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Digitale: 11 milioni di italiani hanno attivato Spid

AGI – “Nel settembre 2019, le identità digitali attivate da Spid erano 4 milioni e 800 mila. Oggi, dopo un anno di lavoro e grazie ai cittadini, abbiamo superato gli 11 milioni“. Così su Twitter il Dipartimento per la trasformazione digitale. Un tweet rilanciato dalla ministra per l’Innovazione Paola Pisano.

 Il ministero per l’Innovazione inoltre ha lanciato un nuovo modo per ottenere l’identità digitale. Si chiama ‘audio-video’ e consente di attivare il Sistema pubblico di identità digitale direttamente dai siti dei gestori.

Con questa nuova modalità di riconoscimento il cittadino potrà attivare Spid da casa, in tre passaggi: primo dovrà registrarsi sul sito del gestore prescelto; poi realizzare col proprio smartphone o computer di un video in cui mostra il suo documento di riconoscimento italiano, menzionando nello stesso un codice fornito dal gestore; infine effettuare un bonifico simbolico – anche pochi centesimi – da un conto corrente intestato indicando nella causale il codice ricevuto. L’operatore verificherà nel giro di pochi giorni le informazioni ricevute dal cittadino per effettuare i controlli antifone, quindi rilascerà l’identità digitale.

 

Agi

Digitale e nuovi negozi: oltre che sui mattoncini Lego punta sul mattone

Si credevano invincibili e sono state spazzate via in pochi anni: Nokia, Kodak, Toys R Us. Poi c’è chi si è accorto che tenere la posizione non è un’opzione: o si cambia o si scompare. Lego, dopo la crisi del 2017, si sta ricostruendo cercando il giusto incastro tra mattoncini e digitale. Da un lato sta investendo su nuovi prodotti che non si toccano: film, e-commerce, videogiochi. Dall’altro sta espandendo la propria rete di negozi fisici, soprattutto (ma non solo) in Cina e India.

Dalla crisi all’espansione

Il 2017 è stato un anno pessimo, il primo con fatturato in calo dopo 13 anni. Vendite giù del 7%, utili del 17%. La crescita in Cina non era riuscita a bilanciare il calo in Nord America ed Europa. Un anno nero, culminato con 1400 licenziamenti e descritto in modo perentorio anche nelle solitamente misurate comunicazioni istituzionali: “Nel complesso, non siamo soddisfatti dei risultati”, si legge sul rapporto annuale di Lego. La società intravedeva però buoni segnali che facevano ben sperare per il 2018.

Segnali che sarebbero poi stati confermati: alla fine dello scorso anno, fatturato e risultato netto sono tornati a crescere. Non ancora tanto da recuperare tutto il terreno perso, ma abbastanza per far sorridere il ceo Niels B. Christiansen: “Il 2018 – scriveva nella lettera che accompagnava il rapporto – è stato un anno determinante per l’industria dei giocattoli”. La rivoluzione nei canali di vendita e la digitalizzazione stanno “ridisegnato il panorama, portando cambiamenti senza precedenti. Sono lieto di affermare che, anche di fronte a queste sfide, il gruppo Lego ha stabilizzato il proprio business”.

Tradotto: ci siamo, anche se il mercato dei giocattoli tradizionali fatica. Il 2018, infatti, non è stato un anno come gli altri: è stato il primo senza Toys R Us. L’ex paradiso dei bambini, finito in bancarotta, ha condizionato l’annata dei grandi produttori. Senza un canale di vendita così importante, il fatturato di Hasbro è calato del 12% e l’utile netto del 45% (ma il gruppo ha avuto un recupero consistente nel primo semestre 2019). Mattel ha chiuso il 2018 con una perdita netta di 530 milioni e vendite ridotte del 7,2% (ed è in rosso anche quest’anno).

Se Lego gioca a Risiko

Il 2019 di Lego è iniziato come si era chiuso il 2018: il fatturato del primo semestre è cresciuto del 4%, anche se i profitti operativi sono calati del 16% e l’utile del 12%. Segni meno che hanno però tutt’altro sapore rispetto a quelli del 2017: sono dovuti – si legge in una nota di Lego – alla decisione di intensificare gli investimenti in iniziative che creino i presupposti per una crescita di lungo periodo”.

Non meno incassi ma più mattoni per il futuro. Mattoni in senso letterale, non solo perché sono il prodotto principale di Lego, ma anche perché il marchio sta ripartendo da negozi fatti di casse e muri. Una raffica di nuove aperture porterà in Cina 140 negozi in 35 città entro il 2019. E ci saranno altre 70 inaugurazioni nel resto del mondo. All’inizio del 2020 aprirà anche la sede di Mumbai: sarà l’avamposto per ampliare la presenza in India.

Ormai da tempo, Lego non è più solo mattoncini. Ha prodotto film, vende videogiochi e abbigliamento, ha parchi tematici (sono appena iniziati, a Gardaland, i lavori per costruire il primo acquatico d’Europa) e associa i suoi omini gialli a grandi marchi che vengono dal mondo della carta (come Batman e gli eroi Marvel) e del cinema (Star Wars). Ma anche dal digitale (come Minecraft), che non è più il nemico da combattere ma un universo da sfruttare. “Stiamo investendo – ha dichiarato il ceo Christiansen – per cogliere le opportunità create da megatrend come la digitalizzazione e i cambiamenti demografici ed economici globali che stanno rimodellando il settore”.

Quindi nuove prodotti in cui dialogano virtuale e analogico, punti vendita in Cina e India (dove la popolazione aumenta e la nuova classe media spingerà i consumi), un e-commerce più efficace. Il margine per avanzare non è enorme ma c’è: secondo un’analisi di MarketResearch, tra il 2017 e il 2023, il mercato globale dei giocattoli crescerà a un tasso medio del 4%, raggiungendo così i 120 miliardi di dollari.

La minaccia non è il digitale

I numeri dicono molto, ma i movimenti del gruppo danese sono spiegati ancor più chiaramente in un documento non finanziario, il Lego Play Well Report 2018: “Come mai nella storia moderna, il tempo del gioco è in pericolo”. La minaccia però non è il digitale che ruba ai mattoncini per dare alle app: “Tutt’altro”, si legge nel rapporto. “Ispirati dallo sfumarsi dei confini tra il mondo digitale e quello fisico, i bambini di oggi fondono ciò che è reale e ciò che è virtuale, reinventando il gioco in modi che le generazioni precedenti non avrebbe mai immaginato”. Il problema è un altro: “Le difficoltà arrivano perché il tempo, lo spazio e il permesso concessi ai bambini per giocare sono costantemente sotto pressione. Nelle nostre frenetiche vite moderne – si legge nel Play Well Report – le famiglie spesso pianificano ‘l’appuntamento del gioco’ piuttosto che inventarlo sul momento”. Lego deve reinventarsi, legando mattoncini e digitale. Deve fare a spallate con i concorrenti. Ma, ancora di più, deve sfidare le abitudini che cambiano. Mattoncino dopo mattoncino.

Agi

Il salto triplo dell’Africa tra innovazione digitale, svolta “green” e cooperazione

A Nairobi in Kenya nascono nuovi quartieri adibiti (come l’hub di Konza Technopolis) a ospitare startup, servizi digitali per la gestione della connessione a banda larga e nuovi modelli per un approccio più ampio e diffuso delle fonti rinnovabili. È la Silicon Savannah, il fiorente panorama tecnologico del Kenya. Se ne discute alla Summer School “Energy Management e Digital Innovation per lo Sviluppo Sostenibile in Africa Subsahariana” organizzata dalla Fondazione Eni Enrico Mattei (FEEM) insieme al Politecnico di Bari, che prenderà il via il prossimo 24 giugno proprio nel capoluogo pugliese.

Il programma prevede interventi di docenti tra cui Giulio Sapelli, Veronica Ronchi, e Manfred Hafner di FEEM; Mario Citelli e Vito Albino del Politecnico di Bari, Mario Giro dell’Università per Stranieri di Perugia. A loro si affiancheranno anche due tra le principali protagoniste di questa rivoluzione digitale e rinnovabile: Funké Michaels dell’Università di Nairobi e Ruth Ndegwa del Kenya Climate Innovation Centre.

Giovane, istruita e sana: benvenuti nell’Africa Sub-Sahariana

I ricercatori della Fondazione Eni Enrico Mattei ci spiegano che l’Africa Sub-Sahariana è in una posizione unica per trarre vantaggio dall’economia digitale: è giovane (il cosiddetto ‘dividendo demografico’ contribuisce all’incremento del PIL); meglio educata che in passato (l’alfabetizzazione è quasi ovunque al 70%); più ricca (il tasso di povertà estrema è calato dal 56 al 35 percento dal 1990); e vi è un rischio minore di contrarre Aids e malaria (tra il 2000 ed il 2012 la mortalità per malaria è calata del 50%). Un terzo della popolazione è in possesso di un telefono cellulare, i sistemi di moneta elettronica (e-mobile systems) sono in rapida espansione (si veda il successo di M-Pesa in Kenya), e una rete di start-up ispirato alla Silicon Valley si sta velocemente sviluppando, con 200 centri d’innovazione già esistenti e finanziamenti in crescita letteralmente esponenziale”.

Questo slancio di innovazione è trainato dalla tecnologia, che attira investimenti da ogni parte del mondo. Per rendersi conto dell’attenzione che c’è verso questa regione, basta vedere il programma della Nairobi Innovation Week che è in programma per la prima metà di giugno. Tra gli ospiti dell’evento, investitori internazionali e manager delle principali compagnie mondiali di smartphone e di servizi digitali. Anche giganti come Google hanno voluto contribuire alla crescita digitale del Kenya con un programma molto particolare: mandare in volo palloni aerostatici fino a 20 km di altezza per diffondere il segnale Internet anche nelle aree più remote del paese.

Il Kenya è capofila nell’innovazione digitale in Africa

“In questi ultimi 5-10 anni – spiega Mario Citelli, che è uno dei coordinatori della Summer School organizzata dalla Fondazione Eni Enrico Mattei – il Kenya ha conosciuto un vero e proprio boom dei dati sulla penetrazione delle infrastrutture di rete che è stato favorito proprio dalle condizioni preesistenti di grande arretratezza”. Due i fattori chiave: una rete prevalentemente aerea e una scarsa penetrazione sul territorio con indici tra i più bassi al mondo. “Non si è dovuto praticamente scavare per implementare le nuove reti e in più la diffusione del mobile ha fatto il resto”, aggiunge Citelli.

I dati, presentati dalla Communications Authority of Kenya parlano di un tasso di penetrazione in costante crescita che ha ormai raggiunto l’88,1% della popolazione. Sono questi i numeri che hanno sostenuto e sostengono progetti come la Silicon Savannah, il distretto tecnologico realizzato nel distretto di Kanza a una sessantina di chilometri da Nairobi sulla strada per Mombasa, principale porto commerciale del paese. Le ricadute, per tutta l’area Sub-Sahariana di questo nuovo ecosistema economico sono davvero tante e non riguardano solo il Kenya.

Funkè Michaels nel corso di una Lecture promossa dalla Fondazione Eni Enrico Mattei  a giugno 2018, ha spiegato: “Quando Calestous Juma, professore dell’Università di Harvard, parlò delle ricadute positive dell’innovazione tecnologica sulla geografia africana, pensava alla Kenyan Tech Valley e al suo impatto sul mercato nigeriano. Riuscì a prevedere quello che fino a poco tempo prima era considerato un evento improbabile: il sodalizio tra le app e i sistemi sviluppati dai kenyoti e il fiuto nigeriano per gli affari. Nelle imprese indigene come la Cellulant (Kenya e Nigeria), il progetto per la diffusione dei fertilizzanti ha permesso a un numero maggiore di contadini di accedere alle sovvenzioni per questi prodotti, incrementando la produttività agricola dei rispettivi Paesi. Adesso gli agricoltori sanno che è possibile definire dei calendari digitali per la semina e accedere ai sussidi per i fertilizzanti. Ora ci si deve assicurare che i progressi fatti siano mantenuti. Attraverso le piattaforme di cross-learning e le opportunità di partenariati regionali, l’Africa si sta rapidamente preparando a sfruttare queste opportunità di formazione”.

Modelli errati sono quelli europei e del mondo occidentale

Nel corso della Summer School, Funkè Michaels, esperta di temi legati allo sviluppo, parlerà più nello specifico proprio di come le nuove tecnologie digitali stiano favorendo cambiamenti sostanziali nelle società africane. “La digitalizzazione non ha raggiunto le comunità rurali africane allo stesso tempo e con la stessa velocità e risultati. Per questo non possiamo basare la nostra osservazione solo sulle cifre perché la nostra popolazione non ha le stesse abitudini degli utenti come in Europa, per esempio. Non solo anche le statistiche ci dicono poco se pensiamo al fatto che molto spesso un singolo smartphone o un laptop possono essere usati da diversi utenti anche commerciali. In questo contesto diventa difficile basare l’incidenza e la distribuzione esclusivamente sui numeri. Tuttavia le storie di successo sono molte: la Mpesa del Kenya è conosciuta in tutto il mondo; e la digitalizzazione agricola della Nigeria ha portato a un database di agricoltori rurali che aiuta nella diffusione di informazioni e input agricoli come fertilizzanti. In Tanzania gli abitanti delle zone rurali stanno imparando a proteggere l’ambiente e a salvare gli alberi utilizzando le informazioni agricole fornite digitalmente per aumentare la produzione e la resa per metro. Sta succedendo in tutta l’Africa: la facilità di comunicazione e la disponibilità di informazioni continueranno ad essere un catalizzatore per l’innovazione e la crescita”.

È però in Kenya che questa rivoluzione sta assumendo forme e strutture più solide, anche grazie a una attenta e costante azione di sostegno da parte del governo locale e di investitori privati, anche stranieri. “Il Kenya è un laboratorio, ma lo è tutta l’Africa, dove si sperimentano nuove forme di organizzazione del territorio, dell’economia, della società; con processi accelerati visto che l’evoluzione post-coloniale non ha ancora creato significative e consistenti strutture intermedie sul modello occidentale. Quelle già presenti mantengono un alto grado di flessibilità, favorendo il cambiamento, anche con la formazione in molti casi di comunità funzionali che cercano di utilizzare positivamente nuovi e vecchi strumenti a loro disposizione”, dice ancora Mario Citelli. Questo processo spiega anche il successo e l’ampia diffusione dei nuovi strumenti digitali, come per esempio, M-Pesa, un sistema di pagamento in cui M sta per mobile, pesa per danaro in swahili, strumento per la circolazione di denaro, pagamenti e prestiti, attraverso telefono mobile e smartphone, che si appoggia a una rete di telecomunicazioni mobili.

“L’applicazione M-pesa – racconta Citelli – è il risultato di un’attività condotta da un ente di ricerca e sviluppo britannico, il Department for International Developmant (DFID), che nel 2002 registrò la diffusione informale del telefono in Africa orientale per anticipare e sostenere pagamenti. Nel 2005 viene affidata a Vodafone, attraverso la sua consociata Keniana Safaricom, la realizzazione di un’esperienza pilota, sfruttando un software realizzato da uno studente della Moi University, keniano. Nel 2007 l’applicazione viene lanciata come strumento di pagamento diffuso, con una gestione tecnica delegata a IBM e successivamente a Huawei. Negli anni successivi il servizio è lanciato anche in altri Paesi: Tanzania, Afghanistan, India, Romania e Albania. In Kenya il servizio è ora utilizzato da circa 22 milioni di persone (su 48 milioni di abitanti del Paese), a cui va aggiunta un’altra percentuale di persone che si avvale di servizi simili, avviati da altre compagnie telefoniche, competitor di Vodafone/Safaricom. Servizio che permette di depositare e ritirare denaro, trasferirlo tra utenti, pagare bollette e fatture; regolamentato per quanto riguarda l’identità degli utilizzatori, ma assolutamente al di fuori del sistema bancario. Nel 2008 un gruppo di banche operanti in Kenya tentò, attraverso azioni di lobbing, di fermare l’evoluzione del servizio, senza successo”.

Innovazione fondamentale per lo sviluppo di agricoltura ed energy mix

Un aspetto su cui le innovazioni digitali potranno fornire un ulteriore contributo è quello critico dell’accesso all’energia, soprattutto quella rinnovabile, uno dei cardini dell’Agenda per la Sostenibilità delle nazioni Unite e anche uno dei temi della Summer School organizzata dalla Fondazione Eni Enrico Mattei. I ricercatori della Fondazione spiegano che per sostenere queste nuove dinamiche, la regione sta registrando un cospicuo aumento di investimenti nell’energia pulita e proseguendo su questa strada potrebbe emanciparsi dalla sua dipendenza energetica, che da sempre costituisce uno dei principali ostacoli al suo sviluppo. Il futuro energetico dell’Africa passa inevitabilmente per le fonti rinnovabili. Meno del 25% delle abitazioni dell’Africa Sub-sahariana ha oggi accesso all’elettricità, appena il 10 per cento nelle aree rurali. Come risposta, i governi cercano una soluzione nelle energie rinnovabili, fissando obiettivi sempre più ambiziosi e investendo in tecnologie solari, eoliche e geotermiche. Secondo l’Agenzia internazionale delle energie rinnovabili (Irena), la quota di energia da rinnovabili in Africa potrà passare, in media, dal 17 del 2009 al 50% nel 2030.

Un esempio di come le tecnologie digitali possono sostenere la crescita e la migliore e più efficace distribuzione dell’energia è il progetto realizzato da Giacomo Falchetta, ricercatore FEEM che collabora al Future Energy Program coordinato da Manfred Hafner, che ha sviluppato un progetto, basato su Google Earth Engine, che incrocia dati satellitari, geografici e demografici per mostrare come si è diffusa l’elettrificazione in Africa Subsahariana dal 2014 a oggi. Questo dataset può essere utilizzato in molti ambiti: per esempio verificare quali sono i modi più efficienti per portare l’accesso all’elettricità oppure capire meglio come indirizzare gli investimenti per lo sviluppo o tenere traccia del SDG 7 Agenda 2030, per potenziali usi futuri concreti.

Il problema, infatti, non è verificare se il Sudafrica ha un tasso di accesso all’energia intorno all’85-90% e che il Malawi si attesta intorno al 25, perché questi dati sono molto semplici da reperire anche in modo tradizionale. Una domanda invece a cui è molto difficile rispondere è che a fronte dell’85% di persone che in Sudafrica hanno accesso all’energia ce n’è un 15% che non ce l’ha: questo dato riguarda diversi milioni di persone. Ma dove sono queste persone? Grazie alla mappatura è possibile avere un’idea più precisa in merito.

Agi

Nell’era del capitalismo digitale ci vuole un’economia civile, dice Zamagni

Marx è stato superato dalla Storia, ma anche il capitalismo ha vissuto momenti migliori. È ora di trasformare, non di riformare. A dirlo in questa intervista all’AGI Stefano Zamagni, l’economista dell’Università di Bologna che ha affiancato Benedetto XVI nel redigere il testo della Caritas in Veritate. A marzo Papa Francesco lo ha nominato presidente della Pontificia Accademia delle Scienze

Professore, che succede? Il capitalismo sembrava una macchina destinata a durare in eterno, invece per qualcuno sta esalando l’ultimo respiro.

“No, il capitalismo non sta morendo. A differenza di altri sistemi può modificare le sue caratteristiche nel tempo. Dura dal XVII secolo, ed è passato in questo tempo dal capitalismo commerciale a quello agricolo e poi a quello industriale, mentre oggi abbiamo il capitalismo finanziario”.

Che è l’ultima.

“No! Dal 2001 è iniziata la sua fase digitale. Il problema è che ad ogni passaggio di fase si pensa che sia finita la Storia, oggi come in passato. Invece siamo già in una nuova fase iniziata da quasi un ventennio. Solo che a tutt’oggi ancora abbiamo capito poco delle caratteristiche di questa nuova forma di capitalismo, e delle sue conseguenze”.

Non può essere lasciato solo?

“La transizione digitale in corso tende al monopolio e all’oligopolio. Riflettiamo su un dato: il valore dell’economia immateriale adesso supera di gran lunga quello dell’economia materiale. Solo che le nostre società non sono arrivate in tempo a regolamentare la dimensione immateriale dell’economia, e questa è una cosa che ha il suo impatto sull’economia e la democrazia. Se si prendono cinque imprese come Google, Amazon, Facebook, Apple e Microsoft vediamo che insieme hanno una capitalizzazione di borsa maggiore del PIL del Portogallo. Di un intero Stato europeo. Ripeto: la questione non è solo economica e non può non avere conseguenze sulla democrazia”.

La Fine della Storia che in realtà è Fine delle Democrazie. Da Francis Fukuyama a Jean-Francois Revel.

“Guardi, tutto questo non è inevitabile. Il problema è che le classi politiche finora hanno dormito sonni tranquilli, ritenendo che il digitale fosse solo una questione di tecnologia. Invece è qualcosa di trasversale, che passa dalla pura tecnologia all’economia e alla politica. Qualcuno inizia a reagire: l’Ue ha varato il suo Codice Etico, la Camera dei Lord si è pronunciata. Ma siamo ancora agli inizi: gli Usa non si sono mossi, anche se certo lo faranno. L’Europa comunque al momento ha una posizione isolata, e questo è il cardine del problema”.

Ma se il modello economico liberista mostra tutte le sue rughe, non sarebbe il caso di tornare al Keynes che ci permise di uscire dalla crisi del ’29?

“In economia esistono due grandi paradigmi, più un terzo. Quest’ultimo, quello marxista, è stato abbandonato dopo la fine del sistema sovietico. Nemmeno la Cina lo vuole più. Gli altri due sono l’economia politica e l’economia civile. Il primo risale ad Adam Smith …”

… un po’ vecchiotto.

“Non vada di fretta, sennò sbaglia un’altra volta. Adam Smith è della fine del Settecento. Ma sappia che il modello dell’economia civile di mercato, che è tutto italiano, risale al 1753. In quell’anno l’Università Federico II di Napoli istituì prima al mondo – ripeto: prima al mondo – una cattedra di economia civile. Era la Napoli di Antonio Genovesi”.

E di Giovan Battista Vico. Siamo alla vigilia della Rivoluzione Francese.

“Poi ci arriviamo. Per il momento consideri solo che il modello dell’economia politica è divenuto egemone per via della prima Rivoluzione Industriale. Ora, tra l’economia politica e quella civile ci sono molti contatti, se non sovrapposizioni. Entrambi infatti sono per l’economia di mercato. Keynes rientra perfettamente nella prima, è inglese. Ma è una persona estremamente colta e intelligente, e capisce le aporie del mercato. Non conosce l’economia civile, sviluppatasi in un ambiente cattolico mentre lui è protestante, ma capisce che il mercato deve essere corretto e regolato. È uscito in questi giorni un libro, la riedizione degli scritti di Keynes a cura di Giorgio La Malfa: un libro importante e utile che ribadisce questo aspetto. Non dimentichiamoci, però, che il modello proposto da Keynes da solo oggi non è più in grado di affrontare le nuove sfide”.

Lei stesso, Professore, ha detto che comunque diversi punti di contatto ci sono.

“Anche casi in cui le due scuole si sovrappongono. Ma tenga in considerazione che fra noi e la crisi del ’29 ci sono la globalizzazione e la quarta Rivoluzione Industriale, quella dell’economia immateriale. Poi c’è un’altra differenza: l’economia politica si basa sull’assunto antropologico dell’homo oeconomicus e sulla metafora della mano invisibile del mercato che alla fine tutto riequilibra. L’economia civile parte invece dall’assunto antropologico dell’homo reciprocans e si appoggia sul principio di reciprocità oltre che su quello dello scambio”.

Chiaro, ma così siamo solo sul livello dei principi astratti.

“In concreto questo vuol dire che per l’economia classica l’importante è la massimizzazione del bene totale, del Pil. Per l’economia civile invece il fine è la realizzazione del bene comune. La prima considera l’economia un’attività che nulla ha a che vedere con l’etica e la politica, la seconda esige che tra le tre sfere ci sia un dialogo continuo.”

Per Keynes l’economia non era solo una questione di numeri.

“Appunto: l’economista non è un tecnico, e l’economia è una scienza morale. Eppure si sentono dire delle cose terribili, come sulla Tav. Tipo: l’analisi costi-benefici è una procedura di analisi neutrale. Ma come si può? Aggiungo che il paradigma dell’economia politica è insufficiente su un altro punto. Il modello di ordine sociale che privilegia si basa su due pilastri, lo Stato e il mercato. L’economia civile, invece, pensa a tre pilastri: Stato, mercato e comunità. In Keynes il mercato è governato dallo Stato, il che non basta. Ormai lo Stato non è più in grado di controllare un mercato divenuto globale”.

Ma se lo Stato è insufficiente, a chi ci si affida?

“Alla comunità, alla società civile organizzata che si regolamenta e reinventa la politica. Nel suo ambito la persona agisce e vede riconosciuta la sua capacità propositiva”.

Bene, sembra che lei abbia in mente qualcosa come il Terzo Settore

“Il punto non è quello di tutelare il Terzo Settore, ma di riconoscergli la sua specificità. La riforma del 2017 va in effetti in questa direzione, passando dal regime concessorio a quello del riconoscimento. Il Terzo Settore è il luogo della reciprocità. Il mercato è il luogo dello scambio e lo Stato il luogo del comando. La reciprocità, invece, è la traduzione nella pratica del principio di Fraternità”.

Ecco che c’entrava la Rivoluzione Francese …

“Mica solo quella. La Fraternità – la cui prima formulazione esplicita risale al francescanesimo –  è qualcosa di più profondo della solidarietà, concetto con il quale viene spesso confusa. Da parte loro i cattolici, nel loro complesso, sono per natura di cose portatori di una impostazione che va verso l’economia civile”. 

Quindi?

“Quindi non si può fare a meno del loro ruolo politico, del loro apporto. Il problema piuttosto è quello della forma di questo apporto. L’idea di un partito cattolico com’era la Dc è superata. Ma dire che dovrebbero disperdersi a mo’ di lievito nelle altre formazioni politiche è non capire i termini della questione. È la regola democratica: se in un partito rappresenti il 3 o il 5 percento sei irrilevante. Questo è il frutto, inevitabile, del frazionamento. Si deve creare non tanto una rete, che è piuttosto il metodo da seguire, quanto una convergenza su un progetto ben definito. Non in nome della fede, ma di un progetto che sia accettabile da parte di tutti, laici e non laici, di trasformazione della società. Bisogna trasformare, non riformare. Le riforme sono per i tempi ordinari; questi sono tempi straordinari. Ce lo ricorda sempre Francesco”.

Agi

Il digitale sta salvando i conti del New York Times, e potrebbe mantenere 1.300 giornalisti

Il New York Times digitale cresce e spinge i conti della società, che pure chiude il quarto trimestre del 2017 in perdita. I numeri del servizio di vendite di abbonamenti online (lanciato nel 2011), sono salite del 46% nel 2017 a 340 milioni di dollari, con 2,2 milioni di lettori, in aumento anche le vendite di annunci digitali del 14%. New York Times Company, l'editore, ha però registrato un rosso di 57,84 milioni di dollari contro gli utili per 37,63 milioni di dollari dello stesso periodo dell'anno precedente.

"Il 2017 è stato un anno segnato da crescita e innovazione sia sul fronte giornalistico sia su quello aziendale", ha dichiarato Mark Thompson, presidente e amministratore delegato della compagnia. "Abbiamo registrato la nostra migliore crescita dei ricavi, spinti dalle sottoscrizioni digitali, che sono aumentate di oltre 100 milioni di dollari anno dopo anno – ha aggiunto – un chiaro segnale del fatto che il nostro modello di business basato sull'abbonamento si sta dimostrando un modo efficace per sostenere le nostre grandi ambizioni giornalistiche".

Il Nyt, che ha compiuto 166 anni, nota il tech magazine Recode, sta crescendo come un colosso della Silicon Valley e cita i dati di crescita di Facebook (47%) e Google (30%). L'obiettivo per il quotidiano diretto da Dean Baquet è sviluppare un business digitale da 800 milioni di dollari entro il 2020. Obiettivo alla portata, se si considera che nel 2017 il fatturato online è aumentato del 30% e che la società ha registrato 607 milioni di vendite digitali totali per l'anno, circa 2,5 volte i numeri del 2011.

Ma un business interamente digitale da 800 milioni di dollari è in grado di sostenere una struttura che impegna 1.300 giornalisti, considerati i dati di vendita in calo dei giornali cartacei? Sì, se si elimina proprio il supporto cartaceo, secondo il media observer Felix Salmon, che, intervistato da Recode, mette in evidenza come i costi di un'operazione interamente digitale siano molto più bassi. 

Agi News

Lo stato del digitale in Italia: 5,5 miliardi di spese, risultati zero o quasi. Un’inchiesta

La trasformazione digitale della Pubblica amministrazione per ora non ci sarà. Mancano persone competenti, i progetti sono portati avanti con ritardi inaccettabili, spesso non vengono nemmeno finiti, e quelli portati a termine spesso non producono alcun beneficio ai cittadini.

È la fotografia emersa da un’indagine della Commissione parlamentare di inchiesta sul livello di digitalizzazione e innovazione della pubblica amministrazione e sugli investimenti nel settore delle tecnologie: 160 pagine da cui emerge una situazione si assoluta arretratezza dell’Italia digitale, fatta di ritardi, sprechi e disservizi che hanno come unica conseguenza lo “scarsissimo utilizzo dei servizi online da parte dei cittadini”, che mostrano un basso gradimento di quanto fatto finora. La Commissione era composta da 20 parlamentari, guidati dal presidente Paolo Coppola (Pd), e due vice: Federico D’Incà (M5S) e Mara Mucci (gruppo misto). A colloquio con Agi, Coppola spiega: "Hanno la testa nel secolo scorso. Chi ha potere decisionale non capisce il digitale. E ne ostacola l'applicazione". 

5.5miliardi di spesa, pochissimi risultati

“Dai lavori della Commissione non si può desumere che la spesa ICT sia eccessiva (5,5 miliardi calcolati, 85 euro per ogni cittadino, ndr), ma sicuramente emerge una scarsa capacità di controllo della qualità della spesa, soprattutto per quanto riguarda i sistemi informativi e l’impatto che dovrebbero produrre, sia in termini di risparmi, sia in termini di miglioramento della qualità dei servizi, che non viene quasi mai misurato”.

Non solo: “La mancanza di adeguate competenze interne impedisce alla PA di contrattare adeguatamente con i fornitori, di progettare correttamente le soluzioni necessarie, di scrivere bandi di gara che selezionino il prodotto o il servizio più adeguato e aperto a nuove implementazioni e, infine, di controllare efficacemente lo sviluppo e la realizzazione delle soluzioni informatiche”. Questo comporta che “si portano avanti i progetti, spesso con ritardi inaccettabili, ma anche quando sono conclusi sembra che non abbiano portato nessun miglioramento sostanziale e si passa quindi al progetto successivo, in un circolo vizioso”. Ma è solo una delle criticità emerse.

Le principali criticità emerse

Anagrafe digitale: ritardi ed errori 

“Il progetto dell’Anagrafe nazionale della popolazione residente ha sofferto problemi di scarse competenze tecnologiche lato ministero dell’Interno e manageriali lato sia ministero sia Sogei (la controllata dell’Economia che si occupa dei servizi informatici della pubblica amministrazione, ndr)”. A fronte di una spesa consistente: “23 milioni di euro stanziati non sono stati sufficienti a portare a compimento il progetto a causa di ritardi anche nella definizione dei decreti attuativi, errori nella perimetrazione dettata dalla legge inizialmente troppo limitata all’anagrafe e non estesa allo stato civile, scarso coinvolgimento degli stakeholder nella fase di progetto e realizzazione”.

Il caso dell’anagrafe è quello che ha portato la Commissione ad evidenziare un’idea “coercitiva della digitalizzazione” che ha “sottovalutato la complessità del dominio portando a ritardi che hanno sicuramente comportato sprechi in quanto parte della cifra stanziata ha dovuto essere utilizzata per continuare a mantenere in esercizio per un tempo maggiore di quello preventivato il vecchio sistema”. Fino a quando tutto non è passato in mano al team digitale del Commissario straordinario Diego Piacentini che, si legge, “ha apportato le necessarie competenze manageriali”. 

Sistema informativo agricolo: un caso simbolo di scarsa competenza

Una delle inchieste che hanno maggiormente impegnato la commissione è stata quella della Sian, il Sistema informativo agricolo nazionale che assicura i servizi necessari alla gestione delle politiche comunitarie. “Rispetto al Sian le criticità maggiori emerse riguardano l’eccessivo sbilanciamento delle competenze tecnologiche presenti nei fornitori e quasi totalmente assenti nella parte pubblica con la conseguente sostanziale impossibilità di controllo di qualità e di adeguato dimensionamento della spesa”, si legge nella relazione della Commissione.

La scelta della pubblica amministrazione di affidare la gestione del servizio “ad un misto di pubblico e privato” ha portato “ad un sistema inefficace in cui la qualità del servizio non è sufficiente”. Oggetto di inchieste giornalistiche, per Sian è stato programmato un software la cui complessità “rende impossibile valutare se funzioni o meno”. Ma emergono comunque criticità come “duplicazione dei dati” e “problemi dell’interfaccia web tra cui l’apertura di centinaia di pop-up e log-in sumultanei”. Sian è “un esempio paradigmatico di una serie di errori nella gestione della spesa ICT”: la Commissione “si è trovata di fronte ad un caso in cui la carenza di competenze tecniche dal lato della committente pubblica ha portato l’amministrazione ad affidarsi completamente alle dipendenze del fornitore”. 

2 milioni di sprechi per 'oroscopi e servizi erotici'

Chiamate ai call center, oroscopi, giochi e servizi erotici sono una fonte di spreco per la pubblica amministrazione. I servizi Ict offerti, infatti, vengono utilizzati per servizi che caricano sullo Stato “spese aggiuntive”. La Commissione ha ottenuto da Tim una stima: gli sprechi ammontano a 8,3 milioni di euro. Monitorando queste spese tra aprile e giugno, la Commissione ha potuto accertare in cosa consistono. Tra le voci più consistenti c'è quella per i servizi di call center di compagnie telefoniche, banche e imprese di trasporti. Ma ci sono anche spese per “intrattenimento premium”, cioè “servizi interattivi” (spesso via sms) su notizie, oroscopi, giochi, informazione sportiva e servizi erotici per adulti. Spesa: 428 mila euro in tre mesi. 
 

L'intervista: "Corruzione e paura: perché i burocrati italiani non vogliono il digitale"
 

La relazione parla di servizi “inutili”: “Il quadro emerso certifica uno spreco di risorse pubbliche. Per evitare un tale spreco di denaro pubblico, sarebbe necessario ed opportuno prevedere, all’interno delle convenzioni con i gestori di telefonia, il blocco automatico dei servizi aggiuntivi descritti per i contratti con la Pubblica Amministrazione. Il fatto che le Pubbliche Amministrazioni non abbiano bloccato negli anni l’uso di questi servizi è una indicazione chiara della mancanza di controlli sugli addebiti in fattura”.

Errori innumerevoli nella banca dati dei contratti pubblici. È inutilizzabile

Da quanto emerge dall’inchiesta, il filone d’indagine sulla Banca Dati Contratti Pubblici dell’Anac, autorità nazionale anticorruzione, non ha potuto produrre alcun risultato. Il motivo è che sono stati immessi male, tanto da renderla inutile. “Le analisi delle tipologie di gara, della distribuzione dei fornitori, dei tempi medi di aggiudicazione, degli scostamenti tra bandito e aggiudicato, del numero di partecipanti, che potrebbero essere ottimi strumenti di controllo tesi a verificare l’esistenza di schemi corruttivi, non possono essere utilizzati.

Gli errori presenti nella banca dati sono innumerevoli” e dall’indagine emerge che “l’intero processo di acquisizione dei dati è estremamente inefficiente e inefficace”. Un esempio? “I dati vengono immessi più volte, in tempi diversi, senza un vero controllo in fase di inserimento, con il personale di Anac impiegato nel faticoso, quanto poco utile, compito di controllare a posteriori i dati e chiedere le correzioni o integrazioni necessarie, rendendo tutto il processo uno spreco di tempo, e quindi di denaro pubblico”. 

Altro che digitale, il pubblico è ancora il regno della carta

La digitalizzazione della PA viaggia “a due velocità”. Da una parte si assiste a un progresso dei servizi a contatto con i cittadini. Dall'altra c'è un grave ritardo nella gestione dei processi interni, ancora troppo dipendenti dalla carta. La relazione sottolinea alcuni elementi positivi: “I siti web delle amministrazioni tendono ad offrire contenuti sempre più uniformi e standardizzati”, c'è “impegno nel favorire gli open data”, e alcuni servizi come la fatturazione elettronica sono sempre più diffusi. Dietro le quinte, però, “le amministrazioni palesano gravi criticità, ritardi, resistenze ed inadempienze”, afferma la Commissione.

La PA “si affida ancora troppo alla carta”. Un esempio citato racconta più di mille numeri: due ministeri hanno risposto alle domande della Commissione sullo stato di digitalizzazione “facendo pervenire un documento cartaceo contenuto in una busta, trasportata e consegnata per mezzo di un motociclista”. Se dai ministeri si va nei comuni, la situazione è simile: l’86% prevede ancora dei procedimenti che hanno bisogno di timbri, firme e sigle a margine. E solo il 26% dei servizi è accessibile attraverso Spid. Ci sono quindi forti resistenze, nonostante l'80% dei municipi affermi che ha risparmiato grazie alla digitalizzazione.

Nalla Pa lavorano 32mila dipendenti sull'Ict, eppure servono competenze

Nonostante la Commissione di inchiesta parlamentare sulla digitalizzazione abbia evidenziato la mancanza di competenze nella PA, secondo le stime del Piano triennale dei costi per l’informatica nella Pubblica Amministrazione redatto dall’Agid sarebbero 32 mila i dipendenti pubblici che lavorano nel campo dell’ICT, ai quali si aggiungono altri 10 mila dipendenti delle società in house centrali e locali. Il piano stima anche l’esistenza di circa

  • 11.000 data center delle pubbliche amministrazioni,
  • 25 mila siti web e circa
  • 160 mila basi dati, sui quali si appoggiano oltre 200 mila applicazioni. 

Alla frammentazione si aggiunge un altro problema: “Dalla seduta della Commissione del 14 dicembre 2016 è emerso come si tenda ad esternalizzare molto, con la conseguenza di incrementare la difficoltà nell’effettuare investimenti mirati e necessari”. Un freno che cozza la spending review: “La razionalizzazione dei costi- afferma la Commissione – risulta molto più semplice quando si rielaborano i processi in chiave digitale”. 

67 audizioni, un terabyte di dati raccolti: "Servono profili adeguati"

Il lavoro di indagine è durato un anno: 67 audizioni tra istituzioni e società di consulenza e un terabyte di documenti analizzati che inchiodano la macchina statale, la cui maggiore criticità è quella di disporre di un personale inadeguato al compito di digitalizzare il Paese. Nel testo si legge che la Pa “non può più procrastinare un adeguamento delle competenze del personale dirigenziale” sia attraverso un “massiccio investimento in formazione, sia attraverso una ineludibile immissione di nuovo personale soprattutto a livelli apicali”.

Dunque, prima di tutto, nella pubblica amministrazione mancano le figure necessarie alla digitalizzazione del Paese. Eppure la normativa italiana prevedeva queste figure già dal 1993, e, andando ancora più indietro, nel 1981 il Cnel parlava dell’informatica come “strumento di riforma di una pubblica amministrazione che voglia essere moderna e produttiva”. Trentasei anni dopo, la nostra macchina burocratica manca ancora di queste figure. Ma cambiare il passo della digitalizzazione dell’Italia non passa soltanto dal fornire la PA di nuove figure, meglio formate. 

Le soluzioni: rafforzare l'Agid e cambiare mentalità

Una seconda indicazione riguarda “il rafforzamento dell’Agenzia per l’Italia digitale, sia dal punto di vista finanziario, sia da quello della dotazione organica” perché secondo la Commissione “non riesca a svolgere tutte le sue funzioni” rispetto alla “vigilanza e controllo sul rispetto delle norme del Codice dell’amministrazione digitale”. Ma molto passa anche da una revisione delle linee guida per la fornitura dei sistemi informativi “che preveda studi di fattibilità e progettazione prima della messa a bando della realizzazione, in modo da specificare meglio gli obiettivi di digitalizzazione e gli indicatori di risultato del progetto”. Un cambiamento culturale profondo, che passi dalla logica “al massimo ribasso sul costo” ad una logica di prodotto, “con opportune metriche di qualità”.

@arcangelorociola

 

Agi News

Digitale: Var Group racconterà 19 strategie di trasformazione delle imprese

Sei eventi per spiegare alle aziende italiane l’importanza della trasformazione digitale. È l’obiettivo del tour organizzato da Var Group e che toccherà sei città italiane. Sarà la ventunesima edizione dell’evento promosso dalla società, e racconterà 19 testimonianze di aziende che hanno sviluppato progetti di ‘Digital transformation’ attraverso video e dirette dalle aziende che racconteranno esempi possibili di digitalizzazione. Riguarderanno, fa sapere la società, i “temi di più urgente attualità”, come la sicurezza online delle aziende (Cybersecurity), l’industria 4.0, ma anche le nuove tecnologie in grado di migliorare la produttività delle imprese come ad esempio la collaboration nella realtà virtuale, i chatbot, la realtà aumentata, il riconoscimento facciale e le varie applicazioni che queste tecnologie hanno nel mondo del retail.

"Soluzioni calate nella realtà imprenditoriale italiana"

L’obiettivo, spiega l’azienda, è “presentare soluzioni calate nella realtà del nostro tessuto imprenditoriale”. E quindi XNova, un nuovo approccio metodologico pensato da Var Group per le aziende italiane, che permette di usare l’innovazione come leva per valorizzare i processi e cogliere tutte le opportunità che offre la trasformazione digitale, fornendo gli strumenti necessari e una visione globale per guidare e integrare le soluzioni più evolute a beneficio del business. Una chiave pragmatica per aggirare da un lato la complessità delle nuove tecnologia, dall’altro la conseguente diffidenza da parte delle aziende.

Le tappe del tour

Il tour di Var Group (qui tutte le informazioni) partirà da Firenze il 24 ottobre, per poi toccare Reggio Emilia il 26 ottobre, Milano il 7 novembre, Vicenza l’8 novembre, Roma il 14 novembre e Ancona il 16 novembre. Le aziende che racconteranno le loro esperienze nell’adozione del digitale nella produzione, tra le altre saranno  Crif, MM – Metropolitane Milanesi, ERG, Elica, BricoCenter,Parmalat, Gruppo Gabrielli, Olsa Informatica, Epta, Dime, Fabo, Fosber, IMR, Colorobbia Consulting, Hypertec, Kemon, TechnoAlpin, Frescobaldi, FaceShoes. 

Agi News

L’Italia è all’ultimo posto per l’uso di Internet a lavoro. E l’economia digitale non decolla 

Gli Stati dell'area Ocse hanno finalmente inserito fra le loro priorità le policy per guidare la trasformazione digitale, e l'Italia, anche se su molti aspetti rincorre le altre nazioni, ha le sue buone pratiche. Ma rimaniamo tra gli utlimi per l'utilizzo di Internet a lavoro e per percentuali di popolazione che in generale accedono alla rete. E scontiamo ancora i ritardi negli investimenti in infrastrutture, come la banda larga. Lo rivela il rapporto dell'organizzazione internazionale dei Paesi a economia di mercato nel Digital Economy Outlook 2017, dove l'Italia rimane ancora indietro rispetto ad alcune grandi questioni come la diffusione della banda larga e l'utilizzo del cloud computing, ma, si legge nel rapporto, il piano di super e iperammortamenti del governo per gli investimenti in digitale e innovazione (Industria 4.0) è tra le iniziative degli stati che consentono una più veloce digitalizzazione della produzione di beni e servizi.

Le direttrici di sviluppo dell'economia digitale

La trasformazione digitale, scrive l'Ocse, si sta sviluppando su due grandi pilastri: digitalizzazione e interconnessione. Le nostre comunicazioni, lo scambio di informazioni, foto, video, testi, sono già digitali, un cambiamento radicale e totale dal 2007 in poi, anno dell'introduzione nel mercato del primo smartphone. E questo avviene grazie ad infrastrutture che consentono al mondo intero di scambiarsi informazioni, e quindi dati. Un ecosistema che oggi, spiega l'Ocse, si sta sviluppando attraverso 4 nuove direttrici, importanti per comprendere dove andrà il mondo nei prossimi anni e muoversi per tempo, e che gli stati devono essere in grado di comprendere.

1) L'Internet delle cose, IoT, e il suo mondo di oggetti connessi, in grado di cambiare il proprio stato e le proprie funzioni grazie ad informazioni ricevute via internet

2) L'analisi dei Big data, ovvero la capacità algoritmica di raccogliere grandi quantità di informazioni e dati scambiati via Internet e processarle in modo veloce per ricavarne informazioni utili tanto per le aziende, quando per le istituzioni

3) L'intelligenza artificiale e l'apprendimento delle macchine, sempre più in grado di imparare dalle esperienze e declinare i propri comportamenti su sfide sempre più difficili, dalla produzione di beni e servizi alle guida autonoma dei veicoli fino agli algoritmi in grado di fare analisi e previsioni del comportamento dei titoli in borsa

4) La Blockchain, da molti considerata la nuova Internet, ovvero una struttura per lo scambio di informazioni e per la vendita di beni e servizi totalmente decentralizzata, retta da una rete di computer che garantiscono la correttezza degli scambi nella rete stessa. Queste trasformazioni, già in atto, richiedono pero' competenze adeguate. E la sfida più grande dei Paesi è formare i cittadini alle competenze digitali richieste nell'ICT (Information Technology), spiega il rapporto.

Solo 7 aziende su 10 hanno un sito internet, meno delle media

Il piano Industria 4.0 del ministero dello Sviluppo economico potrebbe essere la leva per far aumentare il numero di investimenti fatte dalle aziende italiane in innovazione. Le aziende italiane sono quelle tra i Paesi Ocse che meno hanno investito nel 2015 in ricerca e sviluppo in relazione al prodotto interno lordo. Meno dell'1%, percentuale che scende di molto, sotto lo 0,5% se si tiene conto degli investimenti fatti nel manifatturiero, in una classifica guidata da Israele (3,5%) e dalle principali nazioni europee: Germania (2%) e Francia (1,5%). 

L'Italia si posiziona bene nella classifica del numero di marchi registrati nelle tecnologie dell'Informazione (Ict) nel mercato europeo, subito dietro Germania, Francia e Regno Unito (Mf-Milano Finanza). La banda larga, spiega il rapporto, raggiunge il 100% delle grandi aziende di quasi tutte le nazioni Ocse, Italia compresa, percentuale che scende di circa 10 punti percentuali se si tiene conto delle piccole e medie imprese (meno di 250 addetti). Mentre l'Italia rimane sotto la media Ocse per il numero di imprese che hanno un sito web: la media dei Paesi è il 77%, percentuale che scende a il 70 per l'Italia, lontana dal 90% dei Paesi industrializzati. Che è decisamente a fondo classifica tra i Paesi industrializzati nell'utilizzo di internet: naviga in rete meno del 69% della popolazione contro la media Ocse dell'84%, con percentuali inferiori agli altri Paesi anche tra i più giovani (il 90% tra i 16-24enni contro il 96,5% Ocse) e un divario ancor più evidente nella fascia d'età più avanzata (42% tra i 55-74enni contro il 63% Ocse). Solo Messico, Turchia e Brasile hanno percentuali inferiori (Il Sole 24 Ore).

Ma Italia tra le nazioni al mondo con più Sim card dell'Internet of Things

L'Italia è tra le nazioni al mondo con che ha una maggiore distribuzione di schede sim utili alla diffusione della tecnologia Internet of Things. Il dato, che per certi versi sorprende, si rifesce alla distribuzione del Machine to Machine (M2M) Sim Card, ovvero le sim che consentono lo scambio dati e di comunicazioni tra macchine e software, il cuore delle soluzioni dell'Internet delle cose. L'Italia è tra le prime nazioni al mondo per distribuzione ogni 100 abitanti di queste carte, insieme a Svezia, Norvegia e Finlandia (Il Corriere della Sera)

L'Italia è poco al di sotto la media Ocse per l'uso del cloud computing nelle aziende: 20%, due punti percentuali in meno rispetto agli altri Paesi. Anche se c'è una forchetta piuttosto ampia tra le Pmi e le grandi imprese: una su due di quelle oltre il 250 impiegati usa soluzioni cloud. Percentuali simili anche per quanto riguarda l'uso di strumenti di analisi dei big data. Il freno maggiore nell'uso del cloud per le imprese italiane, spiega il rapporto, è dovuto per oltre il 40% delle imprese alle difficoltà nel cambiare il provider dei propri servizi internet. Circa il 20% delle imprese italiane ha denunciato problemi di sicurezza nei propri sistemi digitali, percentuale che sale al 35% se si considerano le imprese con oltre 250 impiegati.

Molti registrano attacchi informatici, ma molti vanno nel 'deep web'

Il 20% degli utenti italiani ha registrato problemi relativi ad attacchi informatici e, più in generale, problemi di sicurezza su internet. La percentuale arriva a 30 tra gli italiani con un livello di scolarizzazione superiore. L'Italia, d'altro canto, rimane con la Grecia, l'Ungheria e il Portogallo tra le nazioni dove i cittadini si sentono meno informati sui rischi della sicurezza informatica e sul cybercrime, carenza di informazione che li porta a non fidarsi troppo dei servizi molto diffusi nel resto dei paesi come l'home banking e l'ecommerce (Il Corriere della Sera).

Eppure, quasi come paradosso, l'Italia è tra i Paesi che più utilizzano il deep web insieme a Stati Uniti, Germania, Iran Francia Corea e Russia. Sono questi i paesi dove si fa più accesso alla rete Tor, un network che consente di navigare in anonimato in rete. Il Tor, acronimo che sta per The Onion Router, è un sistema di comunicazione anonima per internet, che consente agli utenti di navigare senza che i loro dati e i loro movimenti online siano tracciati.

L'uso di Internet tra la popolazione

Otto persone su 10 usano internet in media fra i 35 Paesi dell'area Ocse. Percentuale che scende di quasi 10 punti se guardiamo all'Italia, dove però circa il 90% dei cittadini sotto i 24 anni lo usa regolarmente, contro un 60% di popolazione tra i 55 e i 74 anni che non lo utilizza affatto.  Per quanto riguarda la popolazione più giovane, va detto che l'Italia è tra i pochissimi paesi a non raggiungere il 100% della distribuzione di Internet tra gli under 24. Solo un terzo della popolazione italiana invece usa soluzioni legate al cloud computing, mentre l'8% ha partecipato ad un corso online, a fronte di una media del 10%.

Su un dato siamo assoluto fanalino di coda. L'uso di Internet, in generale, per attività come mandare e ricevere email, o cercare informazioni e usare la rete per lavoro. Lo fa un norvegese su due, e un italiano su cinque. Gli italiani sono i lavoratori quindi che usano meno internet tra i Paesi sviluppati. Quasi la metà esatta della media Ocse, che è del 40% (Il Sole 24 Ore, Milano Finanza)

Agi News

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