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Germania e Cina si contendono il primato del mercato delle auto elettriche

AGI – Segnali di ripresa per il settore delle auto.

Vendite in Cina più che quadruplicate a febbraio

Su base annuale nel mese sono salite a 1,18 milioni di unità. A febbraio del 2020 le vendite erano affondate del 79% a causa dell’inizio dei lockdown

A febbraio di quest’anno sono state vendute 97.000 auto elettriche, sette volte in più rispetto all’anno precedente, ma il 38% rispetto a gennaio.

Tesla ha venduto 18.318 Model 3 e Model Y prodotte a Shanghai a febbraio. Dal 2020 la Cina sta offerto vari sussidi e incentivi per aiutare a incrementare le vendite. Negli ultimi mesi, le autorità di regolamentazione cinesi hanno annunciato ulteriori aiuti e la costruzione di più strutture di ricarica per le auto elettriche.

Sale la produzione di autoveicoli in Italia

In Italia la produzione di autoveicoli a gennaio è salita del 13,5% rispetto allo stesso mese del 2020 (dati corretti). Lo rende noto l’Istat. Il dato grezzo segna un aumento del 6,4%.

La Germania invece spinge sul green, numero due mondiale

Nel 2020 le immatricolazioni di auto elettriche sono aumentate a livello record del 264% a 394.632 da 108.530 nel 2019. Si tratta del tasso di crescita più alto a livello mondiale.

La Germania è ora al secondo posto dietro la Cina in termini di nuove immatricolazioni, relegando gli Stati Uniti al terzo posto. La Francia è quarta con il numero di nuove immatricolazioni che sale a 194.700, un tasso di crescita del 180%.

Anche i tassi di crescita in Danimarca (245%), Italia (250%), Spagna (136%) e Regno Unito (140%) sono stati alti, anche se il numero assoluto di veicoli in questi mercati è ancora relativamente basso. 


Germania e Cina si contendono il primato del mercato delle auto elettriche

La cassa integrazione è costata 1.234 euro a 7 milioni di lavoratori

AGI – Nelle tasche dei lavoratori dipendenti in cassa integrazione nel 2020 mancano 8,7 miliardi di euro, al netto dell’Irpef nazionale e delle addizionali regionali e comunali. 

È quanto emerge da un’analisi condotta dal servizio Lavoro, Coesione e Territorio della Uil che ha elaborato i dati Inps delle ore autorizzate di cassa integrazione salariale su cui sono state condotte le simulazioni. 

A fronte di circa 4,3 miliardi di ore di cassa integrazione autorizzate nell’anno 2020, i 7 milioni di beneficiari hanno perso, mediamente, 1.243 euro netti pro-capite annui.

Tra riduzione dello stipendio e mancati ratei di tredicesima e quattordicesima – spiega Ivana Veronese, segretaria confederale Uil – in due mesi le buste paga si sono alleggerite mediamente dal 9,6% al 39%, a seconda delle ore di cassa integrazione.

Secondo lo studio, va alla Lombardia il primato della maggior perdita delle retribuzioni nette, pari al 25,5% del totale nazionale (2,2 miliardi di euro), seguita dal Veneto dove i cassaintegrati perdono oltre 964 milioni di euro netti, dall’Emilia Romagna (840 milioni di euro netti) e dal Piemonte (745 milioni di euro netti).  

Dalla simulazione fatta dalla Uil emerge che un dipendente in cassa integrazione per tre mesi a zero ore (con un reddito lordo annuo 20.980), tra riduzione dello stipendio e mancati ratei di tredicesima e quattordicesima, perderebbe 1.611 euro netti annui; con sei mesi di cassa integrazione, lo stesso dipendente subirebbe una riduzione pari a 3.229 euro netti annui, mentre con nove mesi di cassa integrazione la riduzione ammonterebbe a 4.898 euro netti annui; infine, con dodici mesi la riduzione sarebbe pari a 6.611 euro annui.

“Nella riforma più complessiva degli ammortizzatori sociali – sottolinea Ivana Veronese – che si sta discutendo in questo momento, oltre che della necessità di velocizzare e semplificare le procedure, occorre tenere ben presente il tema della revisione dei tetti massimi del sussidio della cassa integrazione e della loro rivalutazione, fissati oggi per Legge, a 998,18 euro lordi mensili per retribuzioni inferiori o pari a 2.159,48 e a 1.199,72 per retribuzioni superiori a 2.159,48 euro”.

“Oltre all’innalzamento dei massimali – conclude Veronese – la rivalutazione dei sussidi dovrebbe essere ancorata agli aumenti contrattuali e non soltanto al tasso di inflazione annua che, come noto, negli ultimi anni ha registrato indici molto vicini allo zero”.


La cassa integrazione è costata 1.234 euro a 7 milioni di lavoratori

Aziende italiane pronte a  produrre il vaccino contro il Covid in 4-6 mesi  

AGI – Le aziende italiane sono pronte a produrre il vaccino contro il Coronavirus in 4-6 mesi. E’ quanto è emerso nel nuovo incontro al Mise con le case farmaceutiche, dove è stata ribadita la volontà di partecipare al progetto europeo per il rafforzamento della produzione di vaccini. 

Il ministro dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti ha verificato la disponibilità di alcune aziende a produrre i bulk, ossia il principio attivo e gli altri componenti del vaccino anti Covid, perché già dotate, o in grado di farlo a breve, dei necessari bioreattori e fermentatori. 

La produzione potrà avvenire a conclusione dell’iter autorizzativo da parte delle autorità competenti, in un tempo stimato di 4/6 mesi.

È stato anche appurato che ci sono le condizioni immediate per avviare la fase dell’infialamento e finitura. Sono già pronte a partire molte aziende. 

All’incontro è stato dato mandato dal ministro ai diversi rappresentanti competenti di procedere all’individuazione di contoterzisti in grado di produrre vaccini entro autunno del 2021.

Il ministro ha confermato la volontà del governo di realizzare in Italia un polo per la ricerca di farmaci e vaccini con investimenti pubblici e privati.

Durante l’incontro, a cui hanno partecipato il presidente di Farmindustria, Massimo Scaccabarozzi, il direttore generale Enrica Giorgetti, il direttore centro studi Carlo Riccini,  il presidente dell’Aifa Giorgio Palù, il commissario per l’emergenza Paolo Figliuolo e il sottosegretario alla presidenza Franco Gabrielli, si è deciso infine di mantenere il massimo riserbo sulle aziende che saranno coinvolte nel processo di verifica in corso.(AGI)
 


Aziende italiane pronte a  produrre il vaccino contro il Covid in 4-6 mesi  

L’estate senza turisti stranieri costa all’Italia 11,2 miliardi

AGI – “L’estate senza stranieri in vacanza in Italia costa 11,2 miliardi al sistema turistico nazionale per le mancate spese nell’alloggio, nell’alimentazione, nei trasporti, divertimenti, shopping e souvenir”. Lo denuncia la Coldiretti in base ai dati Bankitalia in riferimento all’importanza del via libera al certificato vaccinale europeo per l’estate annunciato dal presidente del Parlamento Europeo David Sassoli.

“L’Italia – sottolinea la Coldiretti – è fortemente dipendente dall’estero per il flusso turistico con ben 23,3 milioni di viaggiatori stranieri che la scorsa estate hanno dovuto rinunciare a venire in Italia per effetto delle limitazioni e alle preoccupazioni per la diffusione del contagio. Si tratta un vuoto pesante che è costato al sistema turistico nazionale ben 11,2 miliardi di euro per le mancate spese degli stranieri nel periodo da giugno a settembre che purtroppo non vengono compensate dalla svolta vacanziera patriottica degli italiani”.

“I turisti dall’estero da Paesi come gli Stati Uniti, la Gran Bretagna o la Cina hanno tradizionalmente una elevata capacità di spesa ma che adesso sono anche quelli che stanno procedendo velocemente nella campagna di vaccinazione – prosegue Coldiretti – ad essere colpite sono state soprattutto le città d’arte che sono le storiche mete del turismo dall’estero ma in difficoltà anche gli oltre 24mila agriturismi nazionali dove gli stranieri in alcune regioni secondo Campagna Amica rappresentano tradizionalmente oltre la metà degli ospiti nelle campagne. Si tratta di un costo che grava sul sistema turistico nazionale per le mancate spese nell’alloggio, nell’alimentazione, nei trasporti, divertimenti, shopping e souvenir”. 


L’estate senza turisti stranieri costa all’Italia 11,2 miliardi

“Il  Paese ha smesso sognare e ora sta a noi indicare strada”, dice Bonomi

AGI  – “Questo Paese ha smesso di sognare da tanto tempo e, soprattutto in un periodo in cui il lockdown ci ha sottoposti come imprenditori e come cittadini a una situazione  difficile che inizialmente abbiamo affrontato con grande spirito. Oggi per una serie di motivazioni questo spirito, questa resilienza, come viene detta, si sta sfibrando. Invece noi dobbiamo essere i primi a indicare al Paese una strada”. A dirlo, il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, intervenendo in collegamento all’assemblea dei soci dell’associazione a Salerno.

Una strada che “oggi è un sentiero – ha aggiunto il leader di Confindustria – ma noi lo dobbiamo far diventare un’autostrada. E’ l’autostrada dei sogni. Quella che hanno avuto i nostri padri, usciti dalla guerra in un Paese disastrato, senza materie prime, che però volevano dare un futuro migliore ai loro figli”. La strada è “quella che hanno avuto i nostri padri, usciti dalla guerra in un Paese disastrato, senza materie prime, che però volevano dare un futuro migliore ai loro figli”.

“Tornare a dare un sogno al Paese”, ha ribadito Bonomi: “Se noi non torneremo a dare un futuro e la credibilità di un futuro migliore per tutti noi, sarà difficile – ha sottolineato – potremo mettere in campo tutti i provvedimenti che vogliamo, ma se non abbiamo il sogno e la volontà di raggiungere quel sogno e di costruire le basi per quel sogno, credo che come Paese falliremo e falliremo, e falliremo per i nostri figli”. “Noi stiamo costruendo per le future generazioni, stiamo prendendo debito delle future generazioni ma se non faremo un debito, come lo definisce il presidente Draghi, ‘buono’, per creare quel futuro migliore per i nostri figli, noi faremo il più grande fallimento come persone e come imprenditori”.


“Il  Paese ha smesso sognare e ora sta a noi indicare strada”, dice Bonomi

In otto anni sono spariti 77 mila negozi nelle nostre città

AGI – Tra il 2012 e il 2020 è proseguito il processo di desertificazione commerciale e, infatti, sono sparite, complessivamente, dalle città italiane oltre 77mila attivita’ di commercio al dettaglio (-14%) e quasi 14mila imprese di commercio ambulante (-14,8%).

E’ quanto rileva l’analisi dell’Ufficio Studi di Confcommercio ‘Demografia d’impresa nelle citta’ italiane‘, secondo cui per il Covid nel 2021, solo nei centri storici dei 110 capoluoghi di provincia e altre 10 città di media ampiezza, oltre ad un calo ancora maggiore per il commercio al dettaglio (-17,1%), si registrera’ per la prima volta nella storia economica degli ultimi due decenni anche la perdita di un quarto delle imprese di alloggio e ristorazione (-24,9%). 

Inoltre aumentano le imprese straniere e diminuiscono quelle a titolarità italiana e a livello territoriale, il Sud, rispetto al Centro-Nord, perde più ambulanti, ma registra una maggiore crescita per alberghi, bar e ristoranti.    

Con l’arrivo del Covid, poi, anche il commercio elettronico, che vale ormai più di 30 miliardi, registra cambiamenti: nel 2020 è in calo del 2,6% rispetto al 2019 come risultato di un boom per i beni, anche alimentari, pari a +30,7% e di un crollo dei servizi acquistati (-46,9%). Quindi, città con meno negozi, meno attività ricettive e di ristorazione e solo farmacie e informatica e comunicazioni in controtendenza col segno più.    

Per Confcommercio “il rischio di non ‘riavere’ i nostri centri storici come li abbiamo visti e vissuti prima della pandemia è, dunque, molto concreto e questo significa minore qualità della vita dei residenti e minore appeal turistico”.      

Sangalli, contro desertificazione sostenere imprese

“Per fermare la desertificazione commerciale delle nostre città, bisogna agire su due fronti – sottolinea il presidente di Confcommercio, Carlo Sangalli – da un lato, sostenere le imprese più colpite dai lockdown e introdurre finalmente una giusta web tax che risponda al principio ‘stesso mercato, stesse regole’. Dall’altro, mettere in campo un urgente piano di rigenerazione urbana per favorire la digitalizzazione delle imprese e rilanciare i valori identitari delle nostre città”.

Tutti i numeri di Confcommercio

Tra il 2012 e il 2020 – secondo l’analisi – si è verificato un cambiamento del tessuto commerciale all’interno dei centri storici che la pandemia tenderà a enfatizzare.

Per il commercio in sede fissa, tiene in una qualche misura la numerosità dei negozi di base come gli alimentari (-2,6%) e quelli che, oltre a soddisfare bisogni primari, svolgono nuove funzioni, come le tabaccherie (-2,3%).

Significativi sono invece i cambiamenti legati alle modificazioni dei consumi, come tecnologia e comunicazioni (+18,9%) e farmacie (+19,7%), queste ultime diventate ormai luoghi per sviluppare la cura del sé e non solo quindi tradizionali punti di approvvigionamento dei medicinali. 

Il resto dei settori merceologici è invece in rapida discesa: si tratta dei negozi dei beni tradizionali che si spostano nei centri commerciali o, comunque, fuori dai centri storici che registrano riduzioni che vanno dal 17% per l’abbigliamento al 25,3% per libri e giocattoli, dal 27,1% per mobili e ferramenta fino al 33% per le pompe di benzina.

La pandemia acuisce questi trend e lo fa con una precisione chirurgica: i settori che hanno tenuto o che stavano crescendo cresceranno ancora, quelli in declino rischiano di scomparire dai centri storici. Quanto alle dinamiche riguardanti ambulanti, alberghi, bar e ristoranti, a fronte di un processo di razionalizzazione dei primi (-19,5%), per alberghi e pubblici esercizi, che nel periodo registrano rispettivamente +46,9% e +10%, il futuro è molto incerto.

Ma occorre reagire per dare una prospettiva diversa alle nostre città che rappresentano un patrimonio da preservare e valorizzare. Le direttrici indicate sono tre: un progetto di rigenerazione urbana, l’innovazione delle piccole superfici di vendita e una giusta ed equa web tax per ripristinare parità di regole di mercato tra tutte le imprese.


In otto anni sono spariti 77 mila negozi nelle nostre città

L’allarme della Corte dei Conti sul debito pubblico

AGI – La Corte dei conti inaugura l’anno giudiziario 2021 in un contesto di chiaroscuri. L’ombra del Covid pesa sulla Sanità, le perdite umane sono altissime e il quadro economico assume “connotazioni gravi” e non appare di “rapida soluzione”. Anzi, i magistrati contabili evidenziano un “elevato rischio di insostenibilità del debito pubblico”.

L’unica luce che si intravede all’orizzonte proviene dal nuovo Quadro finanziario pluriennale dell’Ue 2021-2027 che, integrato dal Next Generation Eu, costituisce “il motore per rilanciare, nei prossimi anni, le economie dei Paesi membri”.

Proprio per questo bisogna adoperarsi affinché le iniziative del Pnrr vengano individuate e attuate in maniera trasparente. Dietro l’angolo c’è infatti lo spettro che “molti, per motivi criminosi, possano trarre vantaggio dalla pandemia”.

Deve esserci quindi un controllo che, come sottolinea il presidente del Consiglio, Mario Draghi, “deve essere intransigente e rapido” e le istituzioni devono marciare insieme per la rinascita economica e sociale del Paese.

L’ELEVATO RISCHIO DI INSOSTENIBILITA’ DEL DEBITO “Il sostegno, fin qui, offerto dalla Bce ai Paesi dell’Unione europea, con gli acquisti di titoli del debito pubblico è stato utile, se non determinante per l’Italia, ma, negli anni a venire, comporta necessariamente un elevato rischio di insostenibilità del debito pubblico, pervenuto ad oltre il 160 per cento del Pil, stante, altresì, la contemporanea netta riduzione delle entrate tributarie attese”, scrive la Procura generale della Corte dei conti nella relazione, sottolineando come “le aumentate necessità del sistema sanitario nazionale, la riduzione delle attività economiche, il vertiginoso aumento delle richieste di cassa integrazione, l’impellenza di garantire un sostegno al reddito anche di lavoratori autonomi, hanno prodotto abnormi incrementi della spesa pubblica, finanziata a debito”.

Per questi motivi, avverte la magistratura contabile, “risulta quanto mai necessario e urgente che la spesa pubblica – fatte salve le misure di sostegno sociale – sia indirizzata ad investimenti realmente produttivi, tali da comportare un significativo aumento del tasso di produttività e di riportare l’economia a tassi di crescita, ormai dimenticati nel nostro Paese da oltre un ventennio”. All’allarme risponde Draghi spiegando che “ai livelli attuali non sono i tassi di interesse che determinano la sostenibilità del debito pubblico, ma è il tasso di crescita di un paese. 

IL RECOVERY MOTORE DEL RILANCIO MA SERVE TRASPARENZA Pur nella critica situazione economica, finanziaria e sociale, vanno colte le opportunità offerte dal nuovo Quadro finanziario pluriennale dell’Ue 2021-2027 che, integrato dal Next Generation Eu-Recovery Fund, costituisce “il motore per rilanciare, nei prossimi anni, le economie dei Paesi membri”, dice Guido Carlino, presidente della Corte dei conti.

Con il Next Generation, l’Unione Europea “ha preso una decisione, ispirata alla solidarietà, senza precedenti”, rimarca Draghi sottolineando che “mai nella storia dell’Ue, i governi avevano tassato i loro cittadini per dare il provente di questa tassazione ai cittadini di altri paesi dell’Unione. è avvenuto con i trasferimenti a fondo perduto stabiliti dal Next Generation. Si tratta di una straordinaria prova di fiducia reciproca”.

Adesso però “occorre evitare gli effetti paralizzanti di quella che viene definita la ‘fuga dalla firma’”. In quest’ottica, secondo il presidente della Corte dei conti, le iniziative individuate per il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr) potranno essere utilmente attuate “nella consapevolezza che puo’ esservi ripresa solo in presenza di trasparenza, legalità finanziaria e controlli che garantiscano la realizzazione dei programmi finanziati”.

Gli fa eco il Procuratore generale, Angelo Canale, che spiega come la fase della cosiddetta ripresa richiederà “sforzi enormi e grande attenzione nell’impiego delle ingenti risorse del Next Generation Eu”. Secondo Canale, “non un euro dovrà essere sprecato; non un euro dovrà finire nelle tasche dei profittatori, dei disonesti, dei criminali”, questo deve essere “l’imperativo categorico per tutti”. In questo senso la Corte dei conti auspica iniziative normative che non riducano la propria “concreta capacità di intervento nei confronti di fattispecie di sperpero, di sviamento e cattiva gestione delle risorse pubbliche”.

IL RUOLO CRUCIALE DELLA CORTE DEI CONTI La Corte è stata “un guardiano autorevole”, sottolinea Draghi, e oggi con il tema del Recovery fund, il ruolo diventa ancora più importante, per far sì che le risorse provenienti dall’Europa “vengano impiegate correttamente”.

Secondo il premier, poi, “sta a chi governa fare le scelte strategiche, sta a chi amministra eseguirle in maniera efficace ed efficiente e a chi controlla verificare che le risorse siano impiegate correttamente. Governo, Parlamento, Amministrazione Pubblica, Corte dei Conti e tutte le Istituzioni del nostro Paese devono essere coprotagonisti di un percorso di rinascita economica e sociale”.

L’emergenza epidemiologica e la connessa crisi economica “mettono senz’altro a dura prova la richiesta di maggiore velocità e migliore trasparenza che i governati richiedono ai governanti in ogni luogo. In democrazia è più difficile rispondere a questa doppia domanda, eppure lo Stato è chiamato a farlo, pena la perdita di fiducia verso le istituzioni, che fiacca la fiducia nel futuro”, rileva ancora il premier.

Draghi si dice poi profondamente convinto che “le contrapposizioni tra istituzioni siano un gioco a somma negativa, mentre la collaborazione produce effetti moltiplicatori. è a questo principio di leale e costruttiva collaborazione che penso vada improntata la relazione tra chi agisce e chi controlla: questo principio deve guidare tutti i servitori dello Stato, controllati e controllori”.

PUNTARE SU SEMPLIFICAZIONE E DIGITALIZZAZIONE Per arginare la cattiva amministrazione, che “è il fertile terreno per illiceità, sperperi di pubblico denaro, abusi e corruzione”, bisogna, secondo i magistrati contabili, puntate sulla semplificazione di regole e processi decisionali, investire nella digitalizzazione e nell’innovazione.

Queste “sono le giuste strade”, sostiene Canale, come lo è anche “formare una dirigenza consapevole, preparata e in grado di affrontare le difficoltà con coraggio e l’orgoglio di svolgere un servizio pubblico. La deresponsabilizzazione, invece, non è mai un rimedio”. 


L’allarme della Corte dei Conti sul debito pubblico

“Draghi alla guida dell’Italia è un’ottima notizia, rassicura i leader Ue”, dice Gentiloni

AGI – Mario Draghi alla guida dell’Italia è “un’ottima notizia”. Così Paolo Gentiloni, commissario europeo all’Economia, in un’intervista al New York Times. Per Gentiloni, l’arrivo dell’ex presidente della Bce, dopo la crisi del governo Conte, ha rassicurato i leader europei, soprattutto per la reputazione che Draghi ha di “preoccuparsi dell’esecuzione”.

Il quotidiano ricorda che i paesi del Nord Europa sono preoccupati per la capacità dell’Italia di spendere efficacemente i soldi del Recovery Fund e che, dopo aver salvato l’euro come presidente della Banca centrale europea, Draghi ora deve salvaguardare il sogno di un’Unione sempre più unita e fiscalmente integrata. “Se riesce, questo è un pilastro per un successo europeo”, osserva Gentiloni.

“Sono sicuro che Draghi è ben attrezzato, ha l’esperienza per affrontare questi famosi colli di bottiglia”, spiega l’ex premier. La versione definitiva del Piano nazionale di ripresa e resilienza dovrà essere presentata entro fine aprile alla Commissione europea: Gentiloni non vede alcun motivo per cui l’Italia dovrebbe essere in ritardo ed esprime fiducia nella capacità di Draghi di fare le cose. Sarebbe importante per l’Italia, ma anche per l’Europa, “non solo a breve termine ma anche a lungo termine”, conclude il commissario europeo. 


“Draghi alla guida dell’Italia è un’ottima notizia, rassicura i leader Ue”, dice Gentiloni

Nel 2020 dieci ministeri hanno pagato in ritardo i debiti con i fornitori 

AGI – “In una fase di difficoltà economica senza precedenti tutti si sarebbero aspettati che almeno i ministeri avessero pagato con puntualità le imprese fornitrici. Invece, le cose sono andate diversamente. Nel 2020, infatti, ben 10 ministeri su 12 lo hanno fatto in ritardo rispetto alle disposizioni previste dalla direttiva europea; in moltissimi casi peggiorando lo score registrato nel biennio precedente e confermando un trend che relega la nostra pubblica amministrazione tra le peggiori pagatrici d’Europa”. Lo afferma l’Ufficio studi della Cgia.

Nel 2020, ricorda l’associazione, “la situazione più critica relativa all’Indicatore di tempestività nei pagamenti registrato dai dicasteri italiani riguarda il ministero dell’Interno che ha saldato le fatture ricevute con un ritardo medio di oltre 62 giorni. Seguono il ministero della Difesa con oltre 36, lo Sviluppo Economico con quasi 28 e il ministero delle Infrastrutture con quasi 27.

Gli unici dicasteri che hanno anticipato il saldo fattura rispetto alle scadenze previste dalla legge sono il ministero dell’Istruzione Università e Ricerca (-7,27) e gli Affari Esteri (-20,34)”. In Italia, ricorda ancora l’Ufficio studi della Cgia, “il volume d’affari che ruota attorno alle commesse di tutta la P.a ammonta complessivamente a circa 140 miliardi di euro all’anno e il numero delle imprese fornitrici si aggirano attorno un milione”.

Secondo i dati presentati dall’Eurostat nell’ottobre scorso, spiega l’ufficio studi, negli ultimi 4 anni i debiti commerciali nel nostro Paese di sola parte corrente sono in costante aumento. Secondo le stime redatte a livello europeo, nel 2019 lo stock avrebbe toccato i 47,4 miliardi di euro. “Nonostante le promesse politiche e gli impegni di spesa presi dalle amministrazioni pubbliche – osservano gli artigiani di Mestre – le imprese fornitrici faticano a farsi pagare. Ma la cosa più inammissibile di tutta questa vicenda è che nessuno è in grado di affermare a quanto ammonta ufficialmente il debito commerciale della nostra p.a; ovverosia aggiungere ai debiti di parte corrente anche la quota riferita al conto capitale, sebbene da qualche anno le imprese che lavorano per il pubblico abbiano l’obbligo di emettere la fattura elettronica”.

Tre le principali cause per le quali le pubbliche amministrazioni non rispettano i tempi di pagamento la Cgia cita: la mancanza di liquidità da parte del committente pubblico; i ritardi intenzionali; l’inefficienza di molte amministrazioni a emettere in tempi ragionevolmente brevi i certificati di pagamento; le contestazioni che allungano la liquidazione delle fatture.

A queste cause, secondo l’organizzazione, “ne vanno aggiunte almeno altre due che, tra le altre cose, hanno indotto, nel gennaio del 2020, la Corte di Giustizia europea a condannarci: la richiesta, spesso avanzata dalla P.a nei confronti degli esecutori delle opere, di ritardare l’emissione degli stati di avanzamento dei lavori o l’invio delle fatture; l’istanza rivolta dall’amministrazione pubblica al fornitore di accettare, durante la stipula del contratto, tempi di pagamento superiori ai limiti previsti per legge senza l’applicazione degli interessi di mora in caso di ritardo”.

Secondo la Cgia, “per risolvere questa annosa questione che sta lasciando senza liquidità tantissime imprese, soprattutto di piccola dimensione, c’e’ solo una cosa da fare: nel caso di mancato pagamento, bisogna prevedere per legge la compensazione secca, diretta e universale tra i debiti della p.a verso le imprese e le passivita’ fiscali e contributive in capo a queste ultime. Grazie a questo automatismo risolveremmo un problema che ci trasciniamo da almeno 15 anni”. 


Nel 2020 dieci ministeri hanno pagato in ritardo i debiti con i fornitori