,63%. 

Gia’ la settimana scorsa il prezzo del gas naturale in Europa era sceso del 17%, con l’attenuarsi dei timori per le forniture dopo la prima ondata di freddo e con la domanda industriale che e’ destinata a diminuire durante il periodo festivo.

Lo stoccaggio di gas dell’Ue era all’84,2% della capacita’ al 17 dicembre, spinto dalle importazioni record di Gnl per questo periodo dell’anno e da un aumento della fornitura di energia eolica in Germania e della disponibilita’ nucleare in Francia. Allo stesso tempo, quasi 700 miliardi di euro di sostegno del governo alle imprese e alle famiglie hanno contribuito a gestire la crisi energetica che ha colpito l’Europa da quando la Russia ha invaso l’Ucraina.

Sul fronte politico, ieri a Bruxelles,i ministri dell’Energia hanno finalmente trovato un accordo sul price cap. Alla fine la Germania ha ceduto: il Consiglio Energia ha raggiunto un’intesa sul tetto al prezzo del gas. Il meccanismo di correzione del mercato scattera’ quando al Ttf di Amsterdam le quotazioni mensili del gas naturale andranno oltre la soglia di 180 euro a megawattora per tre giorni (lo scorso agosto aveva sforato i 300 euro) con una differenza di almeno 35 euro oltre il prezzo medio del gas naturale liquefatto in un “paniere” di mercati internazionali.

Il meccanismo verrebbe disattivato in caso di “rischi per la sicurezza dell’approvvigionamento energetico, la stabilita’ finanziaria, i flussi di gas all’interno dell’Ue o rischi di aumento della domanda di gas”. E’ il compromesso che ha convinto la Germania a votare a favore ma non e’ stato sufficiente per l’Ungheria, che aveva gia’ dichiarato un voto contrario “in ogni caso”. Hanno optato per l’astensione invece l’Austria e i Paesi Bassi. 


Gas: tocca 100 euro per megawattora, ai minimi da metà giugno 

L’inflazione sfiora il 9% e costa alle famiglie italiane più di 3.000 euro

AGI – Non si arresta la corsa dell’inflazione. A settembre, comunica l’Istat, l’indice nazionale dei prezzi al consumo per l’intera collettività, al lordo dei tabacchi, ha registrato un aumento dello 0,3% su base mensile e dell’8,9% su base annua (da +8,4% del mese precedente). Il dato tendenziale è il più alto da novembre 1985.

L’ulteriore accelerazione dell’inflazione su base tendenziale a settembre si deve soprattutto ai prezzi dei beni alimentari (la cui crescita passa da +10,1% di agosto a +11,5%) sia lavorati (da +10,4% a +11,7%) sia non lavorati (da +9,8% a +11,0%) e a quelli dei servizi ricreativi, culturali e per la cura della persona (da +4,6% a +5,7%).

Contribuiscono, in misura minore, anche i prezzi dei beni non durevoli (da +3,8% a +4,7%) e dei beni semidurevoli (da+2,3% a +2,8%). Pur rallentando di poco, continuano a crescere in misura molto ampia, i prezzi dei beni energetici (da +44,9% di agosto a +44,5%) sia regolamentati (da +47,9% a + 47,7%) sia non regolamentati (da +41,6% a +41,2%); decelerano anche i prezzi dei servizi relativi ai trasporti (da +8,4% a +7,2%). L'”inflazione di fondo”, al netto degli energetici e degli alimentari freschi, accelera da +4,4% a +5,0% e quella al netto dei soli beni energetici da +5,0% a +5,5%. 

Il cibo non costava così tanto da quasi 40 anni

Su base annua accelerano i prezzi dei beni (da +11,8% a +12,5%), mentre è sostanzialmente stabile la crescita di quelli dei servizi (da +3,8% a +3,9%); si amplia, quindi, il differenziale inflazionistico negativo tra questi ultimi e i prezzi dei beni (da -8,0 di agosto a -8,6 punti percentuali).

Accelerano, al top da luglio 1983, i prezzi dei Beni alimentari, per la cura della casa e della persona (da +9,6% a +11,1%) – il cosiddetto ‘carrello della spesa’ – e quelli dei prodotti ad alta frequenza d’acquisto (da +7,7% a +8,5%). L’aumento congiunturale dell’indice generale è dovuto prevalentemente ai prezzi dei Beni alimentari non lavorati (+2,0%), dei Beni semidurevoli (+1,0%), degli alimentari lavorati (+0,8%) e dei Beni durevoli (+0,6%) ed è in parte frenato dal calo dei prezzi dei Servizi relativi ai trasporti (-4,2% dovuto per lo piu’ a fattori stagionali). L’inflazione acquisita per il 2022 e’ pari a +7,1% per l’indice generale e a +3,6% per la componente di fondo.

Secondo le stime preliminari, l’indice armonizzato dei prezzi al consumo (Ipca) aumenta dell’1,7% su base mensile, anche per effetto della fine dei saldi estivi di cui il Nic non tiene conto, e del 9,5% su base annua (da +9,1% nel mese precedente). L’inflazione acquisita per il 2022 è pari a +7,1% per l’indice generale e a +3,6% per la componente di fondo.

La stangata e lo tsunami

“L’inflazione all’8,9% determina una stangata per gli italiani, considerata la totalità dei consumi di una famiglia ‘tipo’, pari a +2.734 euro, di cui 657 euro solo per la spesa alimentare, conto che sale a +3.551 euro annui per una famiglia con due figli” afferma il Codacons, commentando i dati diffusi dall’Istat. “Siamo di fronte a uno tsunami economico senza precedenti, e la crescita dei prezzi al dettaglio e’ destinata purtroppo ad aggravarsi nelle prossime settimane – spiega il presidente Carlo Rienzi – Il maxi-aumenti del 59% delle bollette elettriche che scatteranno dall’1 ottobre, e i nuovi incrementi del gas alle porte, spingeranno al rialzo l’inflazione, non potendo imprese, esercizi commerciali e attività produttive assorbire costi energetici così elevati, che saranno inevitabilmente scaricati sui listini al pubblico”.

“Il rischio è quello di un crollo verticale dei consumi delle famiglie negli ultimi mesi del 2022, con effetti a cascata sull’economia. Per tale motivo chiediamo al nuovo Governo di disporre subito il taglio dell’Iva sugli alimentari, che a settembre hanno registrato una impennata dell’11,8% con ripercussioni per +657 euro a famiglia, e sui generi di prima necessità, in modo da alleggerire la spesa delle famiglie e contenere gli effetti disastrosi dell’inflazione”, conclude Rienzi.

“Per cibo e bevande, decollati dell’11,8%, una famiglia pagherà in media 665 euro in più su base annua. Una batosta che sale a 907 euro per una coppia con 2 figli, 819 per una coppia con 1 figlio. Nel caso delle coppie con 3 figli, poi, si ha una mazzata record di 1.084 euro nei dodici mesi”.

Lo afferma l’Unione nazionale consumatori, secondo cui “un terremoto si sta abbattendo sulle famiglie, svuotando il loro conto in banca, visato che certo lo stipendio non può più bastare per arrivare a fine mese“. Secondo Massimiliano Dona, presidente dell’Unione Nazionale Consumatori, “urge un nuovo bonus per le famiglie, ma deve essere almeno il triplo rispetto ai 200 euro del Governo Draghi, così da coprire quasi tutte le maggiori spese per mangiare e bere”. “Per quanto riguarda l’inflazione nel suo complesso, il +8,9% significa, per una coppia con due figli, una stangata complessiva, in termini di aumento del costo della vita, pari a 2.956 euro su base annua, di cui 1.211 per abitazione, elettricità e combustibili, 940 per il solo carrello della spesa.

Per una coppia con 1 figlio, la spesa aggiuntiva annua è pari a 2.738 euro. In media per una famiglia il rincaro è di 2.336 euro, 691 per il solo carrello della spesa. Il primato spetta ancora una volta alle famiglie numerose con più di 3 figli con una scoppola pari a 3.321 euro, 1.116 per i beni alimentari e per la cura della casa e della persona” conclude Dona.

 Secondo Assoutenti, le famiglie italiane dovranno affrontare un vero e proprio “dramma d’autunno”, con prezzi al dettaglio in forte ascesa e bollette alle stelle. “I prezzi hanno raggiunto i livelli piu’ alti degli ultimi 40 anni, e le previsioni per i prossimi mesi sono addirittura peggiori – spiega il presidente Furio Truzzi – I listini dei generi alimentari sono letteralmente esplosi, segnando a settembre una crescita del +11,8%: questo significa che una famiglia con due figli deve mettere in conto una maggiore spesa solo per il cibo pari a +883 euro su base annua (+657 euro la famiglia “tipo”)”.

“Con questi numeri una consistente fetta di popolazione sarà spinta verso la soglia di povertà, e ci saranno ripercussioni immediate sul fronte dei consumi – prosegue Truzzi – Una emergenza nazionale che il prossimo Governo dovrà affrontare con urgenza , perché i rischi economico-sociali sono elevatissimi e non c’è più un solo giorno da perdere”.

Il caro energia – dice la Coldiretti – investe consumatori e agricoltori che sono colpiti direttamente dall’aumento delle bollette ma anche indirettamente per l’impatto sui costi di produzione. Un trend che porta gli italiani a tagliare gli acquisti di frutta e verdura dell’11% in quantita’ nel 2022 rispetto allo scorso anno, su valori minimi da inizio secolo (secondo l’analisi della Coldiretti sulla base dei dati Cso Italy/Gfk Italia), aggravando una situazione che nel primo semestre del 2022 ha visto il consumo di frutta delle famiglie attestarsi a 2,6 milioni di tonnellate in quantità.

Gli italiani – precisa la Coldiretti – hanno ridotto del 16% le quantità di zucchine acquistate, del 12% i pomodori, del 9% le patate, del 7% le carote e del 4% le insalate, mentre per la frutta si registra addirittura un calo dell’8% per gli acquisti di arance, considerate unanimemente un elisir di lunga vita. Una situazione destinata ad avere un impatto sulle famiglie più deboli che riservano una quota rilevante del proprio reddito all’alimentazione. “Occorre lavorare per accordi di filiera tra imprese agricole ed industriali con precisi obiettivi qualitativi e quantitativi e prezzi equi che non scendano mai sotto i costi di produzione come prevede la nuova legge di contrasto alle pratiche sleali e alle speculazioni” afferma il presidente della Coldiretti Ettore Prandini nel sottolineare che “bisogna intervenire subito per contenere il caro energia ed i costi di produzione con misure immediate per salvare aziende e stalle e strutturali per programmare il futuro. 


L’inflazione sfiora il 9% e costa alle famiglie italiane più di 3.000 euro

I videogiochi in Italia valgono 2,2 miliardi di euro

AGI – Il settore dei videogiochi in Italia vale 2 miliardi e 243 milioni di euro, in crescita del 2,9% rispetto al 2020. L’avanzamento non era scontato, visto il confronto con un’ annata – causa pandemia – da record. Sono i dati dell’IIDEA, l’Associazione che rappresenta l’industria dei videogiochi in Italia.

Software e hardware

Il segmento software si riconferma il più forte del mercato, con un valore di 1,8 miliardi di euro, ossia l’80% del totale. Rispetto al 2020 è rimasto sostanzialmente piatto, a causa – ha spiegato Juan Insausti Alonso De Celada, account manager Iberia & Italy di Sparkers – di un leggero calo nelle vendite. La flessione non è dovuta tanto alla disaffezione dei giocatori quanto alla mancanza di nuove uscite. “Da un lato gli editori sono in attesa di un maggior numero di console distribuite sul mercato, dall’altro si sono accumulati ritardi dovuti alla pandemia”.

A sorreggere il segmento sono stati i giochi per smartphone e tablet. Con una crescita dell’8,7%, le app valgono 762 milioni di euro, a un soffio dal valore combinato dei software per pc e console (771 milioni). Restano invece ancora una nicchia le piattaforme di streaming.

L’hardware, con 442 milioni di euro, costituisce il 20% del mercato. ma nel 2021 ha registrato una crescita a doppia cifra (+12,1%). Merito soprattutto dell’ultima generazione di console. Positivo anche l’andamento degli accessori (+3,3%). Lo scorso anno, ad esempio, i videogiocatori italiani hanno speso quasi 58 milioni in gamepad, poco meno di 20 per gadget audio, circa 12 per volanti e altrettanti per sedute e postazioni.

Meno giocatori, più tempo di gioco

Il numero dei videogiocatori è leggermente diminuito. Probabile che alcuni si siano avvicinati durante il lockdown a un mondo che hanno abbandonato poco dopo. I videogiocatori restano comunque 15,5 milioni, più di una persona su tre fra i 6 e i 64 anni.

Se la platea si è ristretta, è aumentato il suo coinvolgimento: ogni utente ha giocato, in media, per 8,7 ore a settimana, mezz’ora in più rispetto al 2020. Chi ha una console ci ha giocato in media per 8 ore (con un picco di 9 sulla Nintendo Switch). Più contenuto il tempo dedicato alle app (oltre 5 ore), che comunque supera quello speso davanti ai pc (quasi 4 ore e mezza).

I dispositivi mobili sono però i più utilizzati, con 9 milioni di videogiocatori italiani. Seguono pc e console domestiche, con 6,9 milioni di utenti. Resiste il segmento delle console portatili, utilizzate da 1,4 milioni di persone.

Donne e trentenni: dove crescere

Il 56% dei giocatori è composto da uomini e il 44% da donne. La differenza di genere resta pronunciata per quanto riguarda l’uso di console e pc (i maschi sfiorano il 60%). C’è invece molto più equilibrio nei giochi per smartphone e tablet, dove il 47% degli utenti è donna.

Il “fattore D” potrebbe non solo aumentare la platea ma anche cambiare la geografia dei titoli di maggior successo. Nelle console, infatti, i videogiochi più venduti sono tipicamente maschili: azione e sport, con Fifa 2022, Grand Theft Auto V e Fifa 21 in cima alle vendite.

Sulle app, per ragioni di utilizzo ma anche di pubblico, il quadro cambia. Il riequilibrio di genere è quindi uno degli spazi di crescita. L’altro riguarda l’età. C’è infatti una forte polarizzazione in due fasce: 15-24 e 45-64 anni si spartiscono – praticamente alla pari – quasi la metà dei videogiocatori italiani.

È l’ennesima conferma (se mai ce ne fosse bisogno) che i videogame non sono un passatempo per ragazzini ma, come afferma Marco Saletta, Presidente di IIDEA, “uno dei più interessanti e innovativi media di intrattenimento”. LA polarizzazione conferma anche, come sottolineato da Eduardo Mena, research director di Ipsos MORI, che c’è grande margine, soprattutto tra i 25 e i 44 anni.  


I videogiochi in Italia valgono 2,2 miliardi di euro

Il 78% delle vecchie cartelle esattoriali è di importo inferiore ai mille euro

AGI – Il 78% delle vecchie cartelle fiscali è costituito da cartelle di importo inferiore a 1.000 euro: si tratta di 178 milioni di posizioni per un totale di 56 miliardi di euro. Lo rivela un rapporto del Centro studi di Unimpresa, secondo cui circa 400 miliardi su complessivi 999 miliardi accumulati alla fine del 2020 è difficilmente incassabile.

Più di un terzo del totale, ovvero più di 343 miliardi (34,4%) corrisponde a pretese tributarie vecchie di oltre 10 anni. Secondo lo studio, il 55% dei 16 milioni di nuove cartelle fiscali emesse ogni anno viene recuperato dopo molto tempo e solo in minima parte.

“La stessa amministrazione finanziaria – afferma Unimpresa – è consapevole della difficoltà, se non impossibilità, di recuperare, in particolare, le cartelle fino a 1.000 euro, ragion per cui sono già state opportunamente avviate operazioni di stralcio e azzeramento: il costo di recupero, del resto, sarebbe superiore al beneficio ottenuto dall’incasso finale da parte dell’erario”.

Secondo i dati di Unimpresa, i contribuenti in debito col fisco sono quasi 18 milioni: di questi 15 milioni sono persone fisiche, mentre i restanti 2,8 milioni sono imprese. Sul totale di 999 miliardi di magazzino fiscale, 133 miliardi sono legati a persone fisiche decedute oppure a imprese cessate e fallite, mentre altri 152 miliardi di riferiscono a imprese in fallimento o con altre procedure concorsuali in corso. Si tratta, complessivamente, di 285 miliardi di fatto irrecuperabili, ma che, tuttavia, impegnano in maniera non irrilevante risorse umane ed economiche dell’amministrazione finanziaria che, invece, potrebbero essere dirottate ad altro e destinate, magari, a una efficace e più concreta lotta all’evasione.

“Siamo arrivati davanti a una decisione politica rilevante, per la quale il governo, mentre sta avviando la discussione, con il disegno di legge delega appena varato, di una ampia e organica riforma fiscale, deve porsi obiettivi chiari e precisi”, osservano gli analisti del Centro studi di Unimpresa, secondo i quali “occorre una scelta di campo netta e definitiva che consentirebbe, di fatto, una volta varata la riforma, di far ripartire da zero il rapporto tra Stato e contribuente, in una chiave finalmente e definitivamente basata sui principi di correttezza e trasparenza”.

Saldare le cartelle fiscali – fa notare Unimpresa – è una difficoltà cronica sia per i cittadini sia per le imprese: tant’è che il 50% delle somme incassate ogni anno dall’amministrazione finanziaria, in relazione ai vecchi ruoli, è legato a piani di rateizzazione accordati ai contribuenti. E ancora: ogni anno circa 8 milioni di contribuenti ricevono cartelle di pagamento e di questi il 90% è “recidivo” ovvero risulta avere già iscrizioni a ruolo negli anni precedenti.

“Ciò dimostra che lo Stato, se volesse costruire un rapporto intelligente e costruttivo, dovrebbe valutare anche la situazione economica del soggetto destinatario, anche al fine di poter concretamente recuperare le somme derivanti dalle pretese tributarie”, osservano ancora gli esperti fiscali di Unimpresa.

Le difficoltà nel pagamento da parte dei contribuenti e gli ostacoli che lo Stato trova a incassare i ruoli sono ben rappresentati dal fatto che ogni anno vengono emesse e notificate circa 16 milioni di nuove cartelle fiscali e di queste solo il 20% viene regolarizzato immediatamente e un altro 25% viene estinto attraverso procedure di recupero o con le rateizzazioni, mentre il restante 55% viene poi recuperato negli anni successivi solo in minima parte.


Il 78% delle vecchie cartelle esattoriali è di importo inferiore ai mille euro

Ogni posto di lavoro creato con il reddito di cittadinanza è costato 52mila euro allo Stato

AGi –  Ogni posto di lavoro “creato” con il reddito di cittadinanza è costato allo Stato almeno 52 mila euro. Oltre il doppio di quanto spende annualmente un imprenditore privato per un operaio a tempo indeterminato full time che, mediamente, costa attorno ai 25 mila euro. E’ quanto emerge da un’analisi realizzata dall’Ufficio studi della Cgia secondo la quale dalla prima metà del 2019 – periodo in cui è entrato in vigore il RdC – fino alla fine di quest’anno, l’investimento dello Stato per questa misura ammonta a 19,6 miliardi.

Per la Cgia, a fronte di poco più di un milione di persone in difficoltà economica che, titolari del reddito di cittadinanza, hanno manifestato la disponibilità a recarsi in ufficio o in fabbrica, gli ultimi dati disponibili ci dicono che solo 152 mila hanno trovato un posto di lavoro grazie al sostegno dei navigator. Ipotizzando che i titolari del RdC lo abbiano ricevuto per almeno un anno prima di entrare nel mercato del lavoro, percependo così quasi 7 mila euro, l’associazione approssimativamente stima che l’Inps abbia sostenuto, per questi 152 mila nuovi occupati, una spesa di 7,9 miliardi di euro, pari a poco più di 52.000 euro se rapportata a ogni singolo neoassunto. Un costo che, afferma la Cgia, “appare eccessivo per un numero così limitato di persone entrate nel mercato del lavoro grazie al RdC”

Secondo la Cgia, “chi è in difficoltà economica va assolutamente aiutato, ma per combattere la disoccupazione il RdC ha dimostrato di non essere uno strumento efficace”. 
 

In 2,5 anni un investimento di 19,6 miliardi

Secondo le stime fornite dall’associazione, dalla prima metà del 2019 – periodo in cui è entrato in vigore il RdC – fino alla fine di quest’anno, l’investimento dello Stato per questa misura ammonta a 19,6 miliardi: 3,8 nel 2019, 7,2 nel 2020 e 8,6 miliardi per l’anno in corso. Per il 2022 è prevista una spesa di 7,7 miliardi. La Cgia sottolinea che per l’anno 2019 e 2020 le cifre si riferiscono a quelle effettivamente spese, mentre per gli anni successivi si fa riferimento alle risorse stanziate.

Solo un terzo ha avuto un’occupazione in passato

Secondo l’Anpal, ricorda ancora l’associazione, le persone che percepiscono il RdC sono difficilmente occupabili. L’Agenzia, infatti, stima che la probabilità di rimanere disoccupato a distanza di 12 mesi sfiora il 90 per cento. Ciò è ascrivibile al fatto che questa platea di soggetti ha una insufficiente esperienza lavorativa alle spalle. L’Inps, infatti, analizzando lo storico contributivo di queste persone nella classe di età tra i 18 e i 64 anni, segnala che solo un terzo ha avuto un’occupazione in passato. Pertanto, spesso ci troviamo di fronte a soggetti a forte rischio di esclusione sociale, ovvero in condizioni di povertà economica e di grave deprivazione materiale. Trovare un lavoro a queste persone, spiega la Cgia, “potrebbe addirittura costituire per loro un problema a causa del precario equilibrio psico-fisico in cui versano”.

Solo 152 mila hanno trovato stabilmente un lavoro

Secondo i dati dell’Inps, riferiti ad agosto 2021, le persone destinatarie del RdC erano 3,5 milioni, pari a poco meno di 1,5 milioni di nuclei famigliari. L’importo medio mensile erogato è di 579 euro. Tra questi 3,5 milioni di percettori del reddito, gli over 18 che hanno sottoscritto il Patto per il Lavoro (ovvero si sono resi disponibili a trovare un’occupazione), sono – secondo l’anpal – 1,15 milioni, mentre la Corte dei Conti sottolinea che coloro che hanno trovato un’occupazione stabile sono poco più di 152 mila.

Il 20% abita nelle province di Caserta e Napoli

I dati a livello provinciale, ricorda la Cgia, dicono che nelle province di Caserta (147.036) e di Napoli (555.646) si concentrano complessivamente quasi 703 mila beneficiari del RdC. Se questi ultimi vengono rapportati al numero totale presente in Italia (3.550.342), in queste 2 province campane si concentra il 20 per cento circa dei percettori totali di questa misura. Altrettanto significativo è il numero di RdC erogati dall’Inps nelle grandi aree metropolitane: a Roma sono 240.065,  a Palermo 212.544, a Catania 169.250, a Milano 122.873, a Torino 104.638 e a Bari 92.233.


Ogni posto di lavoro creato con il reddito di cittadinanza è costato 52mila euro allo Stato

La cassa integrazione è costata 1.234 euro a 7 milioni di lavoratori

AGI – Nelle tasche dei lavoratori dipendenti in cassa integrazione nel 2020 mancano 8,7 miliardi di euro, al netto dell’Irpef nazionale e delle addizionali regionali e comunali. 

È quanto emerge da un’analisi condotta dal servizio Lavoro, Coesione e Territorio della Uil che ha elaborato i dati Inps delle ore autorizzate di cassa integrazione salariale su cui sono state condotte le simulazioni. 

A fronte di circa 4,3 miliardi di ore di cassa integrazione autorizzate nell’anno 2020, i 7 milioni di beneficiari hanno perso, mediamente, 1.243 euro netti pro-capite annui.

Tra riduzione dello stipendio e mancati ratei di tredicesima e quattordicesima – spiega Ivana Veronese, segretaria confederale Uil – in due mesi le buste paga si sono alleggerite mediamente dal 9,6% al 39%, a seconda delle ore di cassa integrazione.

Secondo lo studio, va alla Lombardia il primato della maggior perdita delle retribuzioni nette, pari al 25,5% del totale nazionale (2,2 miliardi di euro), seguita dal Veneto dove i cassaintegrati perdono oltre 964 milioni di euro netti, dall’Emilia Romagna (840 milioni di euro netti) e dal Piemonte (745 milioni di euro netti).  

Dalla simulazione fatta dalla Uil emerge che un dipendente in cassa integrazione per tre mesi a zero ore (con un reddito lordo annuo 20.980), tra riduzione dello stipendio e mancati ratei di tredicesima e quattordicesima, perderebbe 1.611 euro netti annui; con sei mesi di cassa integrazione, lo stesso dipendente subirebbe una riduzione pari a 3.229 euro netti annui, mentre con nove mesi di cassa integrazione la riduzione ammonterebbe a 4.898 euro netti annui; infine, con dodici mesi la riduzione sarebbe pari a 6.611 euro annui.

“Nella riforma più complessiva degli ammortizzatori sociali – sottolinea Ivana Veronese – che si sta discutendo in questo momento, oltre che della necessità di velocizzare e semplificare le procedure, occorre tenere ben presente il tema della revisione dei tetti massimi del sussidio della cassa integrazione e della loro rivalutazione, fissati oggi per Legge, a 998,18 euro lordi mensili per retribuzioni inferiori o pari a 2.159,48 e a 1.199,72 per retribuzioni superiori a 2.159,48 euro”.

“Oltre all’innalzamento dei massimali – conclude Veronese – la rivalutazione dei sussidi dovrebbe essere ancorata agli aumenti contrattuali e non soltanto al tasso di inflazione annua che, come noto, negli ultimi anni ha registrato indici molto vicini allo zero”.


La cassa integrazione è costata 1.234 euro a 7 milioni di lavoratori

Auto: secondo Assoutenti con il Covid risparmiati 905 euro a famiglia

AGI – L’emergenza Covid e le misure che hanno introdotto i lockdown nel nostro paese hanno prodotto nel 2020 un risparmio sulla spesa per la gestione degli autoveicoli privati pari in media a 905,6 euro a famiglia. Lo afferma Assoutenti, associazione dei consumatori specializzata in trasporti, che ha realizzato un apposito studio sul tema.

“Il lockdown nazionale scattato a marzo e le successive misure introdotte a partire dal mese di novembre hanno influito in modo pesante sui consumi degli automobilisti italiani legati al comparto dei trasporti”, spiega il presidente di Assoutenti, Furio Truzzi, “Il divieto di spostamenti e i limiti alla circolazione imposti dalle misure anti-Covid si sono tradotti in un risparmio per le famiglie, sia in termini di carburante che sotto il profilo della gestione delle automobili private. C’è stato infatti un minor consumo di pneumatici, un ridotto numero di incidenti che hanno richiesto meno interventi di riparazione, un crollo della spesa per pedaggi e parchimetri, ed è diminuita anche la spesa per le revisioni”.

Analizzando i dati nel dettaglio, Assoutenti sottolinea come il risparmio maggiore si sia registrato nel comparto dei carburanti, con i consumi di benzina e gasolio che nel 2020 sono diminuiti di oltre 15 miliardi di euro, con una minore spesa annua di 588 euro a famiglia. Dimezzata la spesa per manutenzione e riparazioni auto, con una contrazione per complessivi 7,3 miliardi di euro e un risparmio di circa 282 euro annui a famiglia.

I limiti alla circolazione hanno abbattuto anche la spesa per pedaggi autostradali e parchimetri (-33 euro a famiglia), mentre quella per le revisioni è scesa di 2,6 euro a nucleo. “In totale ogni singola famiglia ha risparmiato mediamente 905,6 euro nel 2020 grazie al Covid, ma nel 2021 il trend è destinato a cambiare”, denuncia Furio Truzzi. “I listini dei carburanti alla pompa stanno registrando nelle ultime settimane forti incrementi, con la benzina che costa oggi l’8,3% in piu’ rispetto a maggio 2020, mentre il gasolio è rincarato del 7,6%”.


Auto: secondo Assoutenti con il Covid risparmiati 905 euro a famiglia

Auto: secondo Assoutenti con il Covid risparmiati 905 euro a famiglia

AGI – L’emergenza Covid e le misure che hanno introdotto i lockdown nel nostro paese hanno prodotto nel 2020 un risparmio sulla spesa per la gestione degli autoveicoli privati pari in media a 905,6 euro a famiglia. Lo afferma Assoutenti, associazione dei consumatori specializzata in trasporti, che ha realizzato un apposito studio sul tema.

“Il lockdown nazionale scattato a marzo e le successive misure introdotte a partire dal mese di novembre hanno influito in modo pesante sui consumi degli automobilisti italiani legati al comparto dei trasporti”, spiega il presidente di Assoutenti, Furio Truzzi, “Il divieto di spostamenti e i limiti alla circolazione imposti dalle misure anti-Covid si sono tradotti in un risparmio per le famiglie, sia in termini di carburante che sotto il profilo della gestione delle automobili private. C’è stato infatti un minor consumo di pneumatici, un ridotto numero di incidenti che hanno richiesto meno interventi di riparazione, un crollo della spesa per pedaggi e parchimetri, ed è diminuita anche la spesa per le revisioni”.

Analizzando i dati nel dettaglio, Assoutenti sottolinea come il risparmio maggiore si sia registrato nel comparto dei carburanti, con i consumi di benzina e gasolio che nel 2020 sono diminuiti di oltre 15 miliardi di euro, con una minore spesa annua di 588 euro a famiglia. Dimezzata la spesa per manutenzione e riparazioni auto, con una contrazione per complessivi 7,3 miliardi di euro e un risparmio di circa 282 euro annui a famiglia.

I limiti alla circolazione hanno abbattuto anche la spesa per pedaggi autostradali e parchimetri (-33 euro a famiglia), mentre quella per le revisioni è scesa di 2,6 euro a nucleo. “In totale ogni singola famiglia ha risparmiato mediamente 905,6 euro nel 2020 grazie al Covid, ma nel 2021 il trend è destinato a cambiare”, denuncia Furio Truzzi. “I listini dei carburanti alla pompa stanno registrando nelle ultime settimane forti incrementi, con la benzina che costa oggi l’8,3% in piu’ rispetto a maggio 2020, mentre il gasolio è rincarato del 7,6%”.


Auto: secondo Assoutenti con il Covid risparmiati 905 euro a famiglia

Con il ‘car sharing’ si risparmia fino a 935 euro l’anno. Lo dice uno studio dell’Aci

AGI – La paura del Covid spinge gli italiani verso un uso ancora più massiccio dell’automobile privata, che costa mediamente 3.926 euro l’anno tra acquisto, carburante, tasse e spese di esercizio. E senza alternative adeguate dal sistema di trasporto pubblico e dal car sharing, le famiglie vedono crescere la spesa per gli gli spostamenti: secondo la Fondazione Filippo Caracciolo di Aci, che ha presentato alla Luiss di Roma uno studio sulla mobilità condivisa nelle città italiane, ogni spostamento urbano costa mediamente 4,5 euro in scooter sharing, 7,2 euro con un’auto condivisa e 11,9 euro in taxi. Un esborso elevato se rapportato con quello del trasporto pubblico (bus/metropolitana), pari a 1,5 euro.

Lo studio è frutto di un lavoro di analisi, nel quale i ricercatori della Fondazione hanno effettuato svariati test sulle strade della Capitale. Oltre ai risultati raccolti sul campo, la ricerca contiene dati inediti forniti dagli operatori della mobilità condivisa o estratti dal Pubblico Registro Automobilistico, dalle risultanze delle scatole nere dei veicoli e dalle statistiche Aci-Istat sugli incidenti stradali.

La Fondazione Caracciolo evidenzia anche i costi indiretti delle inefficienze della mobilità che si ripercuotono sulle tasche delle famiglie: se taxi e scooter sharing sono i più rapidi per muoversi in città (velocità media per entrambi di circa 19 km/h), l’auto condivisa sconta una perdita di competitività nella ricerca di parcheggio, che può arrivare a superare il 30% del tempo complessivo di viaggio, mentre il mezzo pubblico è penalizzato da un’attesa media alla fermata di 20 minuti.

Confrontando i costi di spostamento tra chi si muove esclusivamente con l’auto propria e chi invece in forma plurimodale (autobus, con veicoli in sharing e a noleggio e taxi) la Fondazione Caracciolo evidenzia che l’automobile di proprietà risulta la soluzione meno cara solo per chi percorre più di 8.000 km ogni anno in ambito urbano ed extraurbano.

La convenienza dei sistemi di sharing puo’ cambiare considerevolmente in presenza di adeguate politiche pubbliche. In uno scenario futuro di promozione della mobilità sostenibile, a fronte della riduzione dei costi di car sharing di almeno il 15% (legata alla minore perdita di tempo per la disponibilità di parcheggi riservati) e all’abbattimento del 10% della durata delle corse in taxi (derivante da un aumento delle corsie preferenziali o dalla riduzione della congestione), le alternative all’auto privata risulterebbero più convenienti per una percorrenza complessiva annuale inferiore a 11.000 km annui.

Quantificando tali benefici, il ricorso alla mobilità condivisa farebbe risparmiare alle famiglie ogni anno tra i 390 e i 935 euro rispetto all’utilizzo dell’auto propria. “La convivenza fra i vecchi e nuovi abitanti delle strade – afferma Giuseppina Fusco, presidente della Fondazione Filippo Caracciolo e vice presidente dell’Automobile Club d’Italia – dovrà essere accompagnata da un’equilibrata regolamentazione da parte del legislatore nazionale e delle amministrazioni locali, chiamati oggi, più che mai, ad uno sforzo straordinario teso a ricreare le nuove basi della mobilità post Covid.

La capacità di rinnovare in chiave tecnologica il trasporto pubblico, rendendolo sempre più connesso e facendolo convivere in modo sinergico con soluzioni su misura di trasporto privato e in sharing, rappresenta la vera sfida per rendere le nostre città moderne metropoli, in grado di soddisfare esigenze di spostamento sempre più flessibili, con soluzioni che risultino al tempo stesso sostenibili, accessibili e sicure”.

Agi

Huawei lancerà uno smartphone da mille euro senza Android?

Nessun ritardo per la presentazione della nuova serie Huawei Mate 30, annunciata dal colosso di Shenzhen su Twitter il primo settembre. Sarà Monaco di Baviera, il 19 settembre, a ospitare l’evento di lancio del nuovo top di gamma cinese.

Non è però ancora chiaro se il sistema operativo Android sarà disponibile nel nuovo smartphone, a causa della scelta dell’amministrazione Trump – dello scorso maggio – di inserire Huawei nella ‘entity list’: l’elenco di aziende che per poter utilizzare prodotti americani (quindi tutti i software messi a punto da Google) solo dopo un’apposita autorizzazione del governo statunitense. I dubbi saranno sciolti solo nelle prossime settimane.

“Il caso Huawei Mate 30” dice Alessio Caprodossi, giornalista di tecnologia “ricorda quello dell’Honor 20. Anch’esso vittima del bando disposto dal governo Trump, al momento dell’evento di lancio – ritardato di diverse settimane – questo smartphone non è stato diffuso. Sbloccare questa situazione di stallo tra Usa e Cina è un passaggio obbligato. Questa querelle di lunga data, che incombe sulla testa dell’azienda cinese, non fa bene a nessuno”.

Ma perché Huawei si è ostinata a lanciare il suo top di gamma mentre il sistema operativo proprietario non è ancora veramente diffuso? “Rimandare l’operazione di lancio di settembre – osserva Alessio Jacona, freelance esperto nelle telecomunicazioni – sarebbe stato un segno di debolezza. Allo stesso tempo, diffondere un prodotto con una versione che non può beneficiare di Android, e quindi delle app di Google, Play Store, Google Maps può essere una scelta rischiosa”.

La futura serie Mate 30 sarà basata, molto probabilmente, sul nuovo processore Kirin 990 che Huawei dovrebbe annunciare a Berlino tra il 6 e l’11 settembre in occasione dell’IFA, la più importante fiera tecnologica al mondo.

Quando il nuovo smartphone uscirà nei mercati occidentali non è ancora noto. Huawei potrebbe concentrare inizialmente le vendite solo sul mercato cinese ed elaborare una strategia “internazionale” per prendere tempo e capire come commercializzare i nuovi dispositivi in assenza dei servizi e app Google. L’altra opzione sarebbe quella di utilizzare il proprio sistema operativo, HarmonyOS. Oppure, dal momento che Android è  una piattaforma open-source, la serie Mate 30 potrebbe utilizzare una versione senza licenza del sistema operativo americano. Tuttavia, senza i servizi Google integrati le vendite globali sarebbero compromesse.

“Huawei Mate 30 verrà lanciato a Monaco ma non sarà probabilmente distribuito subito sul mercato” dice Luca Annunziata, editor di StartupItalia “a mio avviso Huawei conta di ricevere in tempi brevi la licenza Android per questo telefono, e conta di iniziare la vendita molto presto con a bordo tutte le app Google. È solo una questione politica, basta una firma su un documento per ottenere la licenza da Google. Se poi la licenza non arrivasse, Huawei è la sola ad avere la forza sul mercato per proporre una alternativa concreta ad Android: ma non sarebbe una sfida facile”

Leggi anche: Perché Trump aveva cambiato idea su Huawei

La licenza temporanea che era stata concessa a Huawei a maggio, scaduta il 19 agosto e poi estesa per altri 90 giorni, si applica però solo ai prodotti esistenti. Quindi i nuovi modelli del marchio cinese – come la serie Huawei Mate 30 – potrebbero subire le conseguenze del blocco americano.  La nuova sospensione del bando, accordata fino al 19 novembre, non può coprire nuovi device, ma solo garantire aggiornamenti per quelli esistenti.

“I prodotti del colosso cinese già in circolazione”, aggiunge Antonio Monaco, di HdBlog, “Non hanno e probabilmente non avranno problemi nell’uso di Android per tutto il periodo dell’accordo (di 18 mesi) tra Google e Huawei, che è stretto al momento della certificazione della licenza del software americano”.

Tra i tanti punti interrogativi nella relazione Huawei-Android, pare che qualche certezza ci sia: “Si tratta di una questione puramente politica che ha poco a che vedere con le dinamiche tecnologiche” dice Andrea Andrei del Messaggero. “La Cina serve agli Usa per quanto riguarda le terre rare, senza i quali gli smartphone non esisterebbero. Dunque, soprattutto in ambito elettronico, queste due realtà non possono fare a meno l’una dell’altra. Rimane il fatto che lanciare un top di gamma, come Huawei Mate 30, con un software instabile o non rodato, commercialmente parlando, sarebbe un suicidio”.

Bisognerà attendere almeno metà settembre per avere qualche risposta sul futuro della relazione tra Huawei e Android. La partita, per ora, rimane aperta.

Agi