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Così le nuove regole Ue cambiano i social e le piattaforme di ecommerce

AGI – Saranno vietati gli annunci mirati ai minori, così come quelli indirizzati agli utenti in base al loro sesso, all’etnia di appartenenza o all’orientamento sessuale. Saranno messe al bando le tecniche ingannevoli che le aziende usano per spingere le persone a fare cose che non avevano intenzione di fare, come la sottoscrizione facilitata di servizi difficili da rifiutare. Non solo. Per dimostrare che stanno facendo progressi nel limitare queste pratiche, le aziende tecnologiche dovranno effettuare valutazioni annuali del rischio delle loro piattaforme.

Le Big Tech dovranno anche disporre di personale adeguato per gestire la moderazione dei contenuti perché gli utenti avranno il diritto di presentare reclami nella propria lingua. Per contenuti si intende inserzioni commerciali ma anche post dei singoli utenti. E chi non rispetta le regole rischia sanzioni fino al 6% del fatturato globale o addirittura il divieto di operare nel mercato unico dell’UE in caso di ripetute gravi violazioni. 

Sono solo alcune delle conseguenze del Digital Services Act (o DSA), il disegno di legge dell’UE che impone alle Big Tech (molte delle sue disposizioni si applicano alle piattaforme che hanno più di 45 milioni di utenti nell’Unione Europea, piattaforme come Facebook, la controllata di Google YouTube, Twitter e TikTok raggiungerebbero tale soglia e sarebbero soggette ai nuovi obblighi) una maggiore responsabilità sui contenuti illegali o nocivi che circolano sulle loro piattaforme e include misure contro la disinformazione online: questo regolamento è stato pensato per combattere le fake news.

Prima mondiale in termini di regolamentazione digitale

“Questo regolamento – fa sapere la Commissione UE – unico nel suo genere, costringerà piattaforme come Facebook, YouTube o Twitter a moderare i contenuti che ospitano. La DSA è una prima mondiale in termini di regolamentazione digitale. Il testo consacra il principio che ciò che è illegale offline deve essere illegale anche online. Mira a proteggere lo spazio digitale dalla diffusione di contenuti illegali e a garantire la tutela dei diritti fondamentali degli utenti”.

In sintesi il testo vuole consacrare il principio che ciò che è illegale offline deve essere illegale anche online e mira a proteggere lo spazio digitale dalla diffusione di contenuti illegali e a garantire la tutela dei diritti fondamentali degli utenti. 

Che cosa succederà sui social

Stop ai dark patterns. In particolare, la proposta di legge sancisce che la pubblicità mirata basata sulla religione, l’orientamento sessuale o l’etnia di un individuo è vietata.

Anche i minori non possono essere oggetto di pubblicità mirata. Le interfacce utente confuse o ingannevoli (i cosiddetti dark patterns) progettate per guidare gli utenti a fare determinate scelte saranno vietate. L’Ue ha stabilito che annullare gli abbonamenti deve essere facile come registrarli.

Le grandi piattaforme online come Facebook dovranno poi rendere trasparente agli utenti il funzionamento dei loro algoritmi di raccomandazione (ad esempio utilizzati per ordinare i contenuti nel feed di notizie o suggerire programmi su Netflix).

Cambia la profilazione e il feed. Agli utenti deve anche essere offerto un sistema di raccomandazione “non basato sulla profilazione”. Nel caso di Instagram, ad esempio, ciò significherebbe un feed cronologico (come introdotto di recente). I servizi di hosting e le piattaforme online dovranno spiegare chiaramente perché hanno rimosso i contenuti illegali, oltre a dare agli utenti la possibilità di presentare ricorso contro tali rimozioni.

Contenuti illegali. Il nuovo regolamento prevede l’obbligo di rimuovere “prontamente” eventuali contenuti illegali o nocivi o che circolano sulle loro piattaforme (secondo le leggi nazionali ed europee) non appena una piattaforma ne viene a conoscenza. Costringe poi i social network a sospendere gli utenti che “spesso” violano la legge. 

Fornire i dati. Le grandi piattaforme online dovranno fornire dati chiave ai ricercatori per “fornire maggiori informazioni su come si evolvono i rischi online”. I mercati online devono conservare le informazioni di base sui commercianti sulla loro piattaforma per rintracciare le persone che vendono beni o servizi illegali. Le grandi piattaforme dovranno anche introdurre nuove strategie per affrontare la disinformazione durante le crisi.

Cosa cambia per l’ecommerce

Nel DSA è contenuto anche un importante aggiornamento sulla direttiva delle piattaforme di ecommerce, nata 20 anni fa quando le piattaforme giganti erano ancora allo stato embrionale. I siti di vendita online saranno obbligati a verificare l’identità dei loro fornitori prima di offrire i loro prodotti. I prodotti saranno verificati una volta all’anno da organismi indipendenti e posti sotto la supervisione della Commissione Europea. 

L’iter legislativo del Dsa

L’accordo politico sul Digital Services Act apre la strada alla sua adozione formale nelle prossime settimane e alla legge vera e propria che entrerà in vigore probabilmente entro la fine dell’anno. Anche se le regole non inizieranno ad applicarsi fino a 15 mesi dopo, quindi c’è un periodo di tempo abbastanza lungo per consentire alle aziende di adattarsi.

Perché il DSA cambia tutto

Finora i regolatori non avevano accesso ai meccanismi interni di Google, Facebook e di altre piattaforme, ma con la nuova legge le aziende dovranno essere trasparenti e fornire informazioni ai regolatori e ai ricercatori indipendenti sugli sforzi di moderazione dei contenuti.

Un esempio? Conoscere i dati di YouTube per sapere se il suo algoritmo ha indirizzato gli utenti verso la propaganda russa più del normale. Per far rispettare le nuove regole, la Commissione europea dovrebbe assumere circa 200 nuovi dipendenti, che saranno pagati dalle aziende tecnologiche attraverso una “tassa di vigilanza”, che potrebbe arrivare fino allo 0,1% del loro reddito netto globale annuale.

Le reazioni delle Big Tech

I giganti tech hanno fatto pressioni a Bruxelles per rendere innocue le nuove regole della Ue. Al momento Facebook e Twitter non hanno commentato. Google, invece, venerdì scorso ha dichiarato di non vedere l’ora di “lavorare con i politici per ottenere i dettagli tecnici rimanenti per garantire che la legge funzioni per tutti”. 

Va detto che, sempre venerdì, Twitter ha dichiarato che vieterà dal suo sito gli inserzionisti che negano il consenso scientifico sul cambiamento climatico. A novembre scorso Frances Haugen, la whistleblower di Facebook, sempre a proposito del DSA aveva detto che si trattava “di un’occasione storica che non poteva essere mancata”.

Il Digital Services Act (DSA) ha il potenziale per essere uno ‘standard globale’ e ispirare altri paesi a “perseguire nuove regole che salvaguardino le nostre democrazie” aveva sottolineato Haugen. Di “un grande momento per la politica tecnologica in tutto il mondo” ha parlato Jim Steyer, CEO di Common Sense Media con sede a San Francisco, un gruppo di difesa senza scopo di lucro per bambini e famiglie. 

Steyer ha detto che il DSA è “una pietra miliare nella lotta globale per proteggere i bambini e le famiglie dai danni di Internet da parte di queste piattaforme non regolamentate. I legislatori europei hanno fatto un grande passo avanti per rendere Internet più sicuro per bambini e adolescenti. I legislatori qui devono guardarsi allo specchio e agire rapidamente per proteggere i nostri figli e il nostro futuro democratico. Ora è il momento del Congresso e dell’amministrazione Biden”. 

L’ex presidente Barack Obama ha invitato le piattaforme tecnologiche a intensificare il freno alla disinformazione sulle loro piattaforme, criticando gli algoritmi opachi delle società e quelli che ha descritto come incentivi finanziari che incoraggiano la raccomandazione di contenuti estremi o provocatori sulle piattaforme.


Così le nuove regole Ue cambiano i social e le piattaforme di ecommerce

Perché pane, pasta e pizza sono diventati così cari negli ultimi giorni

AGI – Non solo metalli, gas e petrolio. Le tensioni innescate dal protrarsi della guerra in Ucraina impattano anche su alcune delle più importanti materie prime alimentari con un’offerta più limitata. Il conflitto solleva infatti problemi di approvvigionamento a lungo termine. Volano i prezzi del grano e dell’olio di palma. Rialzi anche per riso, zucchero e mais.

In particolare il grano tocca i massimi di 14 anni, al top da marzo 2008. I futures sul grano di Chicago sono saliti del 7,5% a 12,59 dollari per bushel. Da quando la Russia ha lanciato la campagna che chiama “operazione militare speciale” il 24 febbraio, i mercati delle materie prime sono aumentati.

Il mercato del grano è salito di oltre il 40% la scorsa settimana, il suo piu’ grande aumento settimanale. Il mais è salito del 2,7% a 7,75 dollari a bushel, la soia è salita del 2,1% a 16,95 dollari a bushel: entrambi sono ai massimi da settembre 2012. “Finché i combattimenti in Ucraina non finiscono, non ci si può aspettare che le esportazioni di grano e mais dall’Ucraina e dalla Russia riprendano”, ha detto un trader europeo che preferisce restare anonimo a Reuters.

La Russia e l’Ucraina forniscono anche l’80% delle esportazioni mondiali di olio di girasole, che compete con l’olio di soia. Balza anche l’olio di palma (+5,19%). I porti ucraini rimangono chiusi e i commercianti sono riluttanti a commerciare il grano russo dopo le sanzioni occidentali, cosi’ gli acquirenti stanno cercando fornitori alternativi. La domanda di esportazione di grano dell’Unione europea è aumentata la scorsa settimana e ci si aspetta che continui a crescere.


Perché pane, pasta e pizza sono diventati così cari negli ultimi giorni

Così i rincari di energia e materie prime stanno frenando la ripresa

AGI – L’inflazione in crescita, causata principalmente dai rincari di energia e materie prime, può mettere a rischio la risalita del Pil nel 2022. È l’allarme lanciato dai centri studi della Confindustria e di Confcommercio, che hanno presentato oggi le proprie analisi. A gennaio, rileva l’indagine rapida del Centro Studi di Confindustria, si registra un forte calo della produzione industriale (-1,3%), che segue la flessione dello 0,7% in dicembre. Con queste stime nel quarto trimestre del 2021 si registrerebbe un aumento di appena lo 0,5% sul terzo, con una variazione acquisita nel primo trimestre 2022 di -1,1%.

La contrazione, si afferma, è dovuta al caro-energia e al rincaro delle altre commodity che “comprimono i margini delle imprese e, in diversi casi, stanno rendendo non più conveniente produrre”. In particolare viene calcolato un aumento del 450% dell’elettricità a dicembre 2021 rispetto a gennaio dello stesso anno.

“A questo – sottolinea il Csc – si sommano le persistenti strozzature lungo le catene globali del valore. Tale dinamica mette a serio rischio il percorso di risalita del Pil avviato lo scorso anno”. “Il perdurante incremento dei prezzi delle commodity ha contribuito a erodere i margini delle imprese, penalizzando l’attività industriale. Secondo gli ultimi dati Pmi del settore manifatturiero, l’indicatore, pur confermando un quadro espansivo per il diciannovesimo mese consecutivo, registra un rallentamento a gennaio, dato peggiore in 12 mesi, a causa della persistenza di interruzioni sulle catene di approvvigionamento”.

“L’inversione di tendenza della dinamica dell’attività industriale è coerente con l’andamento dei principali indicatori congiunturali che negli ultimi mesi hanno segnalato un’attenuazione della favorevole performance economica. L’affievolirsi della fiducia delle imprese manifatturiere, in particolare il calo delle attese produttive – spiega il Csc – riflette principalmente l’acuirsi degli ostacoli alla produzione che, nel quarto trimestre, hanno penalizzato enormemente l’attività economica. La dinamica della produzione industriale – spiega il Csc – riflette le tensioni parzialmente emerse anche per i nostri partner (produzione tedesca scesa a novembre di -0,1%, quella francese -0,2% a dicembre. Sulla stessa lunghezza d’onda anche Confcommercio, che va verso una revisione delle stime del Pil del 2022 abbassandole al +3,5/3,7% rispetto al +4% previsto precedentemente. A pesare è la “differente previsione delle tensioni inflazionistiche – ha detto in un briefing con i giornalisti Mariano Bella, direttore Ufficio Studi Confcommercio – nelle prossime settimane noi faremo il nostro prossimo quadro e dovremmo essere intorno al 3,5 e 3,7%” per quanto riguarda il prodotto interno lordo nel 2022.

“Se le cose dovessero andare male vorrebbe dire che dopo gli impulsi pandemici e post pandemici dell’attivita’ economica si tornerebbe a una crescita di ‘zero virgola’ – aggiunge – non solo, ci torniamo con 30 punti di rapporto debito-Pil in più. Questa è una eredità che nessuna persona ragionevole vorrebbe lasciare e che certamente la next generation non vorrebbe accettare”. 


Così i rincari di energia e materie prime stanno frenando la ripresa

Il gas in Europa non è mai stato così caro

AGI – I prezzi del gas in Europa hanno toccato un nuovo massimo storico a causa del fatto che le spedizioni russe verso la Germania attraverso il gasdotto Yamal-Europe sono diminuite. 

Il benchmark Ttf dopo aver toccato oggi il record assoluto superando i 162 euro/MwH ha ora incrementato il rialzo toccando un nuovo massimo a 180,5 euro/Mwh in rialzo del 22%. Impennata anche anche per il benchmark britannico (+21,2%) a 4,5 sterline per therm

Secondo i dati dell’operatore di rete tedesco Gascade, i flussi dalla Russia verso il Vecchio Continente sono in calo da sabato e, dopo essersi fermati, oggi hanno invertito direzione.

Alcuni parlamentari europei ed analisti hanno accusato la Russia di aver trattenuto le consegne di gas all’Europa a causa delle tensioni politiche sull’Ucraina e per i ritardi nella certificazione del gasdotto, Nord Stream 2, pipeline da 10 miliardi di mc.

La Russia nega qualsiasi connessione. “Non c’è assolutamente alcun collegamento, questa è una situazione puramente commerciale”, ha chiarito oggi in una teleconferenza il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov.

L’Europa importa dalla Russia circa un terzo del proprio fabbisogno di metano. I tarder hanno affermato che i flussi inversi si aggiungono a una serie di fattori rialzisti come la forte domanda delle centrali elettriche, diverse centrali nucleari francesi chiuse, e le temperature piuù fredde che aumentano la domanda di gas per il riscaldamento.

Il prezzo del gas all’hub olandese ha raggiunto i 162,775 euro per megawattora in aumento di oltre il 10% rispetto a ieri. Anche il benchmark britannico ha toccato il nuovo record di 4 sterline per therm.

Entrambi gli indici hanno battuto i record di ottobre. Attualmente sono circa sette volte maggiori rispetto all’inizio del 2021. I prezzi del gas, insieme ad altre materie prime tra cui il petrolio greggio, stanno alimentando la preoccupazione per l’aumento dell’inflazione in tutto il mondo e hanno determinato l’intervento della Fed e della BoE.

Di solito Gazprom prenota capacità extra alle aste per la consegna via Ucraina in Germania attraverso la rotta Yamal quando ci sono richieste. Oggi non ha prenotato nuova capacità attraverso Yamal.

Il portavoce di Rwe, che insieme a Uniper è tra i principali acquirenti di gas di Gazprom in Germania, ha affermato che la compagnia statale russa sta rispettando i propri obblighi mentre Gascade ha spiegato che trasporta il metano in base alle richieste che arrivano. 


Il gas in Europa non è mai stato così caro

L’inflazione continua a correre, mai così alta dal 2012

AGI – L’inflazione a ottobre accelera per il quarto mese consecutivo (+3% su base annua), dopo la conferma a luglio del tasso di crescita dei prezzi al consumo di giugno e i primi cinque mesi di marcata ripresa, portandosi così da una variazione negativa registrata a dicembre 2020 a una crescita di un’ampiezza che non si registrava da settembre 2012 (quando fu pari a +3,2%). Lo sottolinea l’Istat nel commento ai dati sull’inflazione a ottobre. 

Nel mese di ottobre, si stima che l’indice nazionale dei prezzi al consumo per l’intera collettività, al lordo dei tabacchi, registri un aumento dello 0,7% su base mensile e del 3,0% su base annua (da +2,5% del mese precedente); la stima preliminare era +2,9%. Lo rileva l’Istat.

L’ulteriore accelerazione, su base tendenziale, dell’inflazione è in larga parte dovuta, anche nel mese di ottobre, ai prezzi dei beni energetici (da +20,2% di settembre a +24,9%) sia a quelli della componente regolamentata (da +34,3% a +42,3%) sia ai prezzi di quella non regolamentata (da +13,3% a +15,0%). Accelerano rispetto al mese di settembre, ma in misura minore, anche i prezzi dei servizi relativi ai trasporti (da +2,0% a +2,4%). 

I prezzi dei Beni alimentari, per la cura della casa e della persona +1% su base annua (+0,9% a settembre) #istat https://t.co/AUB7VrdRrc pic.twitter.com/TLWNss72Jb

— Istat (@istat_it) November 16, 2021

L’inflazione di fondo, al netto degli energetici e degli alimentari freschi, sale da +1,0% a +1,1%, mentre quella al netto dei soli beni energetici rimane stabile a +1,1%.

L’aumento congiunturale dell’indice generale è dovuto prevalentemente alla crescita dei prezzi dei beni energetici regolamentati (+17,0%) e solo in misura minore a quella dei prezzi degli Energetici non regolamentati (+1,0%) e degli alimentari non lavorati (+0,7%).

Diminuiscono, invece, per ragioni ascrivibili per lo più a fattori stagionali, i prezzi dei servizi relativi ai trasporti (-0,7%) e dei servizi ricreativi, culturali e per la cura della persona (-0,3%).

Prezzi al consumo: a ottobre inflazione al 3% dal 2,5% del mese precedente (stima preliminare 2,9%) #istat https://t.co/AUB7VrdRrc pic.twitter.com/sXDJrZMSkm

— Istat (@istat_it) November 16, 2021

Su base annua accelerano i prezzi dei beni (da +3,6% a +4,2%), mentre la crescita di quelli dei servizi è stabile (+1,3%); il differenziale inflazionistico tra questi ultimi e i prezzi dei beni rimane negativo (-2,9 punti percentuali), ampliandosi rispetto a quello registrato a settembre (-2,3).

L’indice armonizzato dei prezzi al consumo (IPCA) registra un aumento dello 0,9% su base mensile e del 3,2% su base annua (da +2,9% di settembre); la stima preliminare era +3,1%.

L’indice nazionale dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati (FOI), al netto dei tabacchi, registra un aumento dello 0,6% su base mensile e del 3,0% su base annua.

Corre carrello della spesa a ottobre, +1%

Corre il cosiddetto ‘carrello della spesa’ a ottobre. Lo rileva l’Istat spiegando che accelerano i prezzi dei Beni alimentari, per la cura della casa e della persona (da +0,9% a +1,0%) e quelli dei prodotti ad alta frequenza d’acquisto (da +2,6% a +3,1%).

Nel dettaglio, la crescita dei prezzi dei Beni alimentari è stabile a +1,0% (+0,3% rispetto a settembre) a causa dei prezzi degli Alimentari lavorati (+1,0% come nel mese precedente; -0,1% il congiunturale), mentre i prezzi degli Alimentari non lavorati rallentano (da +1,0% a +0,8%; +0,7% su base mensile) a causa dei prezzi dei Vegetali freschi o refrigerati diversi dalle patate (che invertono la tendenza da +3,9% a -0,3/%; +1,0% rispetto a settembre), mentre quelli della Frutta fresca e refrigerata continuano a flettere ma in misura meno ampia (da -2,4% a -1,0%; +2,1% il congiunturale).


L’inflazione continua a correre, mai così alta dal 2012

Corruzione e guerra civile, così il Libano è diventato un Paese fallito

Secondo molti analisti il Libano è un paese già fallito. Per altri manca molto poco al crack. Certo è che il paese sta subendo una grave e prolungata depressione economica. Secondo l’ultimo rapporto della Banca Mondiale, Bank Lebanon Economic Monitor (Lem), pubblicato a giugno, la crisi economica e finanziaria del Paese dei cedri è tra le peggiori di sempre nella storia, addirittura da metà del 1800. Per alcuni economisti quella libanese rientra nella top 10 dei default finanziari, per altri addirittura nella top 3. “Di fronte a sfide colossali, la persistente inazione politica e l’assenza di un governo pienamente funzionante, continuano ad aggravare condizioni socio-economiche già disastrose e una fragile pace sociale senza un chiaro punto di svolta all’orizzonte”, scrive l’istituto di Washington. 

Il titolo del rapporto della Banca Mondiale non promette nulla di buono: “Lebanon Sinking: To the Top 3”. La pubblicazione presenta i recenti sviluppi economici ed esamina le prospettive del paese con i rischi annessi. Per oltre un anno e mezzo, il Libano ha affrontato sfide differenti: la più grande crisi economica e finanziaria in tempo di pace, la pandemia da Covid-19 e l’esplosione del porto di Beirut, avvenuta il 4 agosto dell’anno scorso.

Come evidenziato dagli osservatori internazionali tutte le risposte politiche ed economiche della autorità libanesi a queste sfide sono state completamente inadeguate e fallimentari. Nel paese non si è mai arrivati a un consenso su iniziative politiche efficaci. L’unità di intenti, invece, si è trovata nella difesa strenua di un sistema economico fallimentare che continua a favorire pochi a danno della maggioranza. A peggiorare la situazione, una prolungata guerra civile che ha aggravato condizioni socio-economiche sempre più disastrose che rischiano di provocare fallimenti nazionali sistemici con effetti regionali e potenzialmente globali.

I numeri della banca Mondiale non lasciano scampo e tratteggiano uno scenario con moltissime ombre. L’istituto stima che nel 2020 il Pil si sia contratto del 20,3%, dopo un calo del 6,7% nel 2019. Di fatto, il Pil libanese è precipitato dai quasi 55 miliardi di dollari nel 2018 a circa 33 miliardi di dollari nel 2020, mentre il prodotto pro capite è sceso di circa il 40%. Una contrazione così forte, normalmente, è associata, spiega la Banca Mondiale, a conflitti o guerre. “Le condizioni monetarie e finanziarie rimangono altamente volatili; nel contesto di un sistema di tassi di cambio multipli”.

Il cambio medio si è deprezzato del 129% nel 2020. L’effetto sui prezzi si è tradotto in un’impennata dell’inflazione, con una media dell’84,3% nel 2020. Soggetto a un’incertezza eccezionalmente alta, si prevede che il Pil si contrarrà di un ulteriore 9,5% anche quest’anno.

Il Libano affronta un pericoloso esaurimento delle risorse, compreso il capitale umano, e la manodopera altamente qualificata è sempre più propensa a cogliere opportunità all’estero, creando una perdita sociale ed economica permanente per il paese”, ha detto Saroj Kumar Jha, direttore regionale del Mashreq della Banca Mondiale. “Solo un governo riformista, che intraprenda un percorso credibile di ripresa economica e finanziaria, e che lavori a stretto contatto con tutte le parti interessate, può invertire la rotta di un’ulteriore caduta e prevenire una maggiore frammentazione nazionale”.

Le condizioni del settore finanziario continuano a deteriorarsi. L’onere dell’aggiustamento in corso nel settore finanziario è altamente regressivo, concentrato sui depositanti più piccoli, sulla maggior parte della forza lavoro e sulle pmi.  Più della metà della popolazione è al di sotto della soglia di povertà nazionale, con la maggior parte della forza lavoro – pagata in lire – che soffre per il crollo del potere d’acquisto. Con il tasso di disoccupazione in aumento, una quota crescente di famiglie sta affrontando difficoltà di accesso ai servizi di base, compresa l’assistenza sanitaria in questo periodo più importante che mai.

L’istituto di Washington sottolinea anche l’impatto delle crisi su quattro servizi pubblici di base: elettricità, approvvigionamento idrico, servizi igienici e istruzione. La depressione ha ulteriormente minato i già deboli servizi pubblici attraverso due effetti: ha aumentato significativamente i tassi di povertà, con un numero maggiore di famiglie che non possono permettersi beni sostitutivi privati, diventando così più dipendenti dai servizi pubblici. Pone a forte rischio la sostenibilità finanziaria e l’operatività di base del settore, aumentandone i costi e riducendone le entrate.

La fornitura di servizi pubblici essenziali è fondamentale per il benessere dei cittadini. Il forte deterioramento dei servizi di base continuerà a creare implicazioni nel lungo termine: migrazione di massa, perdita di apprendimento, cattivi servizi sanitari, mancanza di reti di sicurezza adeguate. Il danno permanente al capitale umano, evidenzia la Banca Mondiale, sarebbe molto difficile da recuperare. E forse proprio questa dimensione della crisi libanese la rende unica rispetto ad altre

I motivi del crollo di un paese che un tempo era noto come la Svizzera del Medio Oriente sono molteplici. La corruzione ha reso impossibile, dopo la guerra civile durata dal 1975 al 1990, una ripresa forte anche perché la forza del paese era il capitale umano, ormai allo stremo, e i servizi. Alcuni economisti hanno parlato del sistema finanziario del Libano come di uno schema Ponzi regolato a livello nazionale, dove si prende in prestito nuovo denaro per pagare i creditori esistenti. Funziona fino a quando il denaro fresco non si esaurisce.

Dopo la guerra civile, il Libano ha provato a mettere a posto i conti pubblici, con il turismo, gli aiuti stranieri, l’industria finanziaria e la generosità degli stati arabi del Golfo, che hanno finanziato lo stato sostenendo le riserve della banca centrale di Beirut. Altra fonte affidabile di dollari erano le rimesse dei milioni di libanesi che andavano all’estero a lavorare. Anche durante il crollo finanziario globale del 2008, i flussi nelle banche libanesi sono proseguiti. Le rimesse hanno iniziato a rallentare a partire dal 2011, con il deterioramento politico dell’area e con la caduta nel caos della vicina Siria. Gli stati musulmani sunniti del Golfo si sono allontanati a causa della crescente influenza nel paese dell’Iran, attraverso Hezbollah, il gruppo sciita libanese armato il cui potere politico è cresciuto notevolmente.

Il deficit di bilancio è salito alle stelle e la bilancia dei pagamenti è sprofondata ancora di più. Questo fino al 2016, quando le banche hanno iniziato a offrire tassi di interesse più alti per i nuovi depositi in dollari, una valuta ufficialmente accettata nell’economia. Il tutto mentre in altre parti del mondo i tassi andavano verso lo zero. I dollari hanno ripreso a scorrere e le banche a finanziare la spesa sempre maggiore. Ma i tassi di interesse alti vanno pagati. E ora il conto è stato servito.


Corruzione e guerra civile, così il Libano è diventato un Paese fallito

Così il Covid ha aggravato i problemi strutturali del nostro Paese

AGI – Molti degli attuali problemi strutturali dell’Italia, “sono stati aggravati dalla crisi Covid-19”. È quanto si legge nel nel rapporto dell’Ocse ‘Going for Growth 2021’, nel quale si evidenzia che ora “la priorità fondamentale per la ripresa è migliorare l’efficacia della pubblica amministrazione“, specie per quanto riguarda la “governance degli investimenti pubblici e un migliore coordinamento e attuazione tra i diversi livelli di governo”, e anche per “un utilizzo efficace dei fondi disponibili dallo strumento europeo di ripresa e resilienza (Rrf) e per realizzare i vantaggi delle riforme strutturali”.

Nel suo rapporto l’Ocse mette in evidenza che in Italia molti problemi strutturali, che vanno ancora indirizzati, erano preesistenti alla crisi pandemica. Più nel dettaglio, l’Ocse ricorda che il Pil pro capite degli italiani è inferiore del 26% a quello dei 18 Paesi Ocse più ricchi e che la produttività nel nostro paese è inferiore del 17% rispetto ai migliori risultati dell’Ocse.

Per quanto invece riguarda il tasso di disoccupazione l’organizzazione di Parigi ricorda che esso “è basso ma stava lentamente aumentando prima della crisi del 2020” e che la “diseguaglianza è più alta che nelle altre economie avanzata“.

Secondo l’Ocse in Italia il 20% delle famiglie più povere guadagna il 6,6% del reddito totale. Sul fronte dell’ambiente l’Ocse segnala che il Italia i tre quarti della popolazione “è esposto a livelli dannosi di inquinamento”, anche se le emissioni di gas a effetto serra “sono scese negli ultimi anni”.

“La crisi rischia di aggravare i tassi di occupazione già bassi e di aumentare ulteriormente la disuguaglianza, in particolare nel contesto di scarse competenze e livelli di apprendimento permanente”.  

“Un’efficace fornitura di servizi di istruzione, impiego pubblico e attivazione del mercato del lavoro può aiutare a mitigare le discrepanze nelle competenze e nella ricerca di lavoro, in particolare per i giovani e altri lavoratori vulnerabili”.

“Ciò – aggiunge l’Ocse – richiede il superamento degli ostacoli al coordinamento tra vari livelli e agenzie di governo e la considerazione delle priorità di finanziamento. Allo stesso tempo, la riduzione della complessità del sistema fiscale, l’ampliamento della sua base e gli sforzi continui per migliorare l’amministrazione fiscale migliorerebbero l’efficienza e l’equità della struttura fiscale per sostenere meglio l’occupazione e la crescita”.

Più nel dettaglio, l’Ocse raccomanda di migliorare “la progettazione e l’adozione dei corsi di apprendimento permanente”, di “aumentare la rilevanza della formazione professionale e di altro tipo per le imprese, anche in ambito Stem e digitale, e definire e applicare standard di qualità”.

E ancora di “migliorare i programmi di ricerca e formazione del lavoro e applicare livelli minimi di servizi in tutto il paese, guidati dall’Anpal, attraverso l’aumento del rapporto tra persone in cerca di lavoro e la specializzazione dei consulenti”, di “sostenere un maggiore accesso allo sviluppo della prima infanzia e all’assistenza all’infanzia per i bambini da 0 a 3 anni” e di “garantire che la protezione sociale sostenga l’ingresso dei beneficiari nel mercato del lavoro e l’accesso al reddito da lavoro”.


Così il Covid ha aggravato i problemi strutturali del nostro Paese

Agli statali lo smart working piace così tanto che nessuno vuole tornare in ufficio

Oltre 9 dipendenti pubblici si 10 (il 93,6%) vorrebbe proseguire con lo smart working anche una volta finita l’emergenza coronavirus. Divenuto obbligatorio a partire da febbraio 2020 con le direttive per il contenimento dell’emergenza sanitaria, lo smart working è stato una novità assoluta per oltre 1/3 delle amministrazioni pubbliche italiane. E ha rappresentato una vera e propria rivoluzione, come emerge da un’indagine di Fpa (società del gruppo Digital360) a cui hanno risposto oltre 4.000 dipendenti pubblici.

Se – come ha sottolineato la ministra della Pa, Fabiana Dadone – una volta tornati alla normalità almeno il 40% dei dipendenti pubblici dovrà adottare una modalità di lavoro agile, questi si dicono pronti: il 93,6% vorrebbe continuare a lavorare in smart working. Ma per la maggior parte (il 66%) il lavoro da casa deve essere integrato con dei rientri in ufficio organizzati e funzionali.

Che ne pensa il lavoratore dello smart working

Oggi, rileva l’indagine, il 92,3% di questi dipendenti della Pa sta lavorando in modalità ‘smart’ e per l’87,7% di loro si tratta di un’esperienza completamente nuova, per cui hanno dovuto utilizzare in maggioranza pc, cellulari e connessioni internet personali, spesso condividendo lo spazio in cui lavorano con altri membri della famiglia, e senza ricevere una formazione specifica sul lavoro da remoto. Eppure, il bilancio dello smart working ‘forzato’ nella Pa è assolutamente positivo: l’88% dei dipendenti giudica l’esperienza di successo e il 61,1% ritiene che questa nuova cultura, basata sulla flessibilità e sulla cooperazione all’interno degli enti, fra gli enti e nei rapporti con i cittadini e le imprese, prevarrà anche una volta finita la fase di emergenza.

Perché piace lo smart working

Lo smart working ha permesso inoltre al 69,5% del personale della Pa di “organizzare e programmare meglio il proprio lavoro”, al 45,7% di “avere più tempo per sé e per la propria famiglia”, al 34,9% di “lavorare in un clima di maggior fiducia e responsabilizzazione”. In 7 casi su 10 è stata assicurata totale continuità al lavoro, per il 41,3% dei lavoratori l’efficacia è persino migliorata (per un altro 40,9% è rimasta analoga). Per oltre il 50% la relazione con i colleghi è invariata, per il 20% addirittura migliorata. 

“L’emergenza Covid19 ha portato un’adozione massiva e rapida dello smart working nella Pa, che può essere il punto di partenza per ridisegnare il futuro del lavoro pubblico – commenta Gianni Dominici, direttore generale di Fpa – le amministrazioni che già stavano sperimentando il lavoro agile hanno saputo reagire meglio all’emergenza, riuscendo a mettere in poco tempo in smart working tutti i dipendenti e superando le difficoltà, tecnologiche e organizzative, causate inevitabilmente da questa introduzione forzata. Questa esperienza, tuttavia, sta dimostrando che anche nella Pa è possibile lavorare in modo flessibile e per obiettivi invece che guardando solo agli orari e al cartellino, con effetti positivi sia per l’attività che per la vita personale”.

“Infranti stereotipi e pregiudizi”

“Perchè lo smart working diventi effettivamente una nuova modalità di organizzazione del lavoro nella Pubblica Amministrazione – conclude Dominici – ora è necessario ripensare i processi di lavoro, definire puntualmente obiettivi e risultati individuali e fare formazione specifica sull’uso delle tecnologie e degli strumenti di comunicazione, come consigliano gli stessi dipendenti pubblici. A questo scopo, approfondiremo e commenteremo i risultati della ricerca durante FORUM PA 2020, che vuole contribuire a una diversa visione di sviluppo anche sul tema del lavoro pubblico”.

“Pur se avvenuta in modo spesso improvvisato, l’applicazione dello Smart Working per la Pa nella prima fase dell’emergenza ha dimostrato un’efficacia da molti inaspettata, infrangendo stereotipi e pregiudizi e dimostrando che un diverso modo di lavorare nella PA non solo è possibile, ma può portare grandi benefici per le amministrazioni, i lavoratori e la società nel suo insieme – afferma Mariano Corso, presidente di P4I, la società di Advisory del gruppo Digital360 e responsabile dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano – la gestione della fase 2 può oggi rappresentare l’occasione per rendere più efficaci le nuove modalità di lavoro, dimostrandone i benefici. In questo modo la fine dell’emergenza non sarà per la Pa un ritorno al passato, ma piuttosto un nuovo inizio da affrontare con modelli di lavoro più flessibili, efficienti e sostenibili”. 

Agi

Perché la quotazione del gigante dell’energia Aramco è così importante

L’Arabia Saudita ultra-conservatrice sta subendo una grande trasformazione sotto il principe ereditario Mohammed bin Salman, che intende porre fine alla dipendenza del regno dai proventi del petrolio. Mentre il paese si apre sul fronte economico, ci sono state anche alcune riforme sociali, tra cui una maggiore libertà per le donne, ma i progressi sono al momento molto lenti e piuttosto deboli. L’iniziativa economica più ambiziosa del principe ereditario è stata finora quella di spingere il gigante dell’energia statale Aramco verso un debutto in borsa. Dopo anni di ritardi, la luce verde è stata annunciata oggi.

PERCHE’ L’IPO E’ COSI’ IMPORTANTE? La vendita di una parte di Aramco costituisce la base del piano di trasformazione del principe Mohammed per l’Arabia Saudita. La dimensione della quotazione rimane nell’aria, ma in origine si sperava che potesse generare fino a 100 miliardi di dollari. Questa cifra, basata su una valutazione di 2.000 miliardi di dollari della società ormai considerata irrealistica, potrebbe non essere raggiunta, ma anche così è probabile che sia la più grande offerta di mercato azionario di tutti i tempi.

Queste risorse sono necessarie per finanziare megaprogetti come NEOM, una mega città futuristica da 500 miliardi di dollari pianificata sulla costa settentrionale del Mar Rosso, che secondo i funzionari avranno taxi volanti e robot parlanti. Visto che al momento non è prevista una quotazione sui mercati esteri, il principe ereditario si affiderà principalmente ai miliardari sauditi per sostenere l’offerta.

SARA’ UN SUCCESSO? Come sempre in questi casi, lo scetticismo abbonda e i livelli di attenzione sulla borsa saudita sarà ai massimi nelle prossime settimane. Secondo alcuni analisti interpellati da France Press, se le azioni dovessero diminuire drasticamente dopo l’inizio delle negoziazioni, sarebbe un colpo molto visibile alla credibilità delle riforme economiche così strettamente associate a Mohammed bin Salman. Non solo, ma gli investitori internazionali presteranno molta attenzione a come Aramco si comporterà sul mercato interno, soprattutto in assenza di qualsiasi dettaglio sull’ipotesi di un suo debutto internazionale.

PERCHE’ ARAMCO E’ COSI’ IMPORTANTE? Aramco pompa circa il 10% del petrolio del mondo dai suoi pozzi sotto le sabbie del deserto, soprattutto a est del regno, ma anche nel suggestivo “Quartiere Vuoto” a sud. Ci sono anche alcuni importanti giacimenti petroliferi offshore. Il colosso dell’energia ha generato l’anno scorso i più importanti risultati rispetto a qualsiasi alta società, con un utile netto di 111 miliardi di dollari, per intenderci più di Apple. Peraltro, il destino di Aramco è fondamentale per l’approvvigionamento energetico mondiale.

MBS COME STA RICOSTRUENDO L’ECONOMIA? Anche prima di diventare principe ereditario nel giugno 2017, il figlio di Re Salman – spesso conosciuto con le sue iniziali MBS – aveva annunciato un piano per diversificare l’economia e allontanarla dalla sua lunga dipendenza dal petrolio. Da allora, il regno è stato testimone di una serie di iniziative mai viste prima, per lo più legate al divertimento e al turismo, tra cui vasti progetti di destinazioni di lusso. Le donne sono state più coinvolte rispetto al passato nel mondo del lavoro, i concerti sono stati aperti ai sauditi, gli eventi sportivi internazionali hanno avuto il via libera e sono stati rilasciati i primi visti turistici.

Nonostante i bassi prezzi del petrolio, il regno ha anche aumentato i prezzi del carburante e dell’elettricità, ha imposto un’imposta sul valore aggiunto (IVA) del 5% e ha imposto dazi su 11 milioni di beni di esportazione nel tentativo di generare entrate aggiuntive.

ORGOGLIO E PAURA PER LA VENDITA DEI GIOIELLI DI FAMIGLIA. L’IPO di Aramco ha generato un sentimento di orgoglio tra i sauditi, e sono in molti ad essere preoccupati di condividere il “gioiello di famiglia” con gli stranieri. Soprattutto i dipendenti vivono completamente immersi nella realtà dell’azienda, in un paese dove le città offrono finora poche attrazioni, e l’Ipo ha esposto Aramco alla visibilità mondiale. Temono quindi un cambiamento sostanziale dell’azienda, e quindi della loro vita. 

Agi

Quello di Tangeri diventa così il porto più grande del Mediterraneo 

Il porto di Tangeri cresce e sfida i grandi del mondo. A inaugurare l’espansione che lo porta a essere il primo porto del Mediterraneo, dell’Africa e tra i primi venti a scala globale, è stato il principe ereditario Moulay Hassan in rappresentanza del re Mohammed VI . Tanger Med, che rappresenta la porta principale del continente, sorpassando Port Said in Egitto e Durban in Sudafrica, è ora in grado di accogliere nove milioni di container, triplicando i tre milioni finora gestiti.

L’investimento totale, avviato ormai dodici anni fa, ammonta a oltre 8 miliardi di euro, di cui 4,87 miliardi di privati. Nei primati di Tanger Med – snocciolati dal presidente del Gruppo, Fouad Brini – ci sono quello di essere la “prima piattaforma di import-export del Paese con flussi di merci per un totale di 30 miliardi di euro” e il “primo eco-porto dell’Africa”.

La maestosa struttura offre la base a 912 aziende nei settori industriale, logistico e dei servizi creando oltre 75 mila posti di lavoro. “La dinamica del Nord del Marocco, territorio di opportunità, conoscerà una nuova accelerazione grazie al nuovo progetto ambizioso della Città Mohammed 6 Tanger Tech, che si svilupperà in perfetta sinergia con i progetti portuali e logistici di Tanger Med”. Sul tavolo c’è un ulteriore piano di investimenti per oltre 800 milioni di euro per accompagnare la crescita dell’export marocchino, dell’industria e dell’agricoltura. 

L’infrastruttura – evidenziano da Rabat – consolida l’ancoraggio del Regno del Marocco nell’area euro-mediterranea e nella regione magrebina e araba, rafforzando la sua vocazione di polo di scambio tra Europa e Africa, tra Mediterraneo e Atlantico e, allo stesso tempo, rafforza il suo ruolo centrale come partner attivo nel commercio internazionale e ben integrato con l’economia globale.

Tanger Med è riuscito a collegare il Marocco a 77 Paesi e 186 porti, contribuendo così ad affermare il Regno sulla scena marittima internazionale e a portarlo dall’83esimo al 17esimo posto nella classifica della Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo (Unctad).

Con l’ampliamento inaugurato venerdì, l’investimento pubblico è stato di 1,3 miliardi di euro per 4,6 chilometri di banchine e 2,8 chilometri di moli, il terminal separato dall’Europa da una striscia di mare di 14 chilometri ha una capacità di gestione del transito di 7 milioni di passeggeri, 700 mila tir e oltre un milione di veicoli l’anno.

A confermare la strategicità dell’opera è l’importante investimento voluto dal gigante dei traporti marittimi Moller-Maersk che gestirà, con una concessione trentennale un terminale nella nuova area inaugurata. Il Vice presidente e Ceo di Apm Terminals, Morten Engelstoft, ha  confermato la fiducia nel progetto attraverso un impegno del gruppo danese per l’investimento di quasi 900 milioni di euro nel nuovo porto, trasformandolo in uno dei più strategici a livello mondiale per Maersk. Tra gli operatori che hanno scelto il porto di Tangeri come base, oltre a Renault e Nissan, vi sono anche altre grandi aziende come Bosch, Adidas e Decathlon e i big della logistica, guidati da Dhl.

Agi